[Regno di Makuria] La terra baciata dal sole

Capitolo I
L'educazione dei principi


L'aria salmastra di Mits'iwa era piacevole, in quel sorgere del mattino.
Il piccolo porto si svegliava col sole, mentre il bazar si animava dei primi richiami di mercanti e lavoratori.
Re Georgios, quarto del suo nome, osservava con paterno affetto la gente che si preparava alla nuova giornata, così ricca di imprevedibili novità, dolori e gioie.
I suoi occhi stanchi tradivano la lunga veglia di preghiera che la festa di San Michele Arcangelo prescriveva a chi, come lui, aveva preso i voti: un re sacerdote, un pastore del proprio popolo come nessun altro re cristiano.
Tuttavia la gioia del mattino faceva splendere il volto ancora giovane, e il sorriso che si schiudeva tra le sue labbra era sincero.
Come un padre osserva i suoi figli, lui osservava i suoi sudditi, e come gli aveva insegnato a fare suo padre, e come era tradizione da tempo, accettava questo suo ruolo con letizia e fede profonda.
Il rumore discreto della porta che veniva schiusa lo fece voltare, e un altra gioia della sua vita gli fu dinanzi: suo fratello Feraki conduceva con se i suoi figli, Moise e Silkenos.
Il re li aveva invitati la sera prima, quando era giunto nella villa del fratello in terra di Danakil, a condividere il desco con lui per la colazione, visto che i precetti santi non gli permettevano di onorare il banchetto di benvenuto tradizionale della sera.
E suo fratello, il suo amato fratello, adesso conduceva a lui le nuove speranze per il Regno di Makuria, coloro che sarebbero stati chiamati a condividere il potere e la responsabilità del governo.
Moise, il maggiore, dimostrava più dei suoi dieci anni: alto, già mostrava spalle forti e un certo fascino nel volto, capace di stregare gli uomini e le donne. Ricordava al Re suo padre, il forte guerriero Basileios, che univa all'esercizio delle armi il suo rivolgersi a Dio.
Di contro Silkenos era ancora piccolo per la sua età: in lui quello che risaltava erano gli occhi, mobilissimi ed acuti, sempre ad indagare il mondo. In quel momento era intendo a rimirare il re, quasi a valutarlo.
Un ottimo inizio, fu il pensiero di Georgios.
Si fece avanti, e abbracciò il fratello con calore, ricambiato dalla potente stretta di Feraki.
"Quanto tempo, quanto tempo..."
"Troppo, mio signore, troppo. Tre anni di lontananza iniziano a chiedere il loro prezzo.. ho già qualche capello grigio ormai."
Risero entrambi, felici di essersi ritrovati, poi si accomodarono sotto il pergolato, sui comodi cuscini intorno alla frugale mensa imbandita da silenziosi servitori.
I due giovani, dopo un momento di riflessione silenziosa, si spintonarono per mettersi a sedere il più lontano possibile dallo zio.
Il Re non poté che nuovamente schiudersi al riso, e preso il pane lo spezzò recitando la preghiera di benedizione sul pasto ricevuto.
"Dimmi Feraki.. sono sempre così attivi di prima mattina questi bricconi?"
"Affatto.. Silkenos dormirebbe tutto il giorno se potesse."
"Beh, dovranno abituarsi anche a questo. E' tempo per loro di farsi carico del loro ruolo di principi."
Feraki lanciò al fratello uno sguardo ferito, comprendendo fin troppo bene il significato di queste parole.
"Sono ancora giovani.."
"Non più di come eravamo io e te.. e direi che il risultato con noi è stato discreto, non trovi?"
Parlarono lungamente, mentre i due ragazzini consumarono voracemente il pasto. Il sole sorse completamente, e inizio il suo cammino nel cielo mentre continuavano i loro discorsi: frattanto Moise girellava sul terrazzo, mentre Silkenos si addormentava su un cuscino mentre aveva ancora in mano un pezzo di pane cosparso di miele.


Il primo pomeriggio era ormai giunto, e Re Georgios osservava i due fratelli che salutavano la madre, mentre i loro scarni bagagli venivano fissati sui cammelli. La scorta di cavalieri si era già radunata, e un piccolo morello, capace di trasportare entrambi i bambini, era stato condotto fuori dalle stalle.
Feraki e Ikìríí si fecero accanto al sovrano, guardandolo senza riuscire ad esprimere parola.
"Arrivederci fratello, e arrivederci principessa. Avrò cura che i vostri figli possano visitarvi il più spesso possibile, non temiate."
Il principe cercò di dire qualcosa, mentre la donna scoppiava in pianto; si limitò soltanto a stringere forte la mano al fratello, mentre questi montava in arcione.
 
