Bell'articolo su Bielsa,leggetelo
Quando si presentò a Marsiglia, la prima domanda che gli fecero fu: «Perché la chiamano Il Loco, il Folle?». Lui sollevò lo sguardo dal tavolo della conferenza e rispose con la severità del giudice: «Perché a volte do risposte che non coincidono con quelle che uno normalmente dà». Di tutti i nomi di allenatori circolati in questi giorni in Italia, non è mai stato fatto seriamente quello dell’unico straniero che invece di italianizzarsi, come Mourinho, Benitez, Garcia, forse ci avrebbe cambiato un poco: Marcelo Bielsa. C’è stato un momento, due settimane fa, in cui il tecnico era indeciso se continuare con il Marsiglia. Nessuno si è fatto vivo dall’Italia. L’ostacolo non è stato l’ingaggio, circa tre milioni a stagione, ma qualcosa di più profondo: la sua irriducibile diversità.
Incontrollabile, idealista, testa dura, architetto del caos lo definì Valdano, formatore di anime secondo Guardiola, 59 anni, argentino di Rosario, figlio di un magistrato e di una docente, Bielsa è un tecnico all’antica ma non un uomo all’antica. Uno Zeman argentino, la sacra ossessione per la fatica e la fase offensiva, ma con più sapienza calcistica e umiltà. «Noi allenatori non inventiamo nulla, spieghiamo alla squadra solo quello che ci hanno insegnato i grandi giocatori». Quando a novembre, il Marsiglia in testa, si cominciò a parlare di Bielsamania, come di un fenomeno che stava cambiando la cultura francese, lui spiegò che il suo modo di intendere il calcio era l’opposto e che, in fondo, non aveva ancora affrontato le migliori cinque del campionato. In Italia, i suoi colleghi – direbbe Pennac – si sarebbero messi nudi davanti allo specchio gonfiandosi d’orgoglio. Lui no, e comunque Bielsa aveva ragione: il Marsiglia ha finito per perdere le prime posizioni, ma non la sua identità di squadre furente, tutta corsa e attacco. Ama i compromessi sinceri, Bielsa, non quelli di facciata. Se Zeman sogna il numero di cellulare 433 433 433, Bielsa aveva rinunciato al suo 3-3-3-1, per giocare con il 4-2-3-1. A primavera aveva accettato la richiesta dei giocatori di rallentare il lavoro. Se per Nietzsche solo l’eccesso di forza dimostra la vera forza, facendo un passo indietro Bielsa aveva mostrato una forza formidabile. E a fine stagione ha assolto la squadra: non ho niente da rimproverare ai giocatori, quello che doveva essere all’altezza era l’allenatore. Parole rare dalle nostre parti, dove dominano opportunismo, conformismo e salti in avanti. E dove gli stranieri imparano in fretta. Benitez ha lasciato Napoli per il Real, cavandosela con la classica lettera strappalacrime. Bielsa, lasciata la nazionale argentina, rifiutò il Real Madrid – forse unico caso nella storia – perché non voleva far credere di aver lasciato la selezione del suo Paese per andare nel club più importante al mondo.
I fatti sono importanti per definire il personaggio. L’anno scorso, in conferenza stampa a Marsiglia, l’argentino smascherò pubblicamente il suo presidente: «Mi ha parlato di un progetto ma mi ha detto subito che non era in grado di sostenerlo. Volevo Medel, Koke, Montoya, Stambouli e non è arrivato nessuno di loro. Il club mi ha deluso ma vedo lo stesso il gruppo con ottimismo». Qui lo avrebbero cacciato, ma va riconosciuto che Bielsa è diverso da tutti gli altri: non parla per comunicati, non concede interviste, non ama i giornalisti ruffiani e, soprattutto, incompetenti. Se i problemi gli vengono posti sinceramente, li accetta. Se no, si arrabbia. Parla molto dei suoi giocatori ma parla poco con i suoi giocatori. E, in ogni caso, dà loro del lei. Se alla decima ripetuta sui gomiti stile Full Metal Jacket non lo odiano, finiscono per amarlo. Del resto, il talento è un fatto involontario, lo sforzo non si negozia. L’esempio – un altro pilastro della teologia bielsiana – lascia messaggi più profondi delle parole. «Per me la responsabile dell’ospedale pediatrico di Rosario è quella che fa più di tutti, non parla, ma fa. Noi allenatori parliamo e, alla fine, non diciamo niente». Parla il campo. Lavorare meno per vincere di più, gli dicevano: lui, invece, si è diplomato preparatore fisico e le sue squadre finiscono la stagione spompate, ma l’anno successivo corrono di più. Vince il 40 per cento delle gare all’andata, il 30 al ritorno. Poi, crollano quando se ne va. Mentalmente, confessò Fernando Llorente, Bielsa ti svuota. E’ così da sempre. Newell’s, Velez, Atheltic Bilbao, Marsiglia. Ti prende, ti stravolge e ti lascia stremato. C’è, in Italia, qualcuno che gli somigli? Conte, forse, ma ha meno umiltà e spessore. Intanto quando vince senza merito, Bielsa lo ammette. Non per umiltà, ma «per una questione di analisi profonda». Coltiva la sfida della rivoluzione, sostiene che a volte bisogna fare un passo indietro, accettare la sfida, il cambio, il rischio, tutte parole eversive in Italia.
Quando era allenatore del Velez, in Argentina, le cose stavano andando male. Il portiere, Chilavert, da settimane gli remava contro. Un giorno, durante un volo di trasferimento della squadra, l’aereo entrò in una turbolenza così spaventosa da allertare le hostess. I carrelli con le bevande scorrevano. I giocatori tremavano. Chilavert era pallido e nervoso. Bielsa si alzò dal suo posto e si mise a sedere accanto al portiere. Con tono calmo, gli chiese: «Ma alla fine, lei è davvero felice?». Poteva essere il suo ultimo pensiero, Chilavert non ebbe bisogno di rispondere. Il Velez cambiò passo e vinse il titolo, grazie anche al suo portiere. Da allora Bielsa non è cambiato perché i folli – come scriveva il suo concittadino Ernesto Che Guevara – continuano sempre a dire la verità. Per questo in Italia non lo hanno chiamato.
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