Opere HOT ZONE - LA ZONA ROSSA

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
7a stanza e ∞


Edipo a tre


Riepilogo delle puntate precedenti
1.Il protagonista, 11 anni, si fa mille seghe durante l'estate del '94, fin quando viene scoperto dalla zia Elena, sorella di sua madre, che in una mattina di febbre lo seduce introducendosi nel suo letto.
2.[puntata mancante]Il ragazzino perde la verginità.
3.I due diventano amanti. Torridi amplessi nel caldo agostano. Un pomeriggio, d'improvviso, l'orrore: il protagonista sviene mentre sodomizza la zia.




4.
Risveglio: più una morte che una nascita. Un abbandono, una perdita, la sensazione di essere stato strappato a uno stato di presenza, un'inversione cieca del compromesso emotivo tra apparenza e realtà; una sorpresa sgradita, una visita inattesa, come riaversi dal momento ipnagogico appena prima di scivolare nel sogno, dopo un'agonia per staccarsi dalla veglia. Perturbante sensazione di tempo e luogo: stavo meglio da morto.
Lentamente, misi a fuoco la mia soggettiva, come attraverso una lente d'obbiettivo, una lastra di vetro ricoperta di grasso e gelatina. I capelli mossi, evidentemente dal vento, il naso le labbra e gli occhi. Morfologia umana: era la zia. Impreparato, mi mossi per scappare, come l'istinto di un cane sul letto d'acciaio del veterinario, ma lei, padrona assoluta, mi trattenne per le braccia:
«tranquillo amore, tranquillo, ci sono qua io, sono qua... non aver paura, sarà stata un'insolazione».
Un colpo di calore, un tiro mancino dell'estate, il sole a duecento la digestione lenta e il rombo del mare, ma ero certo di aver appena vissuto l'esperienza più brutta della mia vita, e non riuscivo ancora, adesso nel silenzio dell'abitacolo, a togliermi di dosso la sensazione di paura, di morte, di scivolone nell'incoscienza e quindi di sparizione, di scacco geometrico, di nulla astratto ma indefettibilmente reale, percezione ben più inerente al mio spirito che quell'automobile e quel momento. Pur senza avere freddo, mi accorsi di stare tremando.
«M'hai fatto prendere uno spavento...! Mannaggia a te, proprio mentre stavo per venire!»
Rabbrividii, ancora e più forte. Era quel “venire” la metamorfosi che avevo visto compiersi all'apice dell'allucinazione? Era il caldo ad aver provocato quella spersonalizzazione, o una percezione folle e saggia di quel che la zia stava attuando aveva fatto implodere la mia mente fino a farle decidere di svanire, di rinunciare, di farla finita? Non potevo giudicare, ma istintivamente continuavo anche adesso, nella quiete della ricostruzione, a temere per la mia sopravvivenza, un terrore cui, ad ogni istante di successione dal precedente al seguente, punto di passaggio che pur non esistendo sentivo bloccarmi il sangue e il tempo con la stessa gravità del mondo, si aggiungeva inesorabile l'orrore, la paura di aver paura, di trasferire al sistema il virus dell'abbaglio immediatamente fisico della morte, di infettare la coscienza e renderla incapace di pensare, di riprodurre in sé la vita e il mondo perché occupata a neutralizzare quell'istinto di pericolo che andava costruendosi l'esistenza come concetto, mangiandosi ogni sensazione, percezione e risposta razionale per fissarsi in tutto il mio esserci, incollarsi alla pelle e alle sinapsi, senza che nessun ctrl alt canc potesse valere, senza l'opportunità di un nuovo riavvio. Una paranoia, insomma. Sentii che mi stava risalendo un'altra volta, che da qualche parte dentro di me era stato lanciato ancora l'allarme rosso, che stavo per rientrare nella crisi e riuscire dal corpo. Mi accorsi di vedere, di nuovo, come attraverso una lente, una soggettiva cinematografica: i miei occhi erano sull'immagine del parabrezza e della strada fuori, ma non riuscivo a stabilire la presa su essi, il contatto tra i miei nervi, la figura e lo sfondo. L'orrore.
Dalla radio, che la zia accese al culmine del silenzio, uscì fuori Raf con il suo “Battito animale” che “c'ha un tiro micidiale che ti prende e che ti porta via con sé”. Riuscii a sentire, a ricordare la canzone, come una corda fatta di nulla e tesa nel nulla. Feci emergere dalla gola un gracchio malaticcio, minuto, il minimo per aggrapparmi, provare a sentirmi parlare, riconoscere la mia voce, cantare, liberarmi da quella stretta, uscire dalla mia testa fuoriuscita dal corpo con l'istinto di ritrovarmi, poi, ancora da qualche parte:
Credo abbiam perso la testa
o soltanto perso di vista
le cose più vere
nel mare in tempesta
e forse non basta
ma confesso di avere paura
e non mi era ancora successo
paura del mondo
di te e a volte anche di me stesso
no, no, non passa.

Anche la zia la sapeva, e l'intonò insieme a me, apparentemente ignara di tutto quel che mi stava passando e, anzi, magari convinta di non aver perso l'intesa, serena e selvaggia come se non fosse successo niente, “solo un'insolazione”.
Smisi di cantare, e restai ad ascoltarla. La sapeva a memoria. Di profilo, mentre guidava con un'aria spensierata e giovanile, constatai che era “comunque bella” e che niente, nella linea del suo viso, avrebbe potuto far pensare che fosse capace di trasformarsi in una bestia mitologica pronta a risucchiarmi con il suo ano, bocca d'Averno dalla cui soglia, poco prima, avevo visto il sole tramontare per sempre. Mi chiedevo se fosse davvero possibile ch'ella si componesse di sostanza divina e forma mutevole, come un nume d'arcana memoria, o se piuttosto non fosse tutto che una sciarada, un colpo di stato della mia immaginazione, che si era messa a viaggiare ad un ritmo che non riuscivo più a dirigere e controllare, producendo un'illusione che, tuttavia, non avevo il coraggio, razionalmente, di classificare come sogno.
«Stai meglio? Sei d'un pallido... Hai perso tutta l'abbronzatura!»
No, non stavo meglio per niente; stavo tanto male come mai mi era successo dalla nascita. Mi si gonfiarono gli occhi di lacrime, e constatai la veridicità dell'espressione “nodo alla gola”, ma non avevo la benché minima fiducia per aprire la mia porta proprio a lei: anche senza testarmi, anche senza chiudere gli occhi, rivedevo il suo becco scintillare, le sue unghie affondare la sabbia e le sue ali ghermirmi d'un colpo, come un innamoramento senza amore, dunque come un'ossessione
«Si va meglio. Non capisco che è successo, non mi sono più reso conto, non mi ricordo».
Probabilmente, non si accorse nemmeno che la mia voce tremava come un neonato appena espulso dall'utero
«è un peccato perché stavo godendo, davvero. Tu, amorino, eri magnifico perché non sempre mi capita di godere col culo, non è mai detto eh, non ti credere, quindi grazie anche se non sono venuta, hai un cazzo davvero eccezionale»
«Si... E cosa stavi facendo prima, con le mani?»
A bruciapelo, perché non riuscivo a smettere di pensare che quei movimenti fossero l'esecuzione della sua malìa, e quindi per capire, per vedere la sua reazione al sentirsi sgamata, con un'intraprendenza investigativa decisamente estemporanea. Non riuscii ad alzare la voce e darle un tono, ma lei mi sentì lo stesso
«Tai-Chi».
Senza aggiungere altro, e senza alcuna reazione in particolare, come se le avessi chiesto “che ore sono?”.
Tai-Chi? Tai-Chi cosa? Che voleva dire? Una frase, ma che frase? In che lingua? Una formula, una parola segreta, forse? Provai a ripeterla per vedere che sarebbe successo, con il timore religioso di vedermela mutarsi in aquila al volante dell'auto
«Tai-Chi»
«Si. Un giorno ti spiegherò».
La sua risposta mi fece salire di nuovo le lacrime fino ai bordi degli occhi, eppure non piansi, reprimendo completamente tutto me stesso ancora una volta. Escluso dal segreto perché troppo piccolo, umiliata e castrata la mia virilità di cui quest'essere continuava – a questo punto, incoerentemente, o con coerenza malata – a servirsi, ritornai nel silenzio, come una bestia del bosco che riscappa nella tana: qualunque cosa fosse il tai-chi, la sua magia mi aveva ridotto in uno stato larvale, insicuro e incapace di fare qualunque movimento, nel timore di non sentire più niente, nel sublime terrore, fin troppo attraente nella sua ripugnanza, di ripiombare dentro la dissolvenza in nero e non riuscire a staccare i pensieri l'uno dall'altro una volta che si fossero fissati sulla sensazione di fiele di quel ricordo, fresco come una ferita aperta e profondo come un dolore.
Volevo tornare a casa, e alla fine, non so come, ci arrivammo. Nessuno mi vide, sfilare come uno spettro attraverso porte e scale, e riuscii con sorprendente facilità a chiudermi in bagno, unico luogo sicuro nella casa e nel mondo. Cercai subito lo specchio, per vedermi, se c'ero e com'ero, come un poppante che si impara e si conosce come sé-altro-da-sé. Allora ci sono anch'io, dice, ci sono. Io c'ero, ma non mi piacevo, non c'era in gioco nessuna simpatia, mi vedevo anzi un essere distrutto, finito, fallito: invecchiato di dieci anni in un pomeriggio giallo, troppo giallo. Giallo. Niente da fare. Paranoia.
Uscii dal bagno e mi rinchiusi in camera, per stare alla larga da tutti e farmela scendere, come un giovane che torna a casa per il pranzo di Natale dopo essersi preso mezzo cartone la sera prima. Dovevo riuscire a passare indenne quelle ultime ore, senza destare sospetti prima di riparare a letto, nella notte che speravo mi avrebbe addormentato, nascosto, protetto e rigenerato, esaurendo l'effetto malevolo della magia di Elena e ridandomi nuovamente giovane alla vita.
La grigliata della sera fu però una prova difficile, un intermezzo infame: vederla di fronte a me, azzannare carne e ossa con la raggelante grazia di un leopardo, guardandomi a momenti, invitante con la costola tra le dita nel mezzo di conversazioni che non riuscivo nemmeno a sentire bene, accanto a mia sorella che mi mangiava dal piatto e mio nonno che s'era già addormentato dal primo, fu come un'ammalarsi la mattina a scuola, come un delirio di febbre, durante una lezione che non finiva mai, da cui i genitori non mi venivano neppure a prendere per farmi uscire prima.
Quando finalmente mi buttai a letto tuttavia, prima di tutti e pure di Irene, mi accorsi che in realtà quello era il luogo meno adatto alla mia condizione, giacché durante la cena, nonostante alcuni momenti di allarme, mi ero perlomeno vagamente distratto, per il brusio e la presenza fisica di altre persone, laddove adesso, invece, nella stanzetta buia e piccola, interamente occupata da un armadio e un letto a castello, la mia solitudine assoluta e lancinante, l'ininterrotto ascolto del mio monologo interiore fatto di domande, domande e domande che si accavallavano come le onde che s'erano infrante contro il cane nero, mi stava facendo a pezzi, nello spazio il cervello fuori dalle orecchie e gli occhi iniettati di sangue, le mani gonfie come palloncini e le gambe mangiate dall'interno dagli stessi globuli rossi in rivolta. Ero in trappola adesso, e le lunghe ore che mi separavano dalla luce avrebbero potuto seriamente avere la meglio su di me, sottomettermi e consegnarmi, pazzo imbavagliato testimone, direttamente alla terra dei dannati, trasformarmi in una retta parallela, infinita senza possibilità di incontrare qualcuno. Mi si prospettava una notte cruciale, una grande guerra patriottica per trovare il sonno e non impazzire, una battaglia capitale per riuscire a sfuggire, all'ultimo istante in una piega della coscienza, a me stesso.
Eppure, niente da fare: solo l'immagine della zia, che mi cavalcava come una menade impazzita, facendo di me il suo tributo mortale all'oltremondo, e la domanda «perché» che mi correva nel cervello.
Pensai addirittura di pregare, come mi aveva insegnato mia nonna nonostante i divieti di mio padre, per invocare Gesù Cristo, la Madonna e tutti i santi, affinché mi custodissero, quella notte, perché potessi rivedere la luce, perché ci fossi ancora, sano e salvo, anche domani.
E forse, come una Zigulì per il mal di gola, questo pensiero che mi metteva in relazione – se non con dio, almeno con un'ombra benevola della mia famiglia, riuscì a provocare delle leggere e passeggere folate di sopore, nuvolette di cui tuttavia non avevo l'ardire di immaginare la forma, per paura di rivederci subito un'aquila, un cane o un'aperta passera gigante a scendere minacciosa su di me.
Niente da fare. Paranoia.
Disperato provai, anche e perché no, a piantare artatamente dei buoni pensieri coatti in quella terra arida e desolata, superficie astratta e priva di vita come un piano geometrico, e decisi di rifarmi al grande Milan, mandare in onda le sequenze dei gol di Massaro, Massaro, Savicevic e Desailly, l'Agorà del calcio conquistata da un'orazione perfetta, Cruijff a succhiare i cazzi e Stoichkov a pecora, solo che latrando, sbavando e mordendo l'aria, il cane nero entrò in campo insieme alla zia completamente nuda tra i giocatori spauriti, per annientare anche quel luogo e rifarsi sotto, correndo oscenamente come cavalli pazzi e inondando di buio tutto lo stadio e il terreno di gioco, come a Marsiglia nel '91, mentre io insieme a qualcun altro assistevo dagli spalti, tremando per lo schianto d'esser trovato tra le migliaia di spettatori in terrore panico.
Poi ebbi un brivido, riflessi muscolari, occhi aperti. Botta di tachicardia. Illusioni ipnagogiche come previsioni di rovesci temporaleschi: ero nella stanza, ma la stanza spariva subito dentro una montagna, l'oscurità aveva un tiepido sapore rosso, mi tremavano le gambe come a un cane che dormendo sogna di correre ma non riuscivo ad avanzare. La zia mi aveva fatto il tai-chi, mi aveva invitato ma adesso se ne stava al centro del fuoco, nella grotta, seduta accanto al cane che mi impediva di avvicinarmi nonostante stessi tremando per il freddo, mentre sulle pareti vedevo riflessi di fiamme, persone che non riuscivo ad afferrare. Avevo bisogno di bere, ma non avevo il coraggio di scendere le scale ed affrontare la presenza di qualcuno in cucina, mi arrivavano voci e rumori ma non sapevo bene se venissero da lì, dal mio cervello o dalla grotta. Guardai dentro la lavatrice ché mamma aveva messo a lavare i panni sporchi ma s'era dimenticata di me, e da fuori osservavo l'oblò girare e l'acqua calda e spumosa nettare i tessuti mentre nel riflesso vedevo il cane sorvegliarmi con la bocca spalancata.
Mi girai con raccapriccio supremo: la grotta era diventata una radura grandissima e stellata, e tante altre persone erano arrivate, donne e uomini ma nessun bambino, nessuno che conoscessi. Mi sentii in imbarazzo come a una festa di una compagna di classe arrivato in ritardo, il ciclo della lavatrice era finito ma mia madre se n'era scordata, la folla cominciava a offuscarmi la vista ma mio padre, vestito da Generale dell'Armata Rossa, mi prese il braccio per parlarmi della proprietà privata e della borghesia, ma proprio nel momento in cui il suo interesse per me mi stava conquistando, da dietro si intromise la zia, sbarazzina come una dodicenne ma truccata come una mannequin del Grotesque, che gli rubò il cappello da ufficiale mentre il cane nero, allorché papà si mosse per riavere il suo strumento, lo morse sul culo strappandogli i pantaloni come a un cartone animato, tra le risate fragorose dei troppi presenti. Sentii ancora freddo; guardai in basso e mi resi conto di essere nudo anche io, e arrossendo come un personaggio Disney mio padre, per la vergogna di non esser difeso, scappò via con la coda tra le gambe lasciandomi solo in mezzo a tutti, con la zia che per gioco mi pregava di mettermi il cappello e gli astanti battevano le mani e ridevano come ossessi. Poi, il cane inarcò il dorso per cacare, e cacò su un piatto di carta che la zia mostrò a tutti trionfante, prima di iniziare a mangiare con le mani quella merda piena di semini, noccioline e pellicole di pomodoro arrotolate. Volevo vomitare, ma volevo pure cacare anch'io, tuttavia una dottoressa che mi si era fatta sotto mi disse che non potevo, perché avevo una malattia venerea – mi disse anche quale, ma non lo ricordo più, mi viene in mente 'scorbuto' ma non penso proprio fosse quella – nella luce nera della festa. Poi d'un tratto
lenzuolo, supino, cuscino. Risveglio? Ero nella mia stanzetta, la grotta era sparita o io ne ero uscito, non c'era mio padre né la dottoressa né il cane nero. Fuori la luce: ero io, mi ero svegliato e doveva essere ancora presto. Le sette, le otto al massimo. Dunque un sogno? Era passata, ero sopravvissuto alla notte? Come stavo? Stavo bene? Mi alzai con uno scatto volontaristico, come chi dopo un incidente muove le gambe per assicurarsi di non aver leso la colonna vertebrale, ma le cosce m'abbandonarono subito, come se ciò che pareva esser durato non più di una pagina mi avesse stancato come una tempesta di neve o un naufragio in mare aperto, come se invece di dormire nel mio letto avessi davvero passato otto ore nella grotta di una montagna/radura di foresta, assistendo a una pasoliniana notte di Walpurga, cui ero stato invitato in qualità di vitello, pecorella smarrita e capretto sacrificale.
La cercai, ma Irene non era nel suo letto. S'era alzata? E perché non mi aveva svegliato? Perché nessuno m'aveva chiamato? Forse era andata a intromettersi nel letto dei miei, e stavano ancora tutti dormendo, ma un rumore di stoviglie proveniente da sotto mi tolse immediatamente quest'illusione. La colazione. Qualcuno stava mangiando un cornetto sorbendosi il caffè, qualcuno mi avrebbe forse atteso, richiesto, ascoltato, curato. Volli aprire la porta e sapere chi c'era, ma la sinestesia d'un odore di carne cucinata mi trascinò direttamente dentro il pentolino sul fuoco: una fetta di vitello stava diventando grigia proprio in quel momento, e una malata e inopportuna empatia con quell'etto bovino, come una crisi arbitraria da sindrome di Stendhal unita all'afrore spoglio dell'acqua bollente, mi fece quasi vomitare. Riparai nel bagno, per scampare a quell'odore mortifero ma anche per pisciare. Ancora lo specchio, come uno sgarbo. Ancora una volta in trappola.
Guardai lo scroscio di piscio arancione e ne annusai la consistenza olfattiva, alla ricerca di qualcosa di mio, più dei miei passi, del respiro e dello specchio, per sentirmi vivo, per sentirmi presente, per sentire quella parte di me stesso che mi lasciava per sempre e dunque una testimonianza della veracità del mio passaggio sulla Terra, allorché registravo, unica sensazione corporea, di non avere aderenza, di non sentire la strada, di non esser che un movimento inerziale senza indizio di casualità.
Tornai allo specchio. Il sogno era davvero finito, ma la vita mi sembrò peggiore. Uno scherzo pesante, un esercizio inutile, una diretta senza rete, una partita a porte chiuse. Una fitta al costato, un interruttore di dolore acceso e poi spento, come per gioco annoiato nella testa: volli mia madre, la necessità fisica di un suo abbraccio, dopo che ultimamente l'avevo dimenticata così come tutto il resto e tutti gli altri. La zia aveva fagocitato ogni emozione come un buco nero, e nel suo buco ero finito anch'io tutto intero. Sentii un bisogno d'amore, ma sapevo che non poteva essere che una fantasia: ero solo nella mia Odissea, custode di un segreto che stava diventando una condanna, e da qualche parte sapevo che c'era ancora lei, lei Circe, lei Elena ad aspettarmi.
La paura cantami, o Musa, molteplice deh.
Uscii dal bagno, alla fine, perché altrimenti mi sarebbero davvero caduti tutti i denti e i capelli, le unghie e le orecchie, ma mi scontrai di nuovo con l'odore di carne in cottura. Chi c'era, e perché stava cuocendo un vitello di prima mattina? Cominciai a scendere le scale, mentre l'odore e la nausea si facevano più forti, e progressivamente, giù per gli scalini oltre il muro, mi si andò prospettando la scena, lentamente sollevando il sipario: la cucina, del fumo, due bellissime gambe nude di donna
che riconobbi subito.
Mi stava aspettando?
Sentii una turbolenza, come un pugno scoccato dall'interno dello stomaco. D'istinto feci per risalire le scale, ma lei mi aveva già sentito, forse con l'udito forse con l'olfatto
«Ah! Buongiorno! Come stiamo? Non si può dire che non hai dormito, eh!? Mi sa che ne avevi bisogno!»
senza risparmiarsi un occhiolino sconcio, nei suoi shorts rosa shocking e nella canottierina a righe biancoverdi che conteneva a fatica quelle tette fatali
«perché, che ore sono?»
«Le due meno un quarto!».
Una frittata già fatta, un incidente avvenuto, un tempo morto, un'occasione persa, un rigore sbagliato. Misi in bocca un cornetto ma mi si imballò sul palato come fosse di paglia e terriccio, di vomito e segatura o di sterco di vacca essiccato, lubrificato da una riserva di saliva saporita come pozzetta di scoglio o residuo d'olio per motori.
«Zia... dove sono tutti?»
«In spiaggia, chiaramente»
«e tu, perché non sei scesa?»
«perché tuo zio e tuo cugino si sono ammalati... Sono a dormire nel lettone»
«e cosa stai facendo, tu?»
«che te ne frega? Ah ah ah no, scherzo, gli sto preparando una fettina di carne col puré».
Che tristezza. Rimasi in silenzio, guardandola muovere quella carne ormai grigia nel pentolino, mescolare il puré col cucchiaio di legno, preparare il pranzo per il figlio e il marito malati con la stessa passione di un impiegato senza futuro che calcola e registra cifre di cui non capisce l'utilità, lasciandomi attraversare come un fulmine nervoso da una momentanea comprensione epifanica del suo vissuto di essere umano, forse un'empatica connessione col suo dolore che mi fece presentire, vedendola attendere senza sentimento al suo lavoro domestico, che Elena era invece, e chiaramente, una donna a suo modo sentimentale, sentimentale come tutti gli uomini giacché non esiste persona che non abbia sentimenti, in quanto – mi dicevo, persino il più rude degli asociali esercita il suo sentimentalismo proprio attraverso la sua ferrea distanziazione, presa di posizione e punto d'osservazione sul mondo, evitando contatti sofferenti con gli altri precisamente in risposta alla propria dialettica emozione-reazione, dinamica relazionale di cui non riesce a gestire serenamente, efficacemente le implicazioni energetiche, laddove allo stesso modo, attraverso i suoi tradimenti, le sue perversioni e la sua vena distruttrice, la zia affermava il proprio amore egoico, la cura di sé, l'affermazione tuttavia un po' vigliacca della propria esistenza come essere unico, non solo e non più madre, moglie e professionista della vita, nel quadro di un'auto-confessione-concessione di un'originaria, sincera inettitudine all'esistenza, medesima febbre che colpisce tutti i sapiens sapiens, condannati a non essere che un fascio di relazioni.
Stava lì davanti a me, in piedi, ancora bellissima, abbronzata e abbondante come un giugno mediterraneo, non più ancella delle forze oscure del cuore/culo della Terra, ma “semplicemente” casalinga disperata ante litteram, condannata a recitare una vita non sua, oberata da una mancanza di coraggio multigenerazionale che le aveva imposto la viltà di estemporanee exit strategies ai danni della sua stessa famiglia, incapace di dire di no e dunque di dire si a sé stessa e agli altri. Ultima conquista nella sua parabola discendente, il nipotino di undici anni. La guardavo, sentendomi investito di una tristezza esiziale, finché lei se ne accorse e disse
«mbé? Che guardi? Stai ancora dormendo?»
poi, sussurrando
«vieni, vieni qui, se vieni te lo succhio un po' al volo prima che tornino gli altri».
Avrei preferito tritarmi i coglioni nella catena della bici, ma in realtà, prima ancora che lei dicesse
«non vuoi? Non ci credo. Vieni dai, voglio prendermelo in bocca e poi mettermelo in culo, non pensare di farla franca, Lui è da ieri che t'aspetta...»
il mio cazzo s'era già rifatto durissimo, e pronto come un centometrista prima dello sparo, inondato di sangue come nei giorni migliori, ottusamente ottimista e sordo, inconsapevole testimone delle disavventure della coscienza. La zia si era già messa le dita negli shorts, scavicchiandosi il fagiolino e sorridendomi offuscata, mentre m'avvicinavo maledicendo la mia stessa animalità come un insetto alla lampadina, apparentemente impossibilitato a dirle di no, turbato e rapito, soggiogato da quella dinamica, tutto morte e tutto sesso dalla fava al cervello. Lei fu svelta, e s'inginocchiò, tra lavabo e fornelli, sfilandomi l'uccello dai pantaloncini di Bobo Monkey e iniziando subito a smanacciarmelo, fermandosi un attimo solo per sputarci sopra e percorrerlo sempre più velocemente con la mano lubrificata.
«Uuh mi sto bagnando tutta, uh com'è duro, te lo prenderò in bocca, lo voglio nella bocca, va bene?»
Non dissi niente: ogni sua parola mi stava togliendo un giorno di vita
«va bene? Dimmi che va bene! Dimmi che ti piace!»
«va bene zia, va bene».
Contenta come una bambina premiata dal padre, mi si mise sotto con tenacia, leccandomi e ciucciandomi il cazzo con golosi mugolii, vagamente recitati a ritmare le fonde stantuffate con cui si portava la nerchia fin all'epiglottide, mentre con le dita mi solleticava il vialetto tra palle e culo come un'arietta di porto serale. Il tutto, con la solita, rodata saggezza, appresa e raffinata a suon di
«apri, apri di più»
«coi denti no, stronza»
«la lingua sul glande, mentre lo succhi: sul glande, sul glande!»
«ecco, si, brava, brava così, così»
«pompa e continua, pompa e continua, non ti fermare, non ti fermare»
«non ti fermare troia, non ti fermare, preparati ora, preparati ora che ti sborro in bocca»
«bevilo, bevilo tutto e poi ripuliscimi l'uccello»
che chissà quanti amanti le avevano detto, da chissà quale età e per quanto tempo, prima che iniziasse l'epoca in cui i suoi partner non potevano pensare nient'altro che
“uuuuh, minchia, minchia è fantastico, fantastico... ma da dove è uscita questa, questa si che ne sa... E' il miglior bocchino della mia vita, uuuh, della vita si, senza dubbio... speriamo solo che mi faccia l'ingoio...”
Io, invece, stavo messo male. Nessun vero godimento, nessun vero gradimento; la sua testa che si muoveva autisticamente su di me, vista dall'alto, mi sembrava non più di un oggetto, un casco stretto e bagnato che invece di calzarmi la testa mi calzava la fava, anche se non potei non rigirare la frittata – ormai fatta – e pensare che, forse, tra i due l'oggetto ero io, giacché lei almeno stava facendo quel che aveva deciso di fare, mentre io avevo lo stesso potere di una pietra lanciata in acqua dalla spiaggia, di una medusa alla deriva, di un'onda ingaggiata per sempre.
Pensai che, in qualche modo, è così che deve sentirsi una puttana, la qual almeno incassa un compenso, allorché io in cambio non ricevevo che problemi personali, svenimenti e sogni d'angoscia, facendomi spompinare come un drogato che si impone di smettere nel preciso momento in cui preme in lacrime lo stantuffo della pera serale. Sarei voluto scendere in spiaggia, vedere un'amichevole estiva, Franco e Ciccio o il Tour de France, salutare gli amici e persino ritornare a scuola, ricominciare la preparazione in vista del campionato e addirittura studiare per l'interrogazione di scienze. Tutto se non quel momento e quel luogo, però stavolta non stavo sognando e l'unica forma di risveglio sarebbe stata il suicidio.
Ma la zia, come un cliente che non vuol sapere niente, manco il nome di battaglia della sua troia, non aveva nessuna comprensione per me, e anzi alzò la posta in gioco, adoperandosi per farmi sbrodare come se da ciò dipendesse davvero la sua giornata e la felicità. Si staccò, sorridendo, e senza togliermi la mano dall'uccello, continuando a menarmelo rapidamente, si rialzò in piedi, mettendomi la lingua cazzosa in bocca
«che c'hai oggi cucciolino, vuoi farmi penare? Lo sai che così mi rendi ancora più troia, lo sai vero? Più non ne vuoi, più mi s'inzuppa la fica, toccala vieni, scavami con la mano, senti come sgocciola».
In effetti, era davvero fradicia: gli inguini scivolosi e caldi, gli shorts molli e macchiati, la fessa un enorme bacio bollente. Era uno di quei momenti in cui avrebbe potuto farci entrare qualunque cosa in quella bestia, tanto desiderava nutrirla e tant'era umettata, sicché non esitai, e chiudendo la mano in un pugno glielo spinsi dentro, facendola sobbalzare di piacere e di sorpresa, prima che iniziasse ad assecondare e guidare il gesto muovendo i fianchi con estrema perizia, al fine di mettersi tutto, fino al polso e oltre, nella sua tana slabbrata, cominciando anche a gemere, concentrata, chiudendo gli occhi e lasciandosi guardare, fiduciosa senza sapere che io la stavo osservando con orrore a pochi centimetri da me, domandandomi di cosa fosse capace che io non avessi ancora scoperto, ma prima che iniziassi ad immaginare che cosa potesse mettere in ognuno dei suoi buchi, lei scivolò via dolcemente dal mio pugno, riaprì gli occhi belli e pronunciò
«io ora mi giro, e tu me lo metti nel culo».
E si girò di spalle in effetti, sfilandosi gli shorts rosa fradicissimi con una mano mentre con l'altra non aveva mai smesso di farmi una sega, quindi appoggiò il suo culo fresco, e brillante come una luna, sul mio cazzo ritto, muovendosi su e giù e spingendolo lentamente, fino a piegarsi in avanti
«mi metto a pecora perché voglio che me lo sbatti tutto dentro, capito? Sbattimelo nel buco del culo, forza, la strada già la conosci, no?»
Non ero sicuro di conoscerla ed ero esasperato dalla sua favella, quindi restai un momento immobile, chiaramente interdetto
«lascia lo prendo io, senti, senti la mia mano che ti masturba ancora un po', che t'accompagna, ti porto fino alla soglia ecco, lo senti? Siamo arrivati, ora sta a te, ora me lo pianti e mi fai godere con il culo, più di ieri, meglio di ieri».
Come prima di ingoiare uno sciroppo, prima di saltare da uno scoglio troppo alto, prima di alzare la mano in classe, prima di buttarglielo in culo a mia zia presi un momento di raccoglimento, un attimo di adrenalinica concentrazione; poi mi lanciai, un tuffo nero, e mi introdussi nuovamente nell'antro della belva, interno senza temperatura di strumento a fiato, tunnel asfaltato – non sterrato, come la passera, che non mi dette alcun piacere, preso com'ero ad aver paura di svenire un'altra volta, mentre le sue chiappe sode, scontrandosi con le mie cosce, producevano una cadenza d'aritmici applausi costituente il nostro vai e vieni, atto plasticamente simile al sesso, ma intimamente connesso piuttosto ad una recita senza passione né consapevolezza di sé. Senza discernimento, senza discernimento.
Mi resi conto ben presto, scopandola a novanta, che non sarei potuto venire, allora meno che mai, talmente incaponito nel mio terrore da non riuscire ad avere più alcun piacere da quel perfetto culo di donna. Piuttosto, guardando la sua schiena e i suoi fianchi, le sue chiappe come una Val d'Orcia, la sua nuca e i capelli, mi feci rapire da un'idea estrema di estrema solitudine, allorché io ero ghiacciato da sterili pensieri e lei chissà, magari stava ridendo di me o pensando a tutt'altro. Cercai di realizzare quanto dovesse essere dura e triste la sua vita, ingrigita come una fettina di vitello e ingurgitata a forza di pillole per dormire, intrappolata tra un matrimonio evidentemente insoddisfacente e una maternità intrapresa con temeraria incoscienza, finché era arrivata alla situazione per cui farsi fare il culo da suo nipote era davvero qualcosa da fare, qualcosa che le apportava un di più, qualcosa per cui valesse la pena vivere.
«aspetta, aspetta non ti fermare, non ti fermare cucciolo, non ti fermare però seguimi, vieni, vieni, devo spegnere il fuoco sennò il puré mi si brucia, aspetta no, non uscire, non uscire e spingimelo, forza, aspetta, aspetta, spingi... spengo anche la carne, si, spingi, spingi».
Mi sentivo malissimo e desideravo non averla mai incontrata, essere ancora uno da seghe, un mezz'uomo, una mezza sega; preferivo persino svenire, come il giorno prima, ma stavolta era diverso, stavolta ero psicofisicamente presente a me stesso come forse mai prima
«Ecco allora, ecco, continua, continua, dammi forte, forte, voglio che m'apri il culo, voglio sanguinare, voglio che mi vieni nel culo, voglio il tuo latte, il tuo latte caldo, voglio che mi vieni dentro, voglio che mi bagni tutta col tuo lattuccio caldo».
Ma ero sicuro, come della morte, che non avrei potuto eiaculare nemmeno se fossero venuti a trivellarmi i coglioni, nemmeno se mi avesse messo la sua ficona gocciolante, il suo fagiolino pulsante su tutta la faccia, nemmeno se mi avesse ingoiato tutto lo scroto, poiché non c'era proprio niente più, ormai, che lei potesse fare: perché avessi un orgasmo, non doveva esserci lei.
E così, ricordandomi della tattica attuata nel mezzo delle seghe più ostiche, decisi di pensare a qualcos'altro, a qualcun'altra, qualcuna che fosse più potente della vita vera che mi tratteneva il cazzo e l'esistenza sotto forma di culo spanato, una strega bianca più forte del malefico potere di Elena, la vestale del male, la puttana del diavolo, essere trasformatosi da divinità preclassica a demonio cristiano nel giro di due mezze sodomie, che mi aveva fatto perdere ogni innocente afflato dionisiaco, ogni residuale istinto di infantile onnipotenza, e castigato piombandomi nel dominio religioso della paura e della speranza, della pietà per me stesso giacché, pèrsone l'orgoglio, la mia piccola persona sentiva il bisogno di affidare a forze più grandi, adulte, la propria esistenza percepita come necessità di salvezza, riscatto ed espiazione. Non più irreo fluire, non più spensierata ignoranza e somma felicità dell'inconsapevolezza: avevo perso la mia innocenza, anche se in quel momento il mio principale problema era, piuttosto, trovare dello sperma da versarle nel culo perché si saziasse e mi lasciasse fuggire.
Cominciai allora a ripercorrere le fantasie classate nell'immaginazione: le compagne di classe, le professoresse, le sorelle di amici, le fregne della televisione... Alla fine, dopo un titubare svogliato mi attaccai a Vanna, la bidella di scuola coi capelli stopposi come la strega Amelia, che dalla sua postazione con annessa stufetta emanava un forte odore di scrofa selvatica, divertendosi a far rizzare i cazzi dei dodicenni perché le girassero intorno come pesciolini pulitori; una donna brutta, sfatta, sudicia e greve, ma da tutti percepita come potenzialmente disponibile dunque attraente in quanto sogno possibile, in quanto unico buco adulto che tutti noi potessimo sperare, prima o poi, di riempire coi nostri giovani uccelli arrembanti.
Come altre volte, la immaginai seduta al mio posto mentre io, appoggiato col culo sul banco, le piazzavo il cazzo in bocca, facendomi una sega alla base mentre lei mi sbocchinava la cappella. Era un'idea che mi era venuta in classe durante una qualche noiosissima lezione di educazione tecnica o di grammatica, e solitamente mi era di grande aiuto, spingendomi alla risalita dell'orgasmo allorché l'esecuzione non appariva particolarmente ispirata. Ma, stavolta, mi accorsi di aver fatto un errore di valutazione, di miopia sentimentale: seppur completamente diversa e molto meno attraente, Vanna la bidella mi ricordava la zia, e quando riaprii gli occhi, ritrovandomela a pecora, mugolante e assente come una tartaruga di spalle, ebbi un rigurgito dei risvegli precedenti, e un leggero calo di pressione arteriale. La zia non gradiva
«uff... Non ti fermare cazzo, non ci provare, ti prego dammi forte, ti prego spànamelo il culo, rièmpimelo, riempimi dai, uff dai no, non ti fermare, non dirmi che non ce la fai, non mi, non mi deludere, dammi forte, dammi forte».
Aumentai la potenza e la velocità dei colpi maledicendola a denti stretti, ma il mio cruccio capitale era che non sentivo quasi più niente, come se stessi immobile, in un corridoio d'ospedale in attesa, oppure immobile, infilzando l'aria con la mia sola passiva e incolpevole esistenza. Non sapevo come uscirne, perché sborrare era ovviamente l'ultima cosa che potessi giungere a realizzare, e sentendo arrivare da lontano il timore di poterla rivedere mutarsi in chimera e togliermi il respiro, di soccombere ancora, di non vincere neppure stavolta e diventare suo schiavo per sempre, iniziai a sudare freddo.
Eppure, aggrappandomi proprio alla sensazione di me stesso, al mio respiro metallico e al mio sguardo ghiacciato, in un battito del cuore trovai la forza: ero lì, quello era ancora il mio Umwelt, c'ero e non era ancora finita, ero presente, avevo la palla in mano e dovevo portare a casa la partita. Mi concentrai, e in un volo oltre la cucina, la spiaggia ed il mare, andai a prendere, a casa sua, la sorella di un mio compagno di squadra, Carlotta, sedicenne tettona cui andavamo ad annusare le mutandine quando eravamo soli e ci introducevamo nella sua camera tappezzata di Nirvana, per concentrarmi sui suoi capezzoli mai visti ma sognati come bottoncini a reazione, pronti a inturgidirsi al solo sfiorarli con la lingua bagnata, la pasta dei suoi seni dentro le mie mani e a salire e scendere, compatti, sul mio uccello nell'esecuzione della spagnola. Che grandi tette, Carlotta. E che spagnole! Finalmente sentii qualcosa nei lombi e nelle cosce. La zia ora gradiva
«oh si, oh si, ora si, ora si dai, datti da fare, dammi, dammi forte, adesso voglio che mi ripieni il culo di sborra, avanti, sborra si, sborra, scaldami il culo, vienimi in culo sborra, sborra».
La pelle bianca di Carlotta, una di quelle adolescenti un po' anemiche e incazzose in piena sbandata cobainiana, mi aveva sempre eccitato, alla maniera di una tovaglia di pizzo su cui versare il mio bicchiere di coca-cola, e avevo sempre goduto immaginando di inzaccherargliela col mio seme denso e ancora più bianco, fantasia che in quella situazione mi stava salvando giacché sentivo che forse ce l'avrei fatta, che in fondo al tunnel del retto della zia c'era una macchia bianca, che sarei sopravvissuto e che avrei rivisto il mare e sentito l'acqua salata sulla mia pelle.
Persistetti, e implementai la scena, vedendomi Carlotta sdraiata sul suo letto e io, in ginocchio sopra di lei, che la scopavo tra le poppe per prendermi infine il cazzo in mano e arrivare al momento supremo, come nei pornazzi, a sollevarle la testa, stringendole i capelli, e sborrarle come uno spumante nella bocca grata e spalancata nonché sulle guance bianche, negli occhi azzurri che ricoprivo di sbroda, sulla sua gola candida il cui incavo riempivo di sbroda, e infine su tutto il petto, facendole una collana di perle di sbroda, e concludere aggiungendo, come uno chef la ciliegina, le mie ultime due gocce su ognuno dei capezzoli irti e grinzosi, provocandole un brivido sulla pelle come d'oceano artico increspato. E fu qui, fu proprio qui che completai la risalita, che aprii il portellone, che mi feci fade-in di canzone, che riemersi dal nero profondo, che finalmente sborrai anche in diretta
«ahhhh si, ah si mamma mia, mamma mia quanta, uuuuh mamma quanta, continua che sento il tuo latte caldo, vai, ah si, si dammi il tuo latte, vai col tuo brodo, scaldami il culo, sborrami il latte, sborrami, sborrami in culo, sborrami in culo».
Costretto, riaprii gli occhi. Carlotta era già sparita, e con lei il piacere di un orgasmo triste. Tornai in cucina, tra il lavabo e i fornelli, in piedi attaccato come un cane al culo della zia piegata a pecora, per rendermi conto di non essere svenuto, né morto né impazzito, ma solo umiliato da una scena degradante. Il puré fumava sul fornello, la carne rilasciava ancora il suo odorastro grigio tombale, e la zia seguitava, muovendo i fianchi senza farmi uscire dal suo culo ripieno e viscido di sperma, a recitare la sua funzione ridicolmente oscena. Guardandola come un estraneo, senza essere visto alle sue spalle, comportarsi in un modo che non riuscivo più a capire, mi sfiorò l'idea che fosse lei ad essere pazza. E se alla settima volta – le avevo naturalmente contate tutte – che facevo sesso, che facevo “l'amore”, ero già costretto ad immaginare con fatica un'altra donna, un'altra amante, per riuscire a raggiungere un orgasmo infelice con quella che era la mia partner, con il disturbo dei compiti a casa, dei broccoli a cena o dei giri di campo in allenamento, come un marito imprigionato in domeniche pomeriggio tutte uguali, o una moglie che rientra dal mercato con la voglia di piangere nascosta tra le buste, significava che stavo messo male pure io, che qualcosa non funzionava né in me, né in lei, né nel mondo che ci eravamo costruiti, o meglio che io avevo passivamente visto formarsi davanti a me. Stavo male.
Se questo era l'amore e se mai c'era stato di mezzo l'amore, mi sembrava di capire che era un disastro, che ciò che pensavo essere una qualità del mondo, come l'aria o la pioggia, in quantità naturalmente cicliche, stagionali, esattamente come il sole dopo l'acquazzone o le piene del Nilo o i monsoni del subcontinente indiano, si mostrava ora come riflesso transitorio, come umano troppo umano, come un proiettile nella sabbia, qualcosa di stupefacente ed effimero, mortale, che si gioca tra uomini e che un uomo può perdere, come un adesivo che si stacca o una foglia che cade, e che d'amore il mondo non è pieno, ma vuoto, della stessa consistenza del pensiero e del linguaggio, turbamento metafisico e oceanico che in quel momento pensavo di non essere in grado di sopportare per tutta la vita. Fuoriuscii dal suo culo con l'uccello ridotto a peperoncino secco, provocandole scoreggine di cui non si curò, mentre si rimetteva gli shorts rosa shocking con la macchia che ormai andava asciugandosi. Leggermente affannata, si deterse la fronte come una portinaia dopo aver dato il cencio per le scale, e mi congedò con un bacino sulla guancia e uno schiaffetto sul culo, la stessa superba schiava e matrona di sempre.
Tuttavia, io non potevo non registrare con orrore le sue multiformi capacità e peculiari metamorfosi, il suo sembiante di chimera sposarsi col suo culo piegato a sfiatare come un materassino bucato, e la sua depravata, inspiegabile e persistente ossessione per me, da cui cominciavo a credere di dovermi, a condizione di non sfiorire e sfiatare con lei, smarcare, divincolare: ritrovare giovinezza e libertà. Ma niente, in tutto, sembrava dirmi che sarebbe stato facile. Già immaginavo cosa sarebbe successo alla nostra relazione: ben presto, persino l'immaginazione sarebbe stata castrata dalla realtà, ed ogni orgasmo sempre più orribilmente difficile, finché avrei dovuto fingere – chissà come, un'eiaculazione, o dire che non ce la facevo più, che ero esausto, che non stavo bene, che mi faceva male la testa e addirittura sperare che lei mi dicesse “tranquillo, succede a tutti gli uomini”.
Con la cappella ancora umida, paonazza e scivolosa di sperma mi allontanai da lei e dal consorzio familiare, alla ricerca di un istante di intimità e silenzio, alla guisa d'un gatto che si nasconde per morirsene in pace. Scelsi di andare in fondo al terrazzo, laddove sotto un albero d'olivo oltre lo steccato si vedeva perfettamente il mare, cercando di scambiare energia con quel luogo speciale, che già altre volte era stato testimone dei miei migliori momenti di autocoscienza, quei passaggi a metà tra conquista coerente ed eterogenesi dei fini che avevano, fino a quei giorni, costituito la lentissima, carsica formazione della mia personalità, ogni estate un traguardo da presentare, come un conto, al ritorno alla quotidianità settembrina, ogni estate un passaggio, finché la mia crescita aveva toccato l'iceberg bollente del corpo della zia, al cui cospetto mi sembrava di essermi bloccato, incagliato e non avere più niente tra le mani, solo un'emorragia, un desiderio doloroso che non riuscivo più a fermare.
Intorno a me, tuttavia, il pomeriggio era silenzioso e possente, e un venticello caldo di terra mi rinfrescava la schiena. Mi sedetti a percepirlo, continuando a riflettere sotto l'ombra delle foglie. Chissà se anche lei pensava a qualcun altro, mentre la inculavo, a qualche amico di mio zio o ad un collega, un genitore, un alunno, il preside o il bidello. Chissà cosa c'era in quella testa. Non lo sapevo, ma quell'ultima esperienza appena trascorsa le aveva tolto definitivamente ogni potere d'attrazione, intaccato lo smalto, arrugginito la superficie, dispersone la forza messianica. Dopo il sogno, il risveglio era stato fin troppo dissonante, e la realtà che mi si palesava davanti, piegata a novanta in una posa di subalterna petizione perversa, non aveva ormai più nulla di sacro.
Ero triste, tuttavia la sensazione di morte pareva soavemente scomparsa per lasciare spazio, come in una sinfonia che passa da un movimento all'altro, ad una malinconia beata, lirica, una nostalgia sommessa cui il mare e la spiaggia lontana, quasi vuota delle due, facevano da palco en plein air. Quel luogo, centro del mio mondo e punto di ritrovo dei miei sensi allorché più di sempre avevo un totale bisogno di omeostasi, stava facendo effetto. Un sentimento oceanico, una lieve sicurezza mi invase: non volevo più soccombere alla zia, al suo incantesimo che era in realtà la sua frustrazione di moglie, di donna “sul viale del tramonto” e “sull'orlo di una crisi di nervi”, la sua propria tristezza che mi stava invadendo, che mi stava ammorbando, un male oscuro che non sarebbe dovuto mai appartenermi, io che impaziente mi affacciavo alla vita e che avevo solo avuto la sfortuna di non riuscire a capire e a discernere il rischio che mi si presentava davanti sotto forma di fradicio, lasco, caldo e grande passerone di donna.
Mi rendevo conto della mistica parzialità del mio giudizio, tuttavia sembravo altrettanto consapevole che quello era il momento in cui dovevo riappropriarmi di me stesso: non assecondare né il senso di colpa né la severità morale, né la bontà altruistica né la gerarchia affettiva e familiare, ma scaricare ogni responsabilità su di lei, per poter sopravvivere e andare avanti, come fanno le coppie scoppiate; avevo bisogno di ritornare a me stesso e di volermi bene, altrimenti la durezza di quei momenti si sarebbe presto trasformata in depressione, e la mia anima pietrificata per sempre sotto lo sguardo di una Medusa annoiata, inconsapevole e dopotutto indegna. Chiusi gli occhi e mi abbandonai alle cicale, al caldo all'ombra e al suono del mare, e senza che lo volessi, convergendo da diversi sentieri e attirati dalla gravità dell'istinto egoistico di preferire me stesso alla zia, affiorarono i pensieri di sempre, piacevoli e semplici, non importanti come gli amici ma gratuiti come i cugini.
Franco Baresi, Corto Maltese, Lennon-McCartney, Jean-Claude Van Damme, Jennifer Garth e quel troione larvale di Gabrielle Carteris, nonché l'indubitabile fascino di Bebeto e Romario e la voglia improvvisa di andare a pescare, di sentire il vento sferzante dell'alba dalla barca col maglione, di farmi il bagno di pomeriggio e la doccia la sera. Volontà di vita, volontà di potenza. Eroica, malinconica solitudine da faro di Bretagna. Stavo messo male, ma forse, adesso, stavo un po' meglio.
Anche se con scaramantica circospezione non osavo confessarmelo apertamente pareva vero, allora, che i momenti peggiori passano, che “domani è un altro giorno” e che senza neanche accorgercene torniamo a respirare, ad avere fame, ad aver voglia di sapere come andrà, dimenticando per un momento che in ogni caso andrà a finire, e dunque ci è possibile stabilire un compromesso con i nostri desideri di sparizione: ancora no, non è ancora troppo, non ne ho abbastanza, ça ne suffit pas.
Testimoni l'olivo e il mare davanti, non sarei caduto mai più, avrei resistito, avrei retto proprio grazie alla mia debolezza, ché se il ramo duro, e secco, nel pieno del vento si spezza, il giunco tenero, giovane e debole si piega, si adatta, si flette ma non si rompe, e passata la raffica si rialza, e si impone al sole perché lo nutra ancora, disposto a tutto, aperto al futuro, alle stagioni e agli altri esseri. Mi sembrarono i migliori pensieri che mi fossero mai giunti alla mente, e mi sentii incredibilmente unico, e saggio, un mostro di energia capace di cambiare il mondo, trovandomi bravo, buono e bello come solo un uomo che sta facendo la pace con la propria persona, come solo colui che s'apre a una serie di complimenti innamorati direttamente a sé stesso.
Decisi di benedire la mia risoluzione, il patto d'alleanza che parevo aver rinnovato con il mio mondo attraverso un bagno, un'abluzione in mare, sotto l'influsso d'un confuso gusto di orientale sacralità. Mi sembrava di non scendere in spiaggia da secoli, eppure solo ventiquattr'ore prima ero svenuto col cazzo nel culo della zia su quell'arcana sabbia deserta, ma le successive ore, la notte e la mattina erano state come una guerra, e mi sentivo invecchiato d'altri trent'anni, reduce da una battaglia come un contadino dopo una stagione di carestia: un'immersione in acqua, un momento di cura dell'igiene del sé, pensavo, mi avrebbero restituito parte della mia giovinezza.
Andai a prepararmi, mentre tutti riposavano, passando davanti alla zia che leggeva il suo Harmony e al nonno che russava con la bocca spalancata come una lucertola al sole, facendo il mio sacco di viandante che riparte nel suo ramingo peregrinare, un telo un libro e un cappello di paglia, non senza una noce di autocompiacimento né altrettanta autoindulgenza.
«Scendi a mare? Vengo anch'io!»
Irene, urlando d'emblée, mentre beveva il suo latte col Nesquik che mia madre le aveva scaldato dopo il risveglio. Allora no, non stavano dormendo tutti. Guardai l'orologio: erano le cinque
«Tu non hai dormito? Non è giusto, mamma!»
«No tu non vieni, vado da solo, e lasciami stare, fatti i cazzi tuoi»
Mia sorella proprio no, non la volevo. Una tassa sulla vita, una costrizione che non avevo mai voluto avere e che, seppur già vivo, mi era stata imposta come una seconda nascita: questo significa avere un fratello minore.
«Vado da solo Irene, davvero»
Ma lei urlò, cocciuta e viziata come solo una secondogenita, allarmando tutta la famiglia e facendomi quasi sbottare
«uffa ma che palle dai, non è giusto, mamma!»
«Eh, e che si parla così a tua sorella!?»
tuonò mio nonno dalla sedia a sdraio, ripiombando nella veglia con tutta la sua autorità gerontocratica
«Portatela in spiaggia e stai attento che non faccia subito il bagno»
s'inserì mio padre, giocando la sua carta all'interno della grande dinamica suocero-genero per la conquista del soglio patriarcale, fatta di competizione vissuta con alterno senso di rispetto reciproco, senza la mancanza di tiri mancini, colpi bassi ed eventuali sportellate, nello stile dei grandi duelli alla Prost-Senna, Lendl-McEnroe o Rocky-Clubber Lang. Tuttavia, in quel momento mi sembrava solo una congiura buonista proprio contro di me, opposta ai miei propositi vagamente nietzscheani, e forse sarei esploso, di frustrazione e di tutto il fango e detriti che portavo dentro, senonché
«Vengo anch'io dai, così al limite Irene sta con me»
esordì Teodora, fino a quel momento rimasta in disparte.
Mi placai, come se avessi avuto un interruttore ON OFF, reprimendo il capriccio infantile e riacquistando subito l'autocontrollo. Teodora non mi aveva fatto niente, e si era proposta – ne fui subito cosciente, grato e colpito – per farmi un piacere, togliermi la croce dalle spalle e caricarsi la responsabilità. La guardai, e ci scambiammo un cenno d'intesa invisibile agli altri
«va bene, vi aspetto»
«vorrei vedere! Non è che avevi scelta, lupastro»
chiosò mio zio solo per provocare, scendendo le scale con una risatella febbrile.
“Stai zitto”, pensai. “Cazzo ridi, Glauco. Che c'avrai da ridere, tu”. Avessi avuto diciott'anni, gliel'avrei detto in faccia, ci saremmo scontrati e non ci saremmo parlati mai più. Ma invece
«Irene, dai la mano a tuo fratello e a Teodora, e state attenti quando attraversate la strada».
Partimmo. La piccola si mise volentieri nel mezzo, col suo zainetto di carabattole, facendosi prendere da entrambi per mano. Io e mia cugina ci guardammo ancora, simulando per gioco un'affettuosa quanto affettata indulgenza genitoriale.
Teodora era nata dieci giorni dopo di me, il 19 luglio, ed era sempre stata presente nella mia vita, allo stesso modo in cui c'ero stato io. Come lupacchiotti, avevamo giocato sotto la grande tavola alle cene di Natale, e ho ancora il segno, sul dorso della mano, di un suo morso all'età di tre anni. Eravamo sempre stati iscritti allo stesso asilo, le elementari, adesso le medie insieme, ma mai nella stessa classe. Piuttosto che un handicap, questo rappresentava per noi un vantaggio, permettendoci di estendere ciascuno la propria influenza, di avere ognuno un aggancio nella classe dell'altro. Lei era sempre stata desiderata dai miei compagni, oltre che dai suoi, ma mai nessuno, in mia presenza, le mancò di rispetto. Solo una volta un mio rivale, Giacomo Battaglia, con cui duellavo in cima alle classifiche dei più carini della classe, osò dire sul bus di ritorno
«quella troia di tua cugina»
lo presi a testate e gli sputai in faccia.
In compenso, nella società delle femmine in cui Teodora spiccava per arguzia, eleganza e personalità, io ero visto come un Dylan McKey, un Mark Owen, il Massimo Di Cataldo della costa jonica, grazie ai racconti arditi – per gran parte inventati – e all'aura di mistero che mia cugina acchittava per me.
Ci proteggevamo, insomma, ci aiutavamo e ci volevamo bene, ciascuno a suo modo, ed è un fatto che, già dai sei-sette anni, di fronte a un problema con le sue amichette, lei usasse correntemente congiuntivi e condizionali, laddove io e i miei fratelli maschi dirimevamo ancora le questioni a sputi e cazzotti, facendo si che la rispettassi e la ascoltassi come solo suo padre, tuttavia allora già caduto in disgrazia, e i nostri nonni, veri e propri muri portanti della nostra mitologia familiare, costruzione archetipale di cui eravamo entrambi coscienti e convinti, vivendola tuttavia con la serenità della ricchezza non ostentata, della nobiltà nel suo senso propriamente estetico e presocratico, come un cerchio magico e invisibile, tracciato naturalmente col sangue, che opponevamo nei momenti difficili alle forze distruttive provenienti dal mondo esterno. Un legame non arbitrario, consacrato dal diritto familiare, la cui componente sessuale era rimasta gelata da un lustro di latenza, interrotta all'alba della prima elementare, dopo l'estate in cui ci eravamo sposati, e non era mai più riemersa.
Mai più, fino a quel pomeriggio arancione in cui scoprii, improvviso attacco aereo o attacco cardiaco, realtà d'improvviso trascendente ed inevitabile come il respiro e lo sguardo, che lei era e sarebbe stata per sempre l'unico amore della mia vita.

(continua)
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
troppo lungo? troppo pesante? lo temevo,
ma avevo bisogno di liberarmi della dittatura della zia ed introdurre l'opposto personaggio di Teodora per indirizzare già la strada del seguito :tru:

adesso il giovane sarà tra due fiche fuochi: riuscirà a uscirne in piedi o la sua crescita sarà bloccata per sempre? giu' le cappelle e dentro le dita, non è ancora finita...
 

Oghard "El Burro" Fireburp

Admin
Fantacalciaro
Io non riesco a ritagliarmi un po' di tempo per leggerlo come si deve, purtroppo sono ancora in periodo di studio e non ho la serenità oculare adatta per beneficiare del racconto.
 

Valchiria

SoHead Perfumier - Queen of the year
ok, l'ho finito...

La storia con teodora sembra iniziare in maniera molto tenera, ma sempre con i parenti devi farlo scopare sto poverino? :asd:
 

Rebaf

Get a life
Fantacalciaro
Valchiria ha scritto:
La storia con teodora sembra iniziare in maniera molto tenera, ma sempre con i parenti devi farlo scopare sto poverino? :asd:

Beh l'incesto familiare è un po' la base del racconto a puntate. Sarebbe come dire ad Ulisse: oh ma sempre in posti di merda devi finire nel tuo "nostos" verso Itaca? Io oggi me lo rileggerò un'altra volta, la prima volta mi era piaciuto ma a tratti lo avevo trovato un po' confuso. Quindi voglio rileggerlo per bene e dare un parere definitivo.
 

Rebaf

Get a life
Fantacalciaro
E' la cugina del protagonista :look:

Se fosse la nipote della zia sarebbe la sorella del protagonista :look:
 
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