Capitolo II
Lalibela


Damascio stava cercando il principe da più di un ora.
Moise era scappato dalla lezione approfittando di un piccolo momento di sonno del consigliere, e solo Dio sapeva di si era nascosto.
Re Georgios sarà contrariato, penso l'uomo. Il ragazzo non mostra interesse nè alla matematica nè alla filosofia, e per di più escogita in ogni modo trucchi per bigiare.. che Re mai sarà?
Il clangore dell'acciaio contro acciaio riscosse Damascio, che ebbe come un illuminazione: ma certo, il cortile delle guardie!

Il giovane principe era appollaiato sulla balaustra, ed osservava il fine gioco di duello tra due guardie dall'aspetto truce e un giovane che da poco aveva superato l'adolescenza.
La prima guardia mulinò in alto la spada, imprecando, mentre la seconda si lanciava in un affondo deciso che avrebbe colto l'avversario all'addome.
Il giovane parve scivolare via, mentre con la spada bloccava il colpo alto e con un movimento deciso lasciava passare avanti il braccio rivolto contro il ventre: un attimo, e fu di nuovo sotto con un potente calcio che stese la seconda guardia.
Di nuovo le spade danzarono, ma un preciso sgualdrembo aprì la guardia, un colpo discendente calò dall'alto e in un attimo Kyriakos fu l'unico in piedi sulla terra battuta.
"Bravissimo!"
Moise applaudì, mentre il giovane sorpreso si girò a guardare chi gli tributasse tale riconoscimento.
"Mio principe, sei tu. Non dovresti essere a lezione?"
"Come fai a saperlo, Kyriakosì"
"Dallo sguardo infuriato di Damascio dietro di te..."


La sala del trono era silenziosa, mentre in quattro aspettavano la parola del Re: Moise, il viso rosso di vergogna, Damascio, ancora pieno d'ira, un disorientato Kyriakos e il principe Silkenos, che adesso portava i capelli rasati ed aveva un aria stranamente solenne.
Georgios sospirò, poi si decise a parlare:
"E' evidente che ho commesso uno sbaglio.. Moise sembra non avere ancora alcun interesse verso gli studi alti, quindi dispongo che tu, Kyriakos, lo prenda come tuo paggio. Se è tanto innamorato delle armi, che abbia almeno un buon insegnate. Damascio, vorrei che tu mi portassi poi i registri del conio.. dobbiamo discutere degli investimenti per le strade e per le riparazioni delle vie commerciali sul Nilo. Potete andare, adesso."
Moise, il cui volto splendeva di gioia, seguì Kyriakos fuori dalla stanza diretto verso le caserme. Damascio, la cui rabbia inizia invece a scemare, uscì dalla Porta Regia diretto verso la Cancelleria.
Solo Silkenos rimase fermo, in attesa.
"Bene.. anche questo è governo. Adesso ricominciamo, mentre andiamo verso la sala delle mappe. Cinque per cinque?"
"Venticinque."
"Ottimo. Chi è il padre fondatore della Santa Chiesa?"
"San Pietro. Dopo di lui per importanza San Paolo, San Giovanni e San Marco sono i tre fondatori. Credo."
"Una buona risposta, anche se incompleta. Adesso faremo qualche calcolo e progetto per vedere come organizzare la via commerciale lungo il Nilo e le strade per collegarla alla costa.. oltre a qualche scalo sul Mar Rosso. Ho detto a tuo padre di occuparsi personalmente di questa cosa, e quanto mi scrive sta facendo un ottimo lavoro."
 
Capitolo III
Tracce nel deserto


I segni sulla mappa era poco più che tenui refe di nero.
Il più spesso correva lungo la costa del Mar Rosso, dal lontano villaggio fortificato di Djibuti fino a quello di Suakin, dove mutava bruscamente percorso per raggiungere la città interna di Assuan sul Nilo.
Moise osservava con attenzione come Kyriakos scrutasse la seconda mappa, annotando qualcosa in greco su una tavoletta.
La pazienza non era decisamente il suo forte, ma continuò ad oliare la maglia di ferro, anello dopo anello, con la luce della lanterna che tremolando gli indicava il lavoro.
"Se hai qualcosa da chiedere Moise, parla. Non tenere per te i tuoi pensieri, potrebbero essermi utili."
Il ragazzino si stupì ancora una volta di come fosse unico il suo maestro: intelligente, forte, dotato di un carisma che ammaliava i soldati.
Non usava il suo lignaggio per comandare, ma l'esempio e il sacrificio: il primo ad alzarsi, l'ultimo a riposare, e solo quando era certo che tutto fosse in ordine e al sicuro. Rideva con i suoi uomini, ne condivideva il desco, e quando in un momento di pausa nella marcia aveva abbattuto alcune antilopi con gli altri ufficiali ne aveva disposto l'uso come pietanza per gli infermi e gli abitanti dei villaggi vicini.
E che guerriero era! Astuto, veloce, non forte come il Campione del Re Zubeir, ma capace di atterrarlo con un attenta conoscenza dei suoi punti a favore e di quelli a demerito.
Addestrava gli uomini durante la marcia, facendone alzare un parte un ora prima dell'alba e dirigendola personalmente in imboscate, allo scopo di saggiare i suoi secondi: di tutti solo Issaferne, un silenzioso guerriero di Assuan, sembrava riuscire a intenderne parzialmente le intenzioni e rispondere alle mosse.
Esserne il paggio, condividere con lui l'arte delle guerra, era un grande onore che la bontà e la lungimiranza di suo zio avevano reso possibile.

Moise, finita questa attenta riflessione e raccolti al meglio i pensieri disse:
"C'è una cosa che non capisco, exegete. Perchè non marciamo sui quei territori, e ci limitiamo a camminare lungo i confini?"
Kyriakos si voltò, posando la mappa sulla stuoia del pavimento.
"E' semplice, mathetes. La gente che vive al di là di questi monti è fiera e indomita, e per lungo tempo è stata parte un fiorente regno dal cui lignaggio deriviamo sia io che mia cugina Idéén. Per quanto si siano divisi per orgoglio e dispute familiari sono più che capaci di superare tutto per unirsi contro un nemico comune. Non è tempo ancora per l'acciaio, quanto piuttosto lo è per la parola."
Moise parve assimilare lentamente le frasi, come se il concetto fosse in qualche modo alieno alla sua forma mentis. Kyriakos sospirò, e ripresa in mano la mappa gli fece cenno di avvicinarsi.
"Continuerà Xenos a pulirla, ora osserva questa con me."
Il ragazzo si avvicino, mentre l'altro paggio, uno sveglio ragazzino di due anni maggiore di lui si fece avanti e riprese il lavoro interrotto.
"Vedi, questa è la linea su cui stiamo marciando, mentre questo è il Mare Rosso.. qui c'è il palazzo Reale, e qua Massau, come le mie genti chiamano la città da dove vieni. Questa invece è Assuan, e questa sono le altre regioni.. cosa pensi siano queste tracce nere?"
"Sono strade, giusto?"
"Magari lo fossero.. tuo zio, nella saggezza, ha deciso che lo saranno, e che triplicheranno l'estensione delle piste attuali, con regolari posti di sosta e nuovi villaggi dove sarà possibile edificarne, oltre che ceppi miliari per misurarne la lunghezza. Inoltre ha disposto che qua, qua e qua" indicò alcuni punti sulla mappa "siano creati degli accampamenti militari permanenti per esercito pari a metà di questo."
Lo sguardo di Moise era rapito da tale enorme sforzo militare e civile, e la sua curiosità era giunta a vette altissime.
"E questi punti, exegete? Questi punti sul Mar Rosso?"
"Quelli sono nuovi scali, porti permanenti per il commercio. Come puoi vedere numerose strade li collegano col resto del regno, e sono tutti uniti da questa importante via carovaniera che a pieno regime consentirà il passaggio di quattro carri affiancati.. un opera colossale, interamente lastricata."
Gli occhi del ragazzino ormai erano sgranati come uova, e Kiriakos fu soddisfatto per quella sera di quanto aveva ottenuto come maestro.
"Svegliatemi domani all'alba. Non ci sposteremo, ma dà voce a la Quinta compagnia di ritenersi esentata dalla corvè e tenersi pronta a partire al tuo ordine per tutto il giorno. Vediamo se sarai capace di stupirmi, mathetes."
La gioia negli occhi del ragazzino accompagnò il sorriso soddisfatto del maestro.
 
Capitolo IV
Il Santo Natale


La notte era placida, e il clima mite nonostante il periodo dell'anno.
Le porte della chiesa, la cattedrale di Lalibela, erano spalancate, così che il popolino giunto dai villaggi vicini potesse godere della Santa Messa celebrata dal suo re prete.
Accanto all'alta figura di Georgios, quarto del suo nome, che era intento ad elevare il pane per benedirlo, spiccavano due uomini riccamente vestiti, i cui paramenti brillavano d'oro.
Quello più anziano teneva alto il calice del vino, simbolo della passione di Gesù il Salvatore, e mormorava benedizioni in greco.
L'altro, visibilmente più giovane, stava rivolto verso il re, con una pesante croce di legno levata verso il pane: i suoi occhi erano fissi sul volto di Georgios, anziché sul sacro simbolo.
"Possa Dio benedirci tutti, come ha benedetto il corpo e il sangue del suo figlio."
L'esortazione in copto del Re era un evidente strappo alla liturgia classica, ma il vigoroso "Amen" pronunciato dall'assemblea fece ricomporre immediatamente i diaconi e i vescovi stupiti dal gesto.
Il popolo adorava il Re, e ne era ricambiato: il calcolo mentale fu rapido nella mente degli uomini di chiesa.


Lo scoccare della mezzanotte decretò l'inizio del secondo per importanza tra i Dodici Giorni di festa liturgica: come il re aveva ordinato i suoi servitori avevano imbandito lunghe tavole, su cui venne distribuito pane, formaggio, pesce del ricco mare giunto sotto sale nell'entroterra. Il vino di palma, ingentilito con acqua e miele, veniva bevuto con moderazione nella notte di festa del popolo.
Georgios guardò i suoi figli, i suoi amatissimi figli, e levò in alto la disadorna coppa di legno che da secoli la famiglia reale si tramandava per celebrare la messa della Nascita del Signore.
"Che sia fatta festa: Ecco, nasce in Betlemme un bambino, della stirpe di Davide, che sarà Signore d'Israele! Gioisci popolo santo, gioisci davanti al Signore!"
Con un movimento deciso alzò il calice, per poi vuotarlo d'un fiato.
Giovanni e Michele lo imitarono, e con loro tutte le genti accorse alla corte del Re.
"Permettete una parola, amici?"

Nella sala del trono il silenzio era assoluto, e le luci basse e soffuse. Il clamore dalle festa gioiosa era attutito dalle spesse pareti, e solo due silenziose guardie vigilavano sulle porte. Un basso tavolino, imbandito di numerose e ricche pietanze, era stato posto alla base della scalinata del trono, e tre sedie vi erano accostate.
"Prego, sedetevi. Silkenos, aiuta i vescovi ad accomodarsi."
Il giudizioso bambino mosse i seggi, e con voce squillante rivolse gentili parole di benvenuto ai commensali. Il Re stesso lo invito ad accomodarsi sulle scale, dove prese ad esercitarsi a scrivere su una tavoletta di cera.
"Un bimbo notevole, non c'è che dire."
Le parole di Giovanni spezzarono il silenzio, e la conversazione fluì verso questioni di chiesa, di dinastie e di interessi comuni, come lo studio della filosofia e degli antichi testi di sapienza.
Quando la tavola fu vuota e il vino delle ultime coppe versato il re fece cenno al bimbo di portare un voluminoso rotolo, posto sul trono, nelle sue mani.
"Ecco signori, questo è qualcosa che voglio vediate. Ho riflettuto a lungo sui bisogni del popolo, prima di giungere ad un illuminazione: cos'è che ci discerne dagli empi e dalle bestie? La fede e l'intelletto. Spero quindi che troverete questo mio editto un utile strumento per questo fine."
Michele sembrò trasalire nelle lettura, ma mascherò benissimo gli altri sentimenti: Giovanni, d'altro canto, a metà si interruppe e si rivolse al re, in modo franco e diretto.
"Maestà, tutto questo è quantomai improbabile."
Georgios si aspettava questa opposizione, e con calma prese ad esporre il suo punto di vista, esplorando i più ampi limiti e dubbi posti dai due uomini di chiesa.
Alla fine della discussione la notte era ormai quasi giunta al termine, ma tutti e tre sembravano profondamente soddisfatti.
Silkenos pareva dormire, steso sugli scalini.
"Ebbene, come sempre il vostro aiuto e la vostra amicizia mi sono stati preziosi. Darò disposizione che il testo sia diffuso in tutti i villaggi del regno, e che le somme previste siano immediatamente distribuite presso le chiese tramite le parrocchie e i vescovadi."
Entrambi i vescovi mormorarono parole di ringraziamento, prima di ritirarsi per un pacifico sonno.

"Ebbene.. hai seguito, mathetesì"
"Si, exegete. Uno di loro non vi apprezza, ma sono fortemente in competizione l'uno con l'altro per il potere."
"Non potevo aspettarmi di meno dal figlio di mio fratello. Vai a dormire adesso, domani ci attende un altro giorno di preghiera e festa."
 
Capitolo V
Fuoco e Fiamme


L'accampamento militare di Korosho fremeva di attività, nonostante l'ora di tardo pomeriggio. C'era da organizzare l'arrivo dell'ex-esercito reale di Alodia, da sistemare i nuovi picchetti e i nuovi alloggi, da controllare le scorte e i pozzi.
Messi andavano e venivano in continuazione, ma uno di essi, che si presentò a Jimbuè Lassitani, primo ufficiale addetto ai rifornimenti, portava una missiva particolare: una lettera da Lalibela, giunta in copia a quanto pareva a tutti ufficiali superiori e a quelli di sussistenza.
Le invettive che seguirono l'apertura del plico richiamarono l'attenzione del secondo ufficiale addetto ai rifornimenti, Ghazi al Sharif.
"Che succede, Jimbuè? Problemi?"
"Leggi qua, e dimmi se non ci sono!"
Ghazi prese quelle che sembra una serie di prospetti e liste, fittamente dettagliata con immagini.

Per la Fanteria Pesante, detta dei Diavoli:
Si provveda a due paia calzari eguali, in cuoio rinforzato e borchiato.
Tre paia di pantaloni di panno leggero, color grigio ardesia.
Tre tuniche, color grigio ardesia, con taglio al collo medio, e manica lunga.
Due mantelli, bianco in panno leggero l'uno, nero in panno pesante l'altro.
Due fusciacche, entrambe rosso sangue.
Una cintura in cuoio, rinforzato e borchiato.
Un sorcotto imbottito a due punte.
Una veste di maglia, lunga sotto il ginocchio.
Due schinieri in bronzo.
Una spada a lama stretta e lunga.
Due lance, con asta di quattro cubiti e punta di quattro palmi e tre dita in acciaio.
Uno scudo, alto due cubiti e cinque palmi, in legno rinforzato in acciaio.

Ghazi rivolse uno sguardo sconvolto al compagno.
"E' uno scherzo vero?"



La bottega di Mastro Farah non era mai stata così impegnata da anni, fin da quando egli non era che il solo fabbro di tutta Mits'iwa che si occupasse di forgiare spade e punte di lancia.
"Signore, ecco i tre nuovi apprendisti."
Il vecchio si alzò pesantemente, i capelli e la barba bianca che ondeggiavano al calore violento della fucina: scrutò i tre giovanotti, e sorrise soddisfatto.
"Bene, il carico di legna fuori. Per un mese lavorerete giorno e notte, per il prezzo pagato dai vostri genitori. Al termine del mese deciderò se tenervi con me o no. Adesso muovetevi, ci sono numerosissime consegne reali da soddisfare!"
Il vecchio sorrise nuovamente, soddisfatto. Era tempo che il lavoro rifiorisse, e che l'acciaio fosse battuto come la sua arte gli insegnava.
 
Capitolo VI
Il porto di Mits'iwa


Feraki diede un ultima rilettura al progetto, mentre le grida degli operai dietro di lui indicavano che un altro ciclopico blocco di pietra era stato posato.
Il molo, modellato a forma di uncino, era ormai quasi completato, e le banchine lungo la riva erano state già iniziate: le risorse messe a disposizione erano state copiose, e spese in modo oculato avevano permesso di completare buona parte dei lavori già dopo sette mesi dall'inizio.
Il principe si stiracchio, soddisfatto, il corpo seminudo esposto al calore del sole di settembre.
"Beh, non c'è male. Che ne dici Damascio?"
Il vecchio consigliere si guardò attorno, e con calma ponderò come il maggiore dei figli di Basileus avesse svolto egregiamente il compito.
"Ottimo, davvero ottimo. I bacini a che punto sono?"
"Vieni con me a dare uno sguardo, e potrai accertartene da solo."
Camminarono lungo un via ampiamente battuta, discutendo su alcune piccole migliorie da apportare al porto una volta terminato: un magazzino per le sementi, alcuni blocchi di pietra cui legare le cime delle navi, la costituzione di una compagnia di armatori e marinai permanenti al servizio del re.
La struttura di legno fu sin troppo preso davanti a loro: un lungo e largo capannone, che al suo interno custodiva delle profonde fosse collegate al mare della baia, sbarrate da strutture a diga.
La ciclopica opera di scavo aveva avuto termine, e ora si provvedeva a rivestirle di legno e pietre, affinché al varo della nave, con l'acqua che saliva, non fossero mangiate e crollassero su loro stesse.
"Questo, Damascio, è Abdi, un esperto marinaio. Questo progetto è opera sua, dice di aver preso l'ispirazione dal porto d'Alessandria la grande."
Il gigantesco uomo di mare, dalla pelle fin troppo chiara per un nubiano, strinse con forza la mano al Domestikos.
"E' tutto vero! Ho navigato a lungo lungo le coste dell'Egitto, per poi seguire il corso del Nilo e dell'Atbara. Quando ho saputo che stavate costruendo questo porto sono corso subito ad evitare che faceste disastri!"
La risata profonda inorridì Damascio, che tuttavia incasso signorilmente gli insulti dello straniero e replicò: "Spero che quanto trovato sia stato di vostro gradimento. Ora vogliate scusarmi, ma devo parlare con il Principe Feraki."
"Certo, certo! Dite al vostro re che prima dell'anno nuovo sarà tutto pronto, e potremo varare i primi vascelli.. non saranno molto grandi, ma sicuramente ben fatti!"
 
Capitolo VII
Il principino

La costa di Djibuti splendeva nel mattino: le pigre barche dei pescatori veleggiavano poco a largo, le vele sbuffi di schiuma di un bianco accecante.
Il piccolo villaggio faceva corona alla chiesa, costruita in tempi antichi da San Frumenzio in persona.
Il possente Zubeir avanzava guardingo, scrutando in modo truce i popolani che si facevano sotto per baciare la mano del loro Re, giunto inaspettatamente in quelle terre.
"Allora Silkenos, che ti sembra di questa terra?"
La frase in greco, lingua sconosciuta ai più, meravigliò la gente, che guardò con ancora maggiore stupore quel simbolo tra il terreno e il divino.
Il piccolo ragazzo che cavalcava poco dietro il re invece sembrò non notarla: l'anno trascorso aveva portato una maturità innaturale in una così piccola creatura, e una certa aria solenne che si accompagnava a quel crescere disordinato che è l'affacciarsi all'adolescenza.
"E' ricca, fertile, e il mare mi ricorda molto casa." si risolse a dire infine "Anche se le onde sono più grandi, e non si scorgono che poche isole al largo."
Il Re guardò con soddisfazione l'allievo, e rispose: "Eppure è qua che dovrà sorgere un importante porto. Dimmi, mathetes carissimo, dove lo costruiresti tu? Ripensa a quello che ha fatto tuo padre, e dove Abdi ha posto i moli e i bacini. Pensa alle maree, al vento, lavoro dell'uomo: cosa ti dice la tua mente?"
Nuovamente Silkenos rimase muto, ma fatta forza sugli arcioni si guardò attorno, scrutando il paesaggio verde: il mare oceano era davanti agli occhi, dietro di se la terra.
"Non qui, exegete. La violenza del mare spazzerebbe via tutto, prima o poi. La carta indica che questa è una penisola, che genera una baia: il porto andrebbe fondato nella baia, dove il mare è più calmo, e la terra spezza i venti."
Il Vescovo Giovanni, Governatore di Djibuti, fissò con intensità il piccolo principe.
I Merkurios hanno trovato un erede, fu il suo pensiero.
 
Capitolo VIII
La Marcia

Moussa aveva visto tante cose nella sua lunga vita: le piene furiose del fiume, i violenti incendi lungo le pendici dei monti, le turbinanti tempeste che scavalcavano le montagne dell'interno e piombavano ruggendo sui declivi dove abitava la sua gente, stretta nel capanne del villaggio di Hamdal, un tempo città di una certa importanza, come ricordava sempre suo nonno.
Ma quando sentì le capre belare, e l'urlo di terrore di sua suocera capì che qualcosa di nuovo e sconosciuto stava per piombare sulle loro case.
Per primo giunse il rombo, distante, fortissimo: ossessivo e continuo, costrinse il vecchio a tapparsi le orecchie sgomento.
Poi il vento portò nubi di terra, pesante terra secca delle colline che volava al vento, e Moussa dovette alzare la veste a coprire il naso e la bocca.
Infine la cacofonia di migliaia di voci, di trombe, di oggetti metallici e nitriti di cavalli.
"E' l'Apocalisse!" urlò suo figlio Nasakhma, mentre si strappava i capelli e si faceva furiosamente il segno della croce.
Improvvisamente come era cominciata ogni cosa cesso.
Il silenzio assordante avvolse il villaggio, mentre tutti non poterono far altro che guardarsi in viso, chiedendosi se erano ancora vivi o già morti.

"Moise, prendi con te trenta arcieri a cavallo e Xenos. Voglio che vi mostriate al villaggio, portandogli doni.. in fondo dovranno convivere con noi per un pò di tempo, mentre aspettiamo che la prossima mossa dell'avversario."
Il principe annuì, e chiamati a se l'amico diede ordine che i due scrigni preparati la sera prima fossero portati avanti da due servi.
Xenos nel frattempo radunò la scorta, e ne approfittò per dare un tocco di colore per impressionare gli abitanti dei villaggi: tutti gli uomini indossarono l'armatura completa e i pesanti elmi chiusi, con la spada appesa alla bandoliera e l'arco incordato in pugno.
Kyriakos guardando la scena fece un cenno di approvazione: la teatralità di quei guerrieri senza volto avrebbe sicuramente impressionato i contadini del villaggio, e avrebbe sciolto le loro lingue: l'idea di Xenos era ottima.
Quando però vide arrivare Moise restò senza fiato: il principe indossava una maschera dorata, probabilmente trafugata da palazzo, un corona di foglie d'alloro realizzata nel più puro argento e vesti preziosissime, damaschi e sete delle più ricercate. La mano destra stingeva lo scettro, quella sinistra una spada sguainata.
I due servi dietro di lui avevano aperto le casse, che esibivano un carico di biondo grano e uno di bianca farina, della più fine.
"In marcia, uomini! Che si stupiscano davanti alla forza e la gentilezza di Makuria!"
L'urlo profondo dei soldati intorno fu più chiaro di mille parole.
 
Capitolo IX
Il Signore della Nubia


"Vedi David, le tue terre per quanto splendide e ricche d'oro sono fin troppo dipendenti dal resto del regno per grano, orzo e altre derrate alimentari.."
"Vostra Maestà ben saprà che l'asprezza del terreno della Nubia non è cosa che possa essere cambiata dall'uomo secondo sua volonta.. nemmeno da un Re."
"Nobile David, Vostra Maestà, vi prego! calmate gli animi!"
"Damascio, io sono calmissimo. Mi limito riportare i fatti, per quanto siano poco piacevoli."
"Ma Vostra Maestà deve considerare che la Nubia ci fornisce il prezioso oro delle sue miniere, e che tale merce è frutto di scambio libero con i nostri vicini Fatimidi.."
"Sono in grado di parlare per la mia terra da solo, Domestikos. "

Phtalos guardò Kiriakos, suo compagno di guardia.
"Possibile che quei tre quando si incontrano litighino sempre?"
"Il peso del potere amico mio, il peso del potere.."

Il re con un gesto secco della mano fece cenno ai due suoi interlocutori di fermarsi.
"Sedetevi, ora." Il tono secco, di comando, spinse i due ad accomodarsi sulla pietra del muricciolo che circondava il chiostro del palazzo.
"Forse, anzi, direi sicuramente non ci siamo intesi. Io apprezzo molto quanto fatto da David nel governo della Nubia, e lo ritengo uno dei miei più efficienti e fedeli nobili. Tuttavia questo non toglie che possiamo fare ancora di più, per rendere la Nobatia tutta su cui entrambi avete magistero una terra che possa rivaleggiare con Canaan. Dimmi dunque, mio Eparco, di cosa abbisogni per realizzare opere di irrigazione e canali sulle tue terre?"
David sembrò un attimo riflettere, meditando sulle parole del Re.
"Uomini, innanzitutto. E pietra, materiali da scavo, barconi per lo spostamento della terra."
Damascio annuì, e continuò:
"Serviranno anche artigiani esperti nella foggia delle pietre, e soldati per vigilare il tutto."
"Ottimo, benissimo. Ecco quindi come risolverò la questione: tu, David, avrai diritto a trattenere un quinto degli introiti commerciali della tratta commerciale tra la tua terra e i Fatimidi, al fine di realizzare tali opere secondo tuo giudizio."
L'Eparco si alzò, e fece un profondo inchino.
"Grazie Maestà, vi assicuro che spenderò quel denaro nel miglior modo possibile."
 
Capitolo X
Il Sant'uomo di Albione

Giovanni ancora non si era abituato al continuo sciabordio delle acque della laguna: le voce straniere, così gutturali e prive di armonia, tormentavano i suoi momenti di preghiera, e il sole così basso e tetro rendeva cupe le giornate.
I contabili e i nobilotti del suo seguito trascorrevano il tempo presso la Zecca, perfezionando gli accordi; le sue guardie sperperavano il conio presso le case di piacere, o presso le nobili case in cui stavano donne troppo sole: egli invece trascorreva il suo tempo in adorazione davanti alla bara contenente i resti santissimi di San Marco, pregando perchè il suo Santo Spirito si imprimesse sul suo messale e su alcune strisce di stoffa benedetta, che un mercante aveva giurato appartenenti alla cotta di San Frumenzio in persona.
Tuttavia l'inquietudine nel suo cuore era profonda, al punto che faticava a prendere sonno: c'erano momenti in cui sentiva dentro di sè come un desiderio viscerale ad abbandonare Venezia, per dirigersi in un luogo che gli era ignoto, dove sapeva lo attendeva qualcosa di veramente grande...
Però nessun segno, nè divino nè terreno, gli aveva indicato la direzione, l'obbiettivo verso cui rivolgersi.
Giovanni si sorprese ad imprecare sotto voce, e a maledire le unghie incarnite di San Sebastiano.
Forse fu quell'atto di scoramento, quel cadere della sua fede che spinse infine il Signore a indicargli la via.

"Paolo, ghe hai sentito?"
"Cosa, Marco?"
"Ghe xe un nuovo papa, in Ingaelterra.. un papa contro il nostro.."
"Quale ghe xarà quello giusto?"
"Eh, boh. Vedi di muoverti con quel turibolo, che il vescovo te lo speza sulla schiena!"

Il dialogo fugace tra i due sacristi parve accendere di nuova luce Giovanni, che si alzò in piedi benedicendo il signore e levando canti di gioia: tra lo stupore di tutti i presenti nella Basilica uscì quasi ballando, diretto verso la sua dimora e pronto a dirigersi verso Albione, dove lo aspettava la storia.
 
Capitolo XI
La via del Signore

La pioggia calava mestamente, rendendo pesanti i mantelli di lana cruda del Vescovo e del suo segretario, che cavalcavano alcuni metri avanti alle loro due guardie, ai loro servitori e agli armigeri inglesi, che, come aveva detto loro il capitano della guardia del vescovo, li stavano "cortesemente accompagnando al confine francese".
La traversata via mare era stata un incubo, il fragile guscio di legno dello scafo sballottato dalle onde della Manica: due uomini erano stati inghiottiti dai flutti, strappati dalle murate e dalla vita in un gorgogliante urlo marino.
Il vescovo stesso si era sorpreso a pregare per la sua vita, terrorizzato da quell'ambiente ostile dove nemmeno Dio sembrava avere potere: ripensandoci ora si dava dello sciocco, perchè quelli finiti fuori bordo erano inglesi, e il Signore aveva vegliato su tutti i veri credenti, proteggendoli dalla furia della natura. Era indubbiamente così, e silenziosamente pronunciò un Pater Nostro per onorare Dio.
L'uomo accanto a lui cavalcava silenziosamente, senza cercare di levare parola: il cappuccio ne copriva il volto, celandone il lineamenti tumefatti.
Le guardie erano state scientificamente brutali nel picchiarlo, dopo il suo rifiuto ad uscire dalla sala del Concilio: trascinatolo oltre il portone avevano colpito ancora e ancora con le mani guantate d'acciaio, sul viso, sull'addome, sulle costole.
Per due giorni Giovanni aveva temuto per la vita stessa del suo fedele servitore, reo di aver obbedito alla sua parola, ma lo spirito forte di Samamun aveva sconfitto il dolore e le ferite.
"Pater.."
"Dimmi, teknon."
"La terra di Francia è vasta, e grande saggezza è custodita nelle sue chiese e nelle sue abbazie."
"Dici il vero."
"Pensavo.. forse Dio ha disegnato questo cammino perchè aprissimo gli occhi, e cercassimo la verità nella terra di Carlo Magno: non è stata forse la sua dinastia a fregiarsi del titolo di Sacro Impero?"
"Ed è lo spirito di Dio che ti fa parlare adesso, teknon. Illumina il mio cammino, o Signore!"
Giovanni fermò bruscamente il cavallo, imitato dