Opere HOT ZONE - LA ZONA ROSSA

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
7a stanza e ∞


Edipo a tre


Riassunto delle puntate precedenti
1. Il protagonista, 11 anni, si fa mille seghe durante l'estate del '94, fin quando viene scoperto dalla zia Elena, sorella di sua madre, che in una mattina di febbre lo seduce introducendosi nel suo letto.
2. [puntata mancante]Il ragazzino perde la verginità.
3. I due diventano amanti. Torridi amplessi nel caldo agostano. Un pomeriggio, d'improvviso, l'orrore: il protagonista sviene mentre sodomizza la zia.
4. Malessere a pacchi, paranoie e perdita dell'innocenza, fino al miraggio di un pomeriggio arancione passato in spiaggia con Teodora.



5.

E va bene, vorrà dire che andrò all'inferno.
Huckleberry Finn


Cosa fu, come avvenne?
Ritornavo dall'acqua e mi stesi sul telo, gocciolante e affannato. Accanto a me, alla mia destra e verso oriente, Teodora sedeva, di fronte al mare, il mento appoggiato sulle ginocchia piegate, i piedi immersi nella sabbia tiepida del tardo pomeriggio e le cuffie del walkman alle orecchie. A pancia sotto, il sole declinante alle mie spalle, in debito d'ossigeno dopo le apnee e le emozioni del bagno, io mi apprestavo invece a godermi la mia bottarella di mare, cui mi piaceva cedere, sempre, appena uscito dall'acqua, sottostando all'anossia e assecondando la sensazione di leggerezza alla testa, sdraiato su me stesso come una mosca sulla parete, vuoto come un recipiente aperto. Per ozio, per sbaglio guardai Teodora.
Il suo viso era illuminato in modo eccellente, speciale, lucente il suo corpo, perfetti i colori, i contorni e la figura, non c'era distanza tra l'occhio e la pelle e davanti e d'intorno, intanto, riflessi d'oro nelle acque del Mediterraneo, molteplici screziature preziose sull'omogenea superficie mossa dalle onde, per grazia di un sole sospeso come una cangiante palla da gioco abbandonata pochi centimetri sopra l'orizzonte. La sabbia, le pietre e le altre persone partecipavano del ritmo luccicante di quel pomeriggio, ma fissa su Teodora comprovai che in realtà la Luce era tutta per lei, tutta su lei; sui suoi piedi leggeri, sulle sue ginocchia come gemme brillanti, presso quei fianchi minuti, sull'ombelico tenero, i seni piccoli, le spalle larghe, la schiena sinuosa e l'accennata scaletta a carboncino della spina dorsale, la nuca nascosta dai capelli castani, imbionditi dall'estate come tutte le estati, la sua fronte come una tela esposta, il suo naso interessante, la sua bocca come una foglia sull'acqua calma, e infine e soprattutto i suoi occhi verdi.
«sto ascoltando Revolver, me l'ha dato mio padre stamattina. E' strano, vuoi sentire?»
«Ah si?»
sillabe buttate a caso, come seggiole durante una fuga, cercando di perdere tempo per riprendermi, riorganizzarmi mentre nel frattempo sentivo l'uccello crescere nella sabbia, e una voglia inusitata di entrarle dentro, una licantropia sessuale, una necessità confusa inattesa talmente forte e sincera da essere naturale, nonostante lei fosse mia prima cugina; dopotutto, proprio in quei giorni mi scopavo sua madre, anche se in realtà era lei a scopare me, e il desiderio di sua figlia sopravvenne tanto fisiologico, tanto sensuale e precosciente, che adesso, mentre lei mi aspettava ignara, allegra e familiarmente vicina non potevo né sapevo né volevo, ancora, pensarlo e metterlo in discussione. Impossibile.
Teodora, davanti ai miei occhi completamente svegli, aveva preso a irradiare luce, e forza come una calamita d'oro rosso, come un monolite rosso. Era esplosa e stava seminando un caos e una confusione primordiali, da nuovo inizio, facendomi vivere l'esperienza di una totale rigenerazione, riavvio dell'universo, muovendomi ogni molecola in una rapida ricapitolazione per passaggio di stato: stavo tornando ad essere un solido, ad avere un volume mio proprio e un posto nella profondità. Avrei voluto fare così tante cose che non me ne veniva in mente nemmeno una, se non seppellirmi nella spiaggia, mangiarmi la sabbia o ubriacarmi d'acqua di mare, laddove l'unica medicina efficace sarebbe invece stato il suo abbraccio, il suo bacio e il dolcissimo calore bagnato della sua cosina, che immaginavo imperdibile e letale come il bosco incantato.
«E' da stamattina che ci sto sotto, vieni ; prendi le cuffie e dimmi che ne pensi. Sono tutte belle, tranne l'ultima che è inascoltabile».
Strisciai verso il suo telo come un soldato ridicolo, col pistolino carico e i lombi bollenti, salvaguardando lei e me dal mostrarle la mia sciagurata, portentosa erezione per paura di intimorirla, disgustarla, scioccarla: forse, per lei ero davvero ancora e soltanto suo cugino. Indossai le cuffie con affettata nonchalance, mentre sul nastro partiva She said she said scritta da John Lennon, acida e fatta per sempre per quel tardo pomeriggio arancione d'agosto, in cui Lei mi aveva chiamato presso il plesso centrale delle nostre vite.
She said
« you don't understand what I've said, I say no, no, no you're wrong »
when I was a boy
everything was right
everything was right

e via di seguito. A bocca aperta, a braccia aperte, a cuore aperto.
Alla fine di Tomorrow never knows, erano quasi le otto. Entro breve saremmo dovuti risalire a casa, ma io ero fattissimo, di musica e d'amore, e non potevo alzarmi a causa della fava, rimasta tutto il tempo imperturbabilmente, tenacemente ritta. Dalla mia testa aperta in due, una farfalla di nome Teodora s'alzò in piedi volando
«facciamo un ultimo bagno e torniamo, che dici?»
Sciolta e aggraziata, profumata di tempismo e avanti a tutto e avanti a tutti, avanti a me che mi credevo già uno avanti.
Ci immergemmo. L'acqua era calda, anche se io tremavo come un cane emozionato. Dentro un mare vuoto e oscuro, davanti ad una spiaggia abbandonata da tutti e pure da Irene, che era tornata su con le amichette e i loro genitori, eravamo soli, a parte un lontano pescatore di polpi sulla riva.
Non dicemmo niente. Il suo viso bagnato, i capelli lucidi tirati indietro, le gocce luccicanti d'acqua salata che cadevano dai suoi lobi freschi.


***


Con il mare nelle orecchie come conchiglie, senza aver toccato neppure la forchetta, a sera mi sdraiai sul letto con la disposizione d'animo di chi sta per partire per un lungo viaggio, pronto a seguire in capo al mondo la mia stella, senza tema di rovesci e traversie, come se il Pacifico potesse sempre e solo essere, appunto, davvero pacifico. Ma appena salpati, mentre guardavo la spuma e la spiaggia allontanarsi, troppo bella, e troppo grande, era già un sogno che non ricordo più e che forse non è manco mai successo. E mi svegliai, un attimo dopo, che era già mattina.
Subito la risata, unica e libera, di mia sorella, e mio padre che le diceva
«attenta, che ti versi il latte addosso».
Mi alzai in piedi con un balzo, la testa leggera come in montagna. Un'improbabile allegria, e il sollievo di aver passato la notte senza ferite, senza incubi, senza paranoie. Fuori c'era il sole, come sempre, anche se a me sembrava la prima volta, e lontane, oltre la finestra aperta, le onde già mi chiamavano per giocare. Poi un suono di portiere: nel piazzalino di casa, i nonni scendevano dalla vecchia Lancia carichi di buste di plastica azzurre. E allora mi ricordai, con la gioia di chi si sveglia pensando di dover andare a lavorare ma subito si rende conto, come ascoltando una sentenza d'innocenza, che invece è festa, che quel che i due vecchi avevano appena compiuto era la raccolta degli ingredienti per il pranzo di ferragosto, e che quella sarebbe stata una giornata speciale, tutta dedicata all'otium e consacrata al buonumore da mane a sera, dalla spiaggia strapiena al falò rituale.
Il nonno, ignaro di molti dei sommovimenti in seno alla sua famiglia, aveva sicuramente atteso, all'alba sulla spiaggia, il pescatore amico suo Sasà Manazza, aiutando lui e i suoi compagni nell'alaggio a mano del barcone, conversando poi con loro e facendosi mettere il pesce ancora vivo nei giornali, prima di rientrare un momento per caricare la nonna e scendere in paese insieme, e dividersi i compiti della raccolta: lei sarebbe andata a comprare la frutta e la verdura, lui al mercato ittico. Avevano certamente preso tutto quello che l'estate, il mare e la terra possono dare, dai gamberoni al cocomero, dai fichi alle cozze e vongole, dal polipo al prezzemolo, ai limoni, alle cipolle, ai fagioli freschi, ai pomodori. E in una busta tripla c'erano anche due chili di ricci, e in un'altra le seppie e i calamari, le capesante e i cannolicchi, e di qua le melanzane, di là i peperoni, e in altre ancora altra frutta, altri odori, colori, in un tripudio di generosità della Natura madre e amica.
Giustamente, il nonno chiamò perché lo si aiutasse, e come il chierichetto più solerte, come il soldato più generoso, scesi le scale volando, nella coda di formichine in processione dalla macchina alla casa. C'era mio padre, che in un sol colpo si caricò una melonessa da diciotto-venti chili su una spalla e una busta di verdure che in mano sua sembrava leggera; c'era Irene, che faceva quel che poteva; c'era mia madre, e c'era Teodora, il mio batticuore e il mio sangue caldo. Marcavano visita lo zio Glauco e il cugino Filippo, che di buon'ora erano scesi, finalmente guariti, in spiaggia a montare i pali per la rete del volley, e anche se non era vero, per farmi piacere mi fu detto che mi stavano aspettando.
Fui contento, sia che stessero bene sia che non ci fossero, perché pur senza avere alcuna strategia né rudimenti di tattica, il mio unico desiderio era Teodora, starle vicino, non diversamente da un insetto attratto senza soluzione di continuità dalla lampadina, e il fatto che né suo padre né suo fratello si trovassero nei paraggi mi confortava vagamente nei miei propositi potenzialmente criminali.
Tuttavia, proprio quella mattina mia madre si era messa in testa di insegnarle l'arte di curare il giardino sulla scorta dei suoi rabberciati strumenti di filosofia new age, e finite le operazioni di scarico, depositato il tesoro in cucina alla mercé della nonna, insieme le vidi andar fuori, allontanarsi, lei scalza e bellissima, quieta e un po' gonfia di sonno, e qualunque eventuale sapore equivocamente mariano, ogni possibile e inappropriato rigurgito da ora di religione nei suoi riguardi fu spazzato via dall'erezione istantanea, e ricca e rigogliosa come un fusto d'albero giovane, che mi prese tutt'intero, come l'effetto di una pozione magica, immaginandola fuori, a piedi nudi con la pompa in mano e l'acqua fredda sulle dita affusolate. Non mi venne neppure in mente, forse perché in me rimaneva ancora qualcosa degli anticorpi infantili, che proteggono dalla tristezza ad oltranza e spingono a dimenticare i dispiaceri non appena un evento gaio ne dà l'occasione, di arrovellarmi sull'esplosione di gioia che la mia prima cugina provocava, dalla sera prima grazie a quell'epifania così inattesa, incessantemente e sempre rinnovantesi in me.
E manco mi accorsi, allora, della tazza di latte col Nesquik, e del cornetto al cioccolato ancora tiepido, che qualcuno mi aveva passato sotto il naso.
Ma una pacca sulla spalla, uno sguardo deciso, mio padre mi disse
«Mangia».
Ritornai in me, e con ottimistica obbedienza, con mozartiana letizia, ne bevvi e ne mangiai, ritrovando il gusto e la sana, piacevole voglia di nutrirmi, crescere e diventare grande. Restare vivo.
Lanciai, addirittura, un occhio alla pila di giornali che il nonno aveva portato dal paese, scorgendo subito la Rosea che mi chiamava con le sue inutili e gonfiate notizie agostane. Eppure, sebbene quella vista mi invogliasse quasi come avveniva soltanto fino a pochi giorni prima, facendomi notare che ogni istinto e interesse sembravano riprendere le vecchie abitudini, non ebbi voglia di leggerla, preferendo partecipare a quella mattutina serenità familiare.
Tuttavia, come in un'operazione da matematica elementare, era proprio impossibile far finta che non mancasse una persona all'appello: cedetti all'evidenza, e proprio in quell'istante sentii lo scroscio di uno sciacquone, e la sua voce di sirena ubriaca
«Mamma! Hai comprato gli assorbenti?».
Le passarono la scatola attraverso la porta, e per un istante vidi le sue dita apparire fugaci. Rabbrividii, e non sapendo ancora bene come funzionasse l'utilizzo di un tampax, cercai di non immaginare scene particolarmente truci. Mi concentrai, piuttosto, sui discorsi sparsi della colazione, ascoltando il resoconto del mercato del pesce e astiando un po' giocosamente la mia sorellina, fin quando sentii la porta del bagno aprirsi, e la zia Elena uscire nel suo pareo giallo, con l'aria soddisfatta e leggera dell'evacuazione e della pulizia mattutina. Cercai di far finta di niente, di non stuzzicare la mia mente per provare cosa sentissi al suo cospetto, convinto di voler fare assolutamente come se non esistesse, industriarmi ad evitare ogni contatto, ogni contagio, restare con l'animo tutto puntato su Teodora tra i fiori e le piante, la mia salvatrice, il mio santino sul cruscotto.
Presentivo tuttavia i suoi occhi infuocati che mi chiamavano, percepivo fortemente che stava cercando proprio di comunicare con me, e sentendo l'uccello tirarmi come un giovane cane al guinzaglio, cercai di fare lo sforzo supremo, ma non ci riuscii: solo libidine, per un istante, come un istinto di morte, il richiamo dell'abisso. Pensai a quella Sublime Porta, sempre aperta per me come una droga che mi avrebbe ucciso, e alzai gli occhi, desolato e arrapato, per lasciarmi prendere – per sempre?, dai suoi.
Ci guardammo. Mi stava davvero aspettando, e affinché non ci fossero equivoci sul perché di quella convocazione mimò, non vista, il gesto del bocchino, con la lingua spinta sulla guancia un paio di volte, il pugno fugacemente avvicinato alla bocca e le sopracciglia alzate a sottolineare l'intenzione. Il suo modo di dire “buongiorno”. Il cuore mi arrivò su dall'epiglottide, l'uccello mi pulsò così forte tra le gambe da farmi quasi sobbalzare sulla sedia, ed ebbi di nuovo quella stessa e invincibile paura, che ormai desolatamente conoscevo. Se la zia fosse riuscita a irretirmi, a prendermi anche quella mattina, che tanto serenamente era cominciata, allora sarei solo assurdamente ricaduto nella sua tela, ridotto a trofeo e a tubetto di sperma, e persino l'influsso potente e magnetico, astrale di Teodora si sarebbe potuto spegnere. Solo quella possibilità mi strinse il petto in una contrazione, come se mi avessero attaccato il cuore con mille spillatrici
«sono fitte intercostali, allarga le braccia e respira. Devi aver dormito male».
Ma in realtà, papà, avevo dormito benissimo, e tu non sapevi affatto leggere nell'animo di tuo figlio, però non te ne faccio una colpa: c'era di mezzo la stregoneria, c'erano di mezzo l'inganno e la sfrontatezza di quella menade danzante su un filo mortale. La nube inconscia della negazione incombeva su tutta la famiglia: ero solo nella mia guerra, e nessuna rimozione mi avrebbe ormai potuto salvare.
Mi alzai in piedi, respirando a braccia aperte con le lacrime agli occhi, cogliendo al volo l'occasione per allontanarmi da quella pozza di dolore, guadagnare il terrazzo senza più voltarmi, uscendo come un novello Orfeo in lotta per riconquistare solo se stesso, investito dal sole che dalla mattina presto conquistava ogni cosa.
Mia madre e Teodora innaffiavano l'hibiscus, e io rimasi a guardarle, istantaneamente rigenerato e nutrito come una pianta dalla luce, prodigiosamente ridato alla speranza, grato alla vita come un miracolato scampato a un incidente mortale. Pareva essere la mia medicina, Teodora, il mio antibiotico naturale che mi avrebbe forse potuto spingere a risalire la fossa in cui, pallido e smunto, ero stato rapito, la cava fradicia e gonfia della zia che temevo di non poter abbandonare mai più, come un Farouk Kassam con le orecchie intatte ma l'infanzia ugualmente guastata per sempre.
La guardavo, Teodora e la mattina, Teodora e l'acqua, Teodora e i fiori; Teodora era come i satelliti di Nettuno per Schelling, che non si possono vedere ad occhio nudo ma che una volta trovati col cannocchiale diventano poi riconoscibili anche da terra. Teodora non era più mia cugina, e mi domandavo come potesse esserlo stata tanto a lungo, come avessi potuto non percepire mai e poi mai, fino al tardo pomeriggio precedente, la sua carica sensuale, la sua perfezione formale e la sua influenza sul circostante spettacolo del mondo. Se Teodora non fosse esistita, per me e intorno a me non ci sarebbero stati che cocci d'infanzia, tracce di sperma, residui di plasma e di endometrio marcio, e infine e soprattutto la cieca, nefasta attrazione verso il buco nero della zia, sterile e vuoto esercizio dai tratti ormai sempre più tristemente pornografici. Ma lei, come volontà degli dei di sanare un'incongruenza, un inestetismo del mondo, risposta fatta di bellezza, ordine a rimedio del rumore era comparsa, si era manifestata proprio nel momento più importante, negli spiccioli di partita, quando le rotative erano già pronte a mandare in stampa la mia sconfitta, la mia resa, la mia eliminazione.
Si voltò, come percependo l'insistente invadenza del mio sguardo, e incrociò i miei occhi, facendoli repentinamente ruzzolare a terra dalla vergogna, mettendo a nudo la mia difficoltà di dominare la scena e capire come agire, palesando solamente la mia impossibilità di fare a meno di abbracciarla nell'unico modo possibile, ovvero con la vista, con le mie palle che, abitualmente costrette a guardare, adesso non potevano scollarsi dall'esercizio di contemplazione che dava loro per la prima volta, anzi la seconda, un senso e un motivo per esistere, esserci, fare.
Rialzai la testa, dopo qualche istante, quando pensavo di aver dissimulato abbastanza, ma con mia enorme sorpresa i suoi occhi erano ancora lì, ancora fissi, ancora inchiodati su di me. Di scatto distolsi lo sguardo, di nuovo!, non riuscendo a sopportare l'emozione e confuso per la sua inaspettata insistenza: 2 a 0 per lei, che in pochi secondi mi aveva marcato una doppietta di classe, potenza e convinzione, mentre la mia linea difensiva non aveva potuto che rompersi e subire un'imbarcata. Il cuore mi si impennò fino a farmi pensare “io qui ci rimango”, perché sapere che mi aveva guardato con curioso interesse era un'ulteriore provocazione di sanissimo stampo sessuale, un invito naturale perché la prendessi e la riempissi di tutto me stesso come se fino a quel momento non avessimo, entrambi, inconsapevolmente aspettato che quello, come se fossimo venuti al mondo, con soli dieci giorni di distanza, solo per compiere la stessa, unica parabola, come se i nostri corpi non attendessero che d'esser ricomposti.
Lei non poteva sapere cosa stessi pensando, e comunque era tornata a concentrarsi su bouganville e gerani, eppure mentre io avevo ripreso, adesso non visto, ad osservarla, e lei continuava ad innaffiare seguendo i consigli di mia madre, del genere
«parlaci ogni tanto, con le piante, curale davvero, carezza le loro foglie: loro ti sentono, e verranno su ancora meglio, saranno sempre più in salute, e anche tu ti sentirai bene, perché tu dai amore a loro e loro ne danno a te»
ebbe l'arditezza di voltarsi di nuovo, palesemente per capire se la stessi ancora guardando, e allora la vidi, allora compresi, allora successe: Teodora arrossì, e stavolta fu lei a distogliere lo sguardo come una moschicina in fuga.
Cos'era successo, e perché? Forse perché era lei, ora, ad essersi fatta trovare impreparata, a lasciare un buco al limite proprio mentre pensava di poter gestire la partita, senza aspettarsi il tiro da fuori che di fionda l'aveva presa di controbalzo: 2-1.
Il mio cuore, però, per l'emozione e il piacere istantaneo di leggere finalmente il segno di uno stato d'animo sul suo viso, dopo che fino a quel momento era stata per me più simile a un marmo di Paro che all'undicenne di tutti i giorni, sembrava davvero non essere in grado di seguirmi, come un vecchio con i pensieri giovani ma le membra al capolinea, tanto da mettermi in allarme con altre piccole fitte puntute
«ahi, dolori intercostali»
accasciandomi leggermente, appoggiato alla porta senz'alcuna teatralità. Mia madre, ferma nei pressi dei gelsomini, mi vide o mi sentì subito, e si avvicinò a soccorrermi. Per un momento, per la prima volta da molti giorni, finii arrendevolmente tra le sue braccia; a quel contatto ebbi quasi il riflesso, l'istinto di mettermi a piangere, cedere e farmi consolare, raccontarle tutto ed essere mondato, nascere di nuovo e ricominciare da zero, ma resistetti per orgoglio virile, perché Teodora non mi vedesse debole, anche se fu incredibilmente difficile, più difficile che non soccombere alla tempesta magica della zia.
Eppure ce la feci, scansandola con un
«non ti preoccupare, non è niente, lasciami».
Mia madre ci restò male e io lo vidi, e me ne dolsi, ma ormai non potevo fare niente. Ero cresciuto. Cercai ancora Teodora, vicino ai gelsomini, ma non c'era già più.


***



Ignari della passione dei martiri ferragostani che, dopo avere sgobbato nella calura pallida e fetente d'asfalto e rifiuti, la città mastica e sputa in attesa di vederli ricominciare il giorno dopo, e godono della festa come d'un'ora d'aria il condannato, col pensiero del lavoro da riprendere (sempre troppo presto) che avvelena ogni immersione, ogni goccia d'acqua asciugata dal sole, ogni birra ghiacciata sotto la canicola, ogni momento di sopore; incuranti del sovrannumero di bagnanti e del proliferare di vucumprà, donne in topless, frisbee, palloni e materassini, dei molteplici accrocchi di tre o quattro ombrelloni a fare un solo sistema di una quindicina di persone, colle borse-frigo piene e le teglie di pasta al forno avvolte nella carta stagnola; strafottenti, soprattutto, verso i richiami dei nostri genitori
«è un'ora che sei dentro, guardati le mani!»
noi ragazzi giocavamo a spruzzi, a capriole, ad apnea, a schiacciasette, ai naufraghi, a Baywatch. Io ronzavo, come un calabrone a pelo d'acqua, intorno a Teodora con la devozione, l'ammirazione, la fascinazione più alte, tenendo davanti agli occhi una lampeggiante scritta in sovrimpressione:
E' LEI LA RAGAZZA. E' LEI LA RAGAZZA. E' LEI LA RAGAZZA.
Eppure, come un cane con una calcolatrice, di tanta passione non sapevo che farne, perché non avevo idea di come comportarmi per conquistarla, sentendomi istintivamente votato alla passività, all'attesa, forse con la speranza che anche lei, come sua madre, mi avrebbe trovato, un giorno, seduto sul cesso col pesce in mano, e sarebbe scivolata senza dire niente sotto le mie lenzuola. Addirittura, pensai al modo di attirarla in bagno, un pomeriggio dopo pranzo, fingendo di aver dimenticato di chiudermi a chiave, sì da mostrarmi in tutta la mia scoppiettante pubertà, ma per fortuna ebbi il presentimento che lei non fosse il tipo, che non somigliasse a sua madre e che una scena come quella l'avrebbe solo nauseata; tuttavia, non ero comunque in grado di approntare alcun piano, nessuna scusa, eppure aspettavo ugualmente, con ansia da cocainomane, un momento solo per noi.
E magicamente, come per un artificio teatrale, il momento arrivò: dopo una lunga trattativa al cui culmine la zia si era messa ad alluccare sulla riva come la più sensuale delle pescivendole, Filippo infine obbedì, ed uscì dall'acqua, perché fino al giorno prima era stato malato, e il buonsenso materno gli ordinava che prendesse un po' di sole. Io e Teodora restammo soli nell'acqua, allora, e sebbene fosse tutto ciò che volessi, e già sapendo che avrei dovuto dire o fare qualcosa, per giammai perdere quella miracolosa occasione a causa di timidezza e viltà, non fui capace di aprire bocca. In compenso, l'onda di improvvise emozioni convogliò straripante in una prosperosa erezione, giacché per non saper né leggere né scrivere, ciecamente e con la buona volontà dell'ignoranza, il cazzo si era già preparato, e si teneva pronto a qualunque evenienza.
Ma fu Teodora, da fuoriclasse, a salvare la situazione, pronunciando le parole più giuste che si potessero dire al mondo
«facciamo un po' di tuffi?»
con spontanea intimità e intraprendenza, facendomi sentire realizzato come un bastardino il cui unico scopo nella vita è stare vicino alla padrona. Giacché era stata lei a proporlo, togliendomi dall'impiccio di qualunque responsabilità e lanciando un'idea che casualmente presupponeva una corposa dose di strusciamenti, tocchi, pressioni di pelle contro pelle, mi passò in testa per un istante, come un pesciolino veloce tra i piedi, l'idea che anche le sue fossero manovre d'avvicinamento, tattiche evidentemente più evolute e coscienti delle mie, che a dire il vero erano inesistenti; sembrava insomma che anche lei mi cercasse, e solo l'eventualità infuse calma e sicurezza al mio ottuso tremare, alla mia libidine da cavallo selvaggio.
Mi inginocchiai nell'acqua bassa: le sue cosce snelle e zuppe, scivolose e brillanti aderirono al mio corpo con miracolosa scioltezza, e i suoi inguini, lussureggianti contrafforti della ragnatela sconosciuta che aveva tra le gambe, cinsero la mia testa con altrettanta facilità, come se il mio cranio fosse un pezzo di puzzle o di lego, e il suo bacino il tassello complementare. Sulla nuca sentivo, attraverso il costume bianco, il calore bagnato della sua fica sotto il sole, e mi sembrava, pur dubitando del mio giudizio evidentemente drogato, che lei muovesse i fianchi volontariamente, come per esercitare pressione e poi rilasciare la presa, ovvero per farmela sentire e provare piacere sfregando leggermente il clitoride sul mio occipitale. Un brivido d'impazienza risalì la mia schiena; la desiderai con tutto il sangue, come un lupo, l'istinto di sdraiarla sulle onde, ficcarglielo dentro, leccargliela, metterglielo in bocca, stringerla: venire e farla venire. Le misi le mani sulle piante dei piedi, e se fossi stato capace le avrei sfiorato le dita, avrei convertito quel passaggio in qualcosa di sensuale; ma non lo feci, e con tutta la forza che avevo la lanciai semplicemente in aria, accontentandomi di farle vivere il miglior tuffo della sua vita.
E' LEI LA RAGAZZA.
Aprì gli occhi, e mi guardò con esaltata gratitudine
«wow! Spettacolo! Ancora, ancora!»
Non aspettai un microsecondo: mi abbassai, e lei fu, altrettanto rapidamente, di nuovo su me. Con piccoli movimenti si sistemò meglio, premendomi il pube contro la nuca e le mani sulle spalle, sul collo, tra i capelli. Comparando i suoi gesti con le equivoche movenze che sua madre aveva attuato per prendermi la prima volta, mi resi conto che non c'era niente di ammiccante, di palesemente erotico in lei, eppure questo dettaglio mi accese ancor di più, perché mi fece pensare a quale potenziale di sensualità fosse naturalmente predisposta mia cugina, e a quante scoperte avremmo potuto votarci insieme. Era come un blocco di marmo in una prospettiva michelangiolesca, era una giovane band da condurre in sala di registrazione per creare un formidabile esordio, un'attrice cui serve solo il grande regista per dispiegare il talento. Maieutica, insomma.
Intanto, sciolta e armoniosa, partner ideale di quelle esecuzioni, mi stava sopra e si lasciava lanciare; ripetemmo diverse volte la coreografia, e in ogni prova aumentavano i secondi in cui, prima del tuffo, il suo piccolo pube ossuto restava aderente, vagamente sfregantesi, alla mia testa, più che mai testa di cazzo perché fungente da surrogato gigante della cappella.
«bravo, grande! Se ci studiamo i movimenti, prima della fine dell'estate riesco a fare una capriola mentre sto in aria!»
sovrimpressione
E' LEI LA RAGAZZA
E' LEI LA RAGAZZA
E' LEI LA RAGAZZA.
«Aspetta ora proviamo al contrario, montami sopra che ti lancio io»
«ma no che dici, sono troppo pesante non ce la fai»
«e chi te l'ha detto, perché sono una femmina? Ti faccio vedere io, ti sparo dritto in Africa»
con un delizioso orgoglio protofemminista.
«Ma sei sicura? Non voglio farti male»
con un insopportabilmente goffo senso di premura, come se fosse la prima volta che giocavamo insieme. Lei infatti si insospettì
«ma sei scemo? Se mi fai male te lo dico».
Aveva maledettamente ragione.
Si inginocchiò e mi tese le mani, perché gliele prendessi per salirle sulle spalle belle, come faraglioni emergenti nell'acqua bassa. Allora mi resi conto di avere un grosso impiccio tra le gambe, un'erezione imperiale impossibile da nascondere. Ma era troppo tardi: in fiduciosa attesa, Teodora voleva che glielo appoggiassi sulla nuca, pur senza aspettarsi quel dannato randello e volendo soltanto rendermi servizio, e farmi vedere quanto fosse forte e capace
«oh! Allora? Non aver paura, vieni!»
ormai ero fatto, mi avrebbe scoperto e tutto sarebbe potuto cambiare, precipitare e finire.
Come se stessi per morire, pensai che quelle ultime ore insieme erano state comunque il più bel giorno della mia vita, e si poteva anche accettare che fosse impossibile preservare una simile felicità, caduca come tutte le cose sulla Terra.
“Grazie amore, e scusami”
mentre le prendevo le mani, alzavo le gambe e scivolavo, dalle ginocchia all'inguine, fino a incastrarmi con le cosce nella sua testa. C'eravamo, la fava era arrivata sulla sua nuca, i coglioni sulle spalle. Senza scomporsi, si alzò in piedi tremante per lo sforzo, tenendomi le mani mentre la nerchia dura e inequivocabile le sbatteva sul cranio.
«aspetta, aspetta! Mi giro e ti lancio! Aspetta, mettimi le mani sulle spalle, ti prendo per i piedi, conto fino a tre!»
risoluta e niente affatto scossa dal tronchetto che non poteva non aver sentito addosso. Ero esterrefatto, ed eccitato come un branco di cani randagi davanti ad una femmina in calore; mi tirava come nemmeno con sua madre, s'era fatto insopportabile. Ebbi l'istinto di tirarlo fuori e farmi una sega, solo un secondo, solo un istante, il tempo di toccarmi e di venirle sui capelli, ma mentre mi dibattevo tra questi pensieri d'improvviso mi lanciò in aria, senza avvisarmi, senza contare. Piombai giù come un sasso stupito e rapito; quando riemersi la vidi ridere, e un lampo di immoralità balenò nei suoi occhi: in quell'istante somigliò a sua madre, ed ebbi la sensazione che mi desiderasse, che il cazzo in testa le fosse piaciuto e che anzi era giusto quel che voleva. Incredulo e contento, orgoglioso, non esitai più, allorché dalla sua bocca schiusa uscirono queste parole
«facciamolo ancora, vieni!»
e senza aspettare tornai su di lei col mio carico di carne da farle sentire, convinto che lei muovesse impercettibilmente la testa all'indietro per percepirlo meglio, dandomi un piacere da spezzare in due il mare, strappare gli alberi dalle montagne e calciare di collo tutti i pianeti, prendere quella cucuzza tra le mani e sfregarmici il cazzo fino a venire dentro il costume, o a quel punto girarla e venirle direttamente in bocca. Il desiderio di scoprire cosa potesse essere dentro, divenne definitivamente lo scopo della mia vita.
Continuammo l'equivoco gioco, e avremmo forse seguitato per ore, cambiando a turno il tuffato e il tuffatore, se di nuovo quella voce, adesso priva di qualunque sensualità, non avesse urlato dalla riva
«Teodoraaaa! Esci subito o entro e ti meno!»
con un'ira esagerata, che stupì mia cugina, la famiglia e anche i bagnanti limitrofi, ma non me che, in qualche modo, già presentii le sue vere ragioni.
«Arrivo, stai calma!».
Ci guardammo. Il gioco era finito, e negli occhi di entrambi c'era il rimpianto che non fosse durato abbastanza. Era stata, senz'alcun dubbio, l'esperienza ludica più carica di erotismo che avessi mai vissuto, ed ebbi la spregiudicatezza di pensare che lo fosse anche per lei.
Ma in quel momento, per poter uscire dall'acqua, avevo prima di tutto un grosso problema logistico da risolvere: la fava era ancora a mille, urlante la sua libidine come un esercito affamato, e non sapevo che fare per calmarla. Guardai Teodora imbarazzato, ma lei di profilo camminava, assorta e da sola, coi piedi tra le onde; stupenda, e non potei non notare immediatamente che i suoi capezzolini premevano gioiosi il pezzo di sopra, definiti come giovani rilievi montani: allora, o era il vento fresco all'uscita dal mare, o anche Teodora si era eccitata. Propesi ovviamente per questa seconda ipotesi, ma la scoperta non mi aiutò, costringendomi ad una pantomima sicuramente poco efficace per raggiungere il telo: accennai a grattarmi una coscia, cercando di nascondere con l'avambraccio il cavo d'acciaio da ponte di Messina che avevo nel mezzo, e corsi a sdraiarmi a pancia sotto con la rapidità della lucertola, sperando intensamente che nessuno mi avesse visto.
Ma ineffabile, inevitabile, con un bagliore da settimo senso presentii subito il malocchio che si veniva posando su di me, quella forza irresistibile appena innescata, come uno squalo dal sangue, il suo sguardo di Medusa senza scampo. La zia mi aveva visto arrapato, ne ero certo, e ora mi stava chiamando a sé col suo grande magnete bagnato, col suo irresistibile triangolo delle Bermuda.
Ma io resistetti, con ogni forza residua manco fossi un prete alle prese con le giovinette all'uscita di scuola, e non mi voltai nemmeno, scottandomi la schiena coi suoi occhi acidi e adulti, innegabilmente perversi. Il cazzo affamato, però, mi strattonava ancora, per il disperato e confuso bisogno di fare qualcosa, qualunque cosa, e con chiunque, che per lui in fondo era uguale, latrandomi disperato la sua penosa e immarscescibile voglia di sesso.
Del resto, nonostante tutto, se la zia mi avesse porto in quel momento la sua generosa bocca-hangar di cazzi, io ce l'avrei pucciato dentro e via, senza troppi pensieri, riempiendogliela di spumante in una sola frazione di secondo. E ammisi pure, con grave sincerità, che me lo sarei concesso, massì, come la bottarella di coca per quello che aveva detto di aver smesso davvero, nutrendo ancora quella paura, e quel desiderio, che mi avrebbero perseguitato tutta la vita.
Ma improvvisa, (in)opportuna, e gaia come l'amante giovane per il quarantenne sposato con figli, Teodora mi si fece nuovamente accanto, sempre più presente in ogni passaggio, con il telo e le cuffie in mano a volume sparato, per ascoltare ancora insieme Revolver e farcelo scorrere dentro come se quei ragazzi, ventotto anni prima, lo avessero scritto solo perché fosse la prima colonna sonora della nostra storia.
Ne fui stupendamente lieto, e scacciai la strega dalle mie spalle come un piccione pestando a terra.
Teodora sembrava riuscire a proteggermi dalle malìe di quella divinità risucchiatrice e distruttrice di tutto, presso cui, ora, stavo fortemente rischiando di cadere in disgrazia, di attirarmi la gelosia, l'odio e la sete di annientamento. Si era accorta del mio amore per sua figlia, quella formidabile chimera? Avrebbe sopportato di esser sostituita e di non ricevere più il mio tributo di sperma? Cosa avrebbe fatto se la sua creatura mi si fosse concessa?
Un brivido mi percorse, come uno spasmo di febbre allucinata, e un improvviso e chiaroveggente lampo divinatorio mi mostrò un segno del futuro: Teodora proteggeva me, ma io di conseguenza dovevo proteggere lei, che in quanto vergine bianca pareva, logicamente, destinata a pagare col sangue l'ingresso in quella scena mitologica, in cui io stavo – forse – proprio in quel momento imparando a muovermi. Per salvare lei, in linea di principio, dovevo anzitutto salvare me stesso.
Ripensai al cane nero che mi guardava negli occhi, ma non ebbi paura; mi feci un po' più vicino a mia cugina, e le note di Good day sunshine parvero davvero l'ambasciata propizia della nostra sorte, la melodia sì fruibile, sì fattibile, del nostro domani insieme.


***


Revolver è indubbiamente il disco più importante dei Beatles, la genesi genuina e geniale di un'intera epoca di cui Sgt. Pepper è già formidabile figlio, un po' allo stesso modo in cui Kronos è il padre e Zeus, che pure sarà poi Genitore degli Dei olimpici e inquilino dei cieli, deve comunque a lui la sua vita, e se è stato il disco del '67 ad essere stato assunto dai critici di massa come grande fonte d'ispirazione di tutta la musica pop, non solo psichedelica, che venne in futuro, obiettivamente è Revolver l'Aleph, è Revolver l'incosciente ragazzaccio traboccante di vita e giovinezza, la spensierata motocicletta che nel '66 non avrebbe mai disarcionato né Bob Dylan né me...
Insieme a Teodora, le teste vicinissime nella frugale intimità e nell'adorazione di quella musica così solare e, per noi, così improbabile, eravamo arrivati ad ascoltare Love you to, la quale ci stava letteralmente stonando sotto il sole dell'una. Col sitar, e le voci litaniche, in lontananza iniziammo a sentire, dapprima confusa nell'armonia e poi sempre più chiara e riconoscibile, la campanella della punta. Si rizzarono tutti su due piedi, come cani di Pavlov, perché dal terrazzo mia nonna ci informava che era giunta l'ora: il pranzo di ferragosto era pronto.
Costeggiando muretti abusivi costruiti con materiali diversi, e talvolta bizzarri, come rami secchi o bottiglie di plastica mescolate alla calce sulla polverosa strada verso casa, mentre gli altri fantasticavano sulle portate del pranzo, come giovani soldati gioiosi in partenza per la prima guerra, io ero gravato da un ombrellone e una sediolina di legno, ma facevo fatica soprattutto perché mi dolevano i coglioni come mai successo prima, come nemmeno nei primi giorni della luna di miele con la zia, negli intervalli febbrili tra una sega e una pompa clandestine; il pene barzotto, e stropicciato, mi ingombrava il costume come uno squalo famelico e stremato, e mi faceva tanto male che non riuscivo quasi a camminare, costringendomi a dover aprire le gambe e assumere un'andatura da danneggiato.
Teodora mi era sempre vicina, forse ignara ma forse anche umida, e se solo, se solo mi avesse sfiorato, ebbene io avrei eiaculato, eiaculato come nei sogni, come un bambino vinto che si fa la piscia a letto sventolando bandiera bianca.
Eppure, riuscii a dominare quella scimmia con somma fatica, e per autogratificazione, per compensare tutte le vicissitudini e le montagne russe cui costringevo la mia sessualità, pensai che appena entrato a casa, la prima cosa sarebbe stata un pugnettone d'altri tempi, al volo prima del pranzo, rimembrando allegramente il mio randello sull'occipite di Teodora e le sue cosce bagnate sulle mie guance, sicuro che mi sarebbero bastati pochi secondi, solo la mano sul cazzo e un paio di passate, per venire come un semidio e placare il dolore dei miei genitali enfiati.
Ed in effetti, prima ancora di farmi la doccia, appena arrivato mi fiondai direttamente in bagno, chiudendomi a chiave, sedendomi sul cesso e abbassandomi il costume in un sol colpo. Dalla finestra aperta sentii Teodora ridere, con uno stridolino da spruzzo d'acqua ghiacciata, sicché mi assommai al davanzale, opportunamente nascosto dalla tenda, e quando la vidi, splendida e luccicante sotto lo scroscio, ebbi l'idea sopraffina di masturbarmi guardandola farsi la doccia.
Tuttavia, non appena strinsi il pugno sul cazzo, esaltato da quel colpo di genio, percepii un corpo, un respiro dietro la porta, una presenza vicina. Rapido ritirai la mano, restando immobile e senza fiato come in Jurassic Park per sfuggire al tirannosauro. La maniglia scattò, ma ero al sicuro.
«Occupato»
«scusa, mi puoi aprire solo un momento? Devo prendere una cosa, giusto un minuto».
Sicuramente aveva sentito l'odore di cazzo da in fondo alle scale. Non c'era scampo.
«Apri dai, solo un minuto e poi me ne vado».
Sapevo come sarebbe andata a finire, perché in quel momento non avevo la forza di resistere; del resto, allora ero più minchia che altro, e la zia era pur sempre l'unica donna che avessi mai avuto. Non c'era niente da fare.
Aprii uno spiraglio, e quando la vidi, salivante, pensai che era proprio un Minotauro affamato di sperma, e che io del Teseo non avevo nulla. Ero solo un pover'uomo; “anzi, nemmeno un uomo. Solo un ragazzo”, direbbe Sorrentino. Restò sulla soglia, e dopo essersi guardata attorno circospetta, infilò la mano attraverso la porta, non prima di essersi bagnata le dita di saliva. Ma si arrestò d'improvviso:
«tiramelo fuori, dai».
Non voleva asciugarsi le dita abbassandomi il costume. A suo modo era un genio.
«Oh madonna, ma cosa hai fatto? Ma da quant'è che non vieni? Da ieri mattina, da quando m'hai scopato nel culo? Ma tu devi dirmelo se stai così, tu lo sai che la zia se lo beve tutto il tuo sburro, la zia ti fa il salasso alle palle, gioia, lo sai che non aspetto altro! Aspetta, aspetta che mi bagno meglio».
Portò la mano alla fica, e si ripassò le dita gemendo ad occhi chiusi
«ah mamma mia, ahhh, se continuo vengo, vengo, io non lo so, non lo so mi fai morire...»
Ma si interruppe di nuovo. Un rumore che sembrava di passi. Guardò in fondo alle scale: non c'era nessuno. Con tutta la paura, con tutti gli incubi e le paranoie che stavo vivendo, in quel frangente ne fui solo contento. Ero un maschio, dopotutto.
Comprovato che non vi fossero pericoli, estrasse dal suo interno la mano fradicia di fluido, badando accuratamente che non toccasse il tessuto della mutanda. Le dita lucide e bagnate si posarono allora come un forcipe sulla mia cappella, facendomi trasalire d'intrepida frescura come un tuffo da una scogliera, e precipitare nell'unico desiderio di venirle in mano, mentre lei continuava a guardare verso le scale pizzicandomi il frenulo e accarezzandomi la pelle tirata dell'uccello. Sentii i rumori e le voci della famiglia che apparecchiava, gli ultimi ordini di mia nonna nella disposizione del campo di battaglia, e come un sasso dal cavalcavia pensai a
Teodora
Teodora!
La stavo tradendo, era ovvio la stavo umiliando, godendomi la strana, evoluta sega che sua madre mi stava servendo, lì in piedi sulla porta del bagno come nel cesso di una stazione
«ma uffa, ma dove sta? Tu non l'hai visto? Non è che l'ho lasciato nell'altro bagno?»
e poi sottovoce
«ho le mestruazioni, si, lo sai che ho le mestruazioni...»
mentre con l'unghia dell'indice iniziò a grattarmi il glande, delicatamente, e con l'altra mano tirò fuori un seno dal costume, leccandosi le dita e pizzicandocisi il capezzolo turgido e grinzoso, delizioso e violaceo come un frutto di bosco. Mi prese la testa, e me la premette su quella tetta paurosa
«eccolo, prendi: leccami il capezzolo, mordimelo, succhiamelo si, succhialo, succhialo».
Ma nonostante mi stesse regalando un piacere inimmaginabile, e nonostante la minna nella mia bocca fosse la sua, e io stessi per venire come un B-52 ormai pronto a sganciare la bomba, non potevo non pensare a Teodora, alla promessa di masturbarmi su lei, e concentrandomi sulle sue mani tra le mie nell'acqua bassa, e sui suoi inguini serrati sul collo, come colui che in punto di morte ripensa all'amore che giammai rivedrà, la invocai mentre l'unghia della zia solleticava la più preziosa delle mie carni, regalandomi l'immenso godimento di una cascata, e dalla finestra aperta alle mie spalle s'alzava una lieve corrente d'aria fresca, che m'accarezzò il dorso mentre la fava cominciò a pulsare senza controllo, come timone alla deriva, come un cuore aperto, come acqua arrivata a 100º, come una combustione spontanea. Vidi le ninfe uscire dallo stagno, e da ogni recesso sentii salire tutto lo sperma bollente. Stavo venendo, ed era un intero poema universale a fuoriuscire da me.
Ma esattamente in quell'istante, con sovrumano tempismo, la zia mi pugnalò a tradimento
«ti piace mia figlia, maialino? Ti piace Teodora? Se la tocchi t'ammazzo, ti giuro ti sventro»
proprio mentre l'eiaculazione e l'orgasmo uscivano abbracciati alla luce, e i primi fiotti partivano come colpi di mortaio. Mi staccai dal suo seno e la guardai abbacinato, incredulo, squartato di piacere e di terrore come il peggiore dei doppi vincoli, mentre l'uccello singhiozzava sperma e un filo di bava colava dalla mia bocca.
Eppure, la zia non guardava i miei occhi, ma solo il mio cazzo, la mia cappella da cui la gioia più triste s'andava spargendo come luttuosi fuochi d'artificio. Con l'intento di non perdere manco una stilla del mio seme biancastro aveva messo la mano a cucchiaio, ma dovette ben presto aiutarsi anche con l'altra, strabuzzando gli occhi con la gioia del povero cui viene riempita la scodella fino all'orlo, o quella di chi ha appena vinto alla slot machine
«guarda quanta tesorino, mamma quanta, sei troppo forte, sei troppo forte, ma quanta ce n'hai?»
mentre continuavo a venire, piangendo le ultime lacrime di sperma, tremante e stupefatto, incredulo e azzerato da quell'uscita traditrice.
Me l'ero immaginata? Forse si, perché la zia non riprese più l'argomento, né alcuna attitudine minacciosa. Piuttosto, si portò una mano alla bocca e aspirò la mia crema in un colpo, lasciandosi la destra, in cui era convogliato il grosso dell'eiaculazione, come ultimo boccone, come gran finale, leccando tutto il palmo finché fu asciutto e ripulito, divertendosi a giocare col mio seme tra le labbra e la lingua, caldo, prima di inghiottirlo teatralmente
«aaaaaaaaah! Finalmente! Ecco dov'era!»
con un sorriso usato e artatamente infantile. Poi guardò per terra, se fosse rimasto qualcosa, infine chiuse la porta, e se ne andò.
Mi ritrovai solo, imbarazzato da me stesso come un cane rapato a zero. L'uccello s'era dileguato, e io restavo in piedi, inchiodato da quell'agghiacciante profezia di morte. Per un istante, contando stavolta sulla mia capacità di allucinare, sperai di averlo sognato, di aver avuto un altro delirio, qualunque cosa purché non l'avesse detto davvero.
Mi guardai allo specchio per vedere se fossi diventato pazzo, e tornai a non piacermi per niente. Nel bagno, il fade-in ormai noto di mandorle amare sembrava alzarsi come una nebbia, un altro attacco di panico stava salendo, ma provai a scherzarci su pensando che la zia, nonostante non avesse ormai più alcun tratto di donna, ma di divinità ctonia bisognosa del mio sperma, sempre più pre-greca e d'origine piuttosto potamica, sapeva di sesso come nessun altro essere vivente, capace di provocare un venticello alle mie spalle e farmi godere col solo potere di un'unghia d'indice.
Ma vedendo il risultato, il mio corpo stuprato e il costume abbassato alla bell'e meglio, ebbi un rigurgito di vergogna di me stesso, e mi salì un'ondata semifredda di disagio per le grandi e forse misticamente false elucubrazioni amorose su Teodora, laddove invece l'accostamento con la relazione che intrattenevo con sua madre rendeva impietosamente reale il cul de sac in cui mi stavo cacciando.
Teodora ed Elena, mi accorgevo, non avevano niente in comune, se non il sangue: non era possibile essere il gingillo della zia, sottomesso alla sua libidine e al suo modo di amare da eccellente professionista, e contemporaneamente mirare alla scoperta di Teodora, all'aspirazione a un più elevato sentimento di reinvenzione e creazione del mondo.
La zia mi aveva insegnato tutto, aveva aperto nelle mie viscere voragini vertiginose di piacere, ma contemporaneamente aveva smantellato la mia casa, reso il focolare un luogo estraneo, strappatomi alla vita di sempre e alla mia fin lì indiscussa, e indiscutibile, appartenenza familiare, facendomi vivere il significato pieno della parola 'perturbante' nella sua originale e in questo caso esemplare etimologia tedesca: 'unheimlichkeit', ovvero quando una cosa conosciuta e scontata (la patria, la famiglia) perde improvvisamente il suo rassicurante e scontato spessore, la vicinanza e la sicurezza della persistenza, e un sordo piano aspaziale di mortifero dubbio, di paura, di perdita e di solitudine, di oblio e di alienazione sostituisce come in un negativo la foto sul comodino, e un buco nero risucchia ed inghiotte tutti i mobili insieme, lasciando la casa un guscio vuoto e irriconoscibile.
Teodora, invece, rappresentava l'improbabile ritorno al futuro, la riconquista del mio posto nello spazio e nel tempo, il reinserimento sociale e morale nella mia età, seppure ormai non ci fosse più modo di arrestare l'emorragia del perturbante, e anche quella rischiasse d'essere una passione infestata. Pensando di possedere lei, tuttavia, credevo forse di poter battere la zia, neutralizzarla nel suo stesso campo da gioco, prendermi una rivincita ma anche sua figlia, il suo frutto non ancora maturo, così come lei mi aveva reciso anzitempo dal nostro albero genealogico. Se non potevo annientarla in un confronto diretto, giacché si trattava di una Dea dotata di tutti gli attributi d'invincibilità e onnipotenza, avrei cercato di colpirla laddove non aveva previsto difese, con l'astuzia dei mortali: avrei rapito sua figlia.
Ovviamente, non era questo ciò cui arrivavo a pensare, ma se ci fu un solo momento, in tutta la storia, in cui un'ombra dell'indicibile peso che stava assumendo la faccenda si allungò fino quasi all'imbocco della mia scompaginata coscienza, questo avvenne lì, nel chiuso del bagno dopo che la zia mi aveva fatto venire con un dito, prima del pranzo di ferragosto.
E allora, in quello sbattere di porte, correnti d'aria e rumori incomprensibili che vorticavano nel mio giovane cervello, ecco che prendere Teodora, metterla di fronte e spiegarle il mio bisogno e il mio sentimento, mi sembrava l'unico modo per avere un domani, e soprattutto avevo l'intuizione, e la presunzione, che quello sarebbe stato un grande regalo anche per lei stessa, un suo ancor inconscio e inconsapevole desiderio, una rivelazione che la sua mente non ancora aperta, i suoi occhi ancora innocenti, stavano in realtà soltanto aspettando, al di qua dello specchio, e io che ero già andato oltre, che avevo già visto lontano, avrei potuto, anzi, dovuto accompagnarla laddove credevo che lei stessa volesse essere condotta.
La sua necessità, e il suo imprevisto e inopinato cambiamento di sostanza – da prima cugina a primo amore – non potevano d'altra parte essere solo il frutto marcio della mia mente pervertita dalla liaison cancerosa con sua madre; doveva pur esserci, mi dicevo, un barlume di bontà, di pietas e di sano sentimento nella guazza in cui quella passione stava crescendo. Facendo un rapido riepilogo, mi convinsi addirittura che fosse stata lei stessa ad aver acceso, dal precedente pomeriggio arancione, in cui si era proposta di scendere in spiaggia con me, quel lumicino di passione, e di speranza. Pur senza poter dire se l'avesse fatto coscientemente o meno, non ebbi più dubbi e ne assunsi, seduta stante, piena consapevolezza, fino all'ultima delle conseguenze: il disegno aveva già cominciato a tracciarsi, e pareva la forma del treno su cui saremmo saliti insieme.
Giurai così, allo specchio, di votarmi all'impresa di provarci con mia cugina, mescolando, con l'estrema serietà del gioco di ruolo, i tratti classici del mito greco a quelli da esso derivanti, ma cortesemente ridiscussi, del romanzo cavalleresco. Nella mia nuova prospettiva, se fossi riuscito nell'impresa avrei guadagnato terra, figa e libertà, sarei stato Re e Teodora Regina. Altrimenti, sarei morto provandoci, come fanno gli eroi, coscienti dell'ineluttabilità del destino e dell'impossibilità di conoscerlo sub specie humanitatis.
Così carico, arricchito e rinnovato da propositi sì nobili, aprii regalmente la porta del cesso, e scesi le scale per unirmi alla famiglia. Mi stavano tutti aspettando, compresa la zia, aspiratrice di sperma, che mi guardò con inaccettabile complicità, e compresa Teodora, dai capelli bagnati, che mi sorrise con affamata sollecitudine. Mi scusai, senza tuttavia addurre spiegazioni a nessuno.
Sulla tavola, all'ombra del terrazzo leggermente spazzato dalla brezza di mare, si dispiegava intanto il trionfo di mia nonna: era stata tutta la mattina, e chissà quanti giorni di preproduzione, a congegnare il piano delle pietanze, e adesso ognuna faceva bella mostra di sé in uno sfavillante samba di antipasti. Per ogni commensale c'era una rosea coppa di cocktail di scampi, e sparsi dappertutto v'erano piattini con insalate di polpo, di moscardini, di seppioline, di farro e gamberi, e un grande vassoio con l'impepata di cozze, un altro pieno di telline, uno di capesante. E fagioli freschi con cipollotto, pomodori in olio d'oliva, melanzane marinate, peperoni grigliati con aglio e basilico. E di seguito una devastante trilogia di primi: gli spaghetti con le vongole, i paccheri al sugo di lupo e le linguine col riccio di mare. Ma se gli altri mangiavano con gusto tutto sommato quotidiano, e con il piacere semplice della convivialità, per me quel pasto era come la scorta d'acqua del cammello prima di affrontare il deserto, come le provviste per il soldato che va in guerra: mangiavo, e mangiavo, sapendo che da quel momento avrei avuto bisogno di ogni forza, di ogni caloria, giacché l'impresa era grande e non sapevo ancora quanto sarebbe durata. Non era più tempo di tristezza e inappetenza: se non volevo soccombere e abdicare alla schiavitù, dovevo cercare l'ottimismo, anche se ciò avesse significato forzare il mio umore, del quale io stesso, in fin dei conti, cominciavo ad averne abbastanza.
E tutti si stupirono, piacevolmente, nel vedermi votato all'abbuffata con sì gran voracità; per mia nonna era il migliore dei complimenti, per mia madre un sospiro di sollievo. Quando arrivammo ad affrontare i secondi, però, cominciai a vacillare: una distesa di pesce grigliato si proiettava davanti a me, cernie ed orate, sarde e gamberoni a perdita d'occhio. Pensai di cavarmela con una serie di assaggi, ma quando dalla cucina arrivò un piattone con la frittura mista, e una padellata di calamari ripieni, ebbi una vertigine. Capii di dovermi fermare, e con le bollicine nel cervello restai per il lunghissimo tempo restante in sottomarino silenzio, come ubriaco, guardando gli altri continuare a riempirsi senza freni.
Mio nonno, tuttavia, arrivò quasi a pregarmi – e si doveva portar pietoso rispetto a quell'anziano che pregava un ragazzino – perché mangiassi anche solo un boccone di peperone ripieno, che per lui era questione quasi di superstizione e di rito familiare, in quanto ogni anno, da quando ne aveva ricordo, da quando il bambino era lui ed era sua nonna a creare pranzi ferragostani un po' meno opulenti, aveva sempre mangiato almeno un peperone ripieno il quindici d'agosto, riuscendo a non farselo mancare neppure durante la guerra, quando con altri paesani suoi si era dato alla macchia in montagna per sfuggire alla leva, e presso una casa di donne sole aveva trovato alloggio, piacere e ristoro, e persino una teglia di peperoni ripieni. «Culo!» aveva sempre detto, e per lui era una grande lezione di vita.
Per me, invece, in quel frangente un peperone equivaleva a un peyotl, e se alla fine accettai, vista la sua meridionale, superstiziosa insistenza e il dispiacere di dispiacergli, fu un errore che pagai a caro prezzo: ne mangiai addirittura uno intero, con ignoranza arrogante giacché avrei potuto e dovuto prenderne mezzo, o ancora meglio un quarto. Purtroppo, ahimé, lo calai tutto, e quel che mi toccò fu un viaggione infinito, il più peso della mia vita.
Cominciò a salirmi che ero ancora seduto, e pensando di non dover ingerire più nessun solido e/o liquido, commisi un altro errore, giacché rifiutai la manna fresca del cocomero e della frutta di stagione, scansando in malo modo anche la secchiata di sorbetti al limone che investì la tavola. Non bevvi nemmeno un ultimo bicchiere d'acqua.
Restai invece stolidamente impietrito, sotto la tettoia e la calura invadente, a percepire i cambiamenti della mia percezione, come se mi si stesse progressivamente addormentando il sistema nervoso e potessi rendermi conto di ogni passaggio seppur ormai privo di capacità di reazione; come se un serpente mi avesse morso e il suo veleno psicotropo mi fosse entrato in circolo, come un'anestesia che non mi avrebbe tramortito ma solo tolto ogni capacità di presa e controllo sul corpo; facevo fatica a parlare, e ormai anche a muovermi, e probabilmente fu solo grazie alla mia novella attitudine eroica che riuscii a trascinarmi fino ad un lettino, sul quale crollai, semicosciente, mentre sul terrazzo iniziava a imperare, allucinante e allucinata, la controra devastante del mediterraneo.
Pregai la mia Musa perché mi proteggesse e indicasse la via, e mi preparai, come già avevano fatto i miei illustri colleghi e predecessori, a fare visita al regno dei morti.

(continua)
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
mapa ha scritto:
attendo il mmento propizio :zalve:

aspetta di essere sola in casa, chiuditi a chiave comunque per stare tranquilla, e metti un asciugamano sulla superficie su cui siederai...

ogh anche tu, quando sarà non ti scordare i fazzoletti ;)


p.s. grazie rebbo
 

Valchiria

SoHead Perfumier - Queen of the year
Merda mersò, ho il ciclo e non posso leggerlo, non mi piace toccarmi quando c'è in giro del sangue, farò come mapa e oghard e attenderò il momento propizio >__<
 

Oghard "El Burro" Fireburp

Admin
Fantacalciaro
Grande Mersault. È un racconto davvero ricco.
Sappi però che io tengo per la zia, le femmine dominatrici mi hanno sempre preso bene.
Ti volevo solo porgere un consiglio, una cazzatella: ad un tratto dici che il padre del protagonista si carica sulle spalle un cocomero di cinque chili. Io credo che un cocomero di cinque chili sia molto piccolo, per un'occasione del genere ci vedrei bene una bella "melonessa" di diciotto-venti chili, quelle lunghe e robuste che si vendono proprio nel periodo di ferragosto.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
deh grazie della segnalazione, in effetti nella descrizione del quantitativo di cibo e del peso delle varie primizie non ero veramente sicuro, lo correggo subito citando papale papale la tua frase :awesome:
 
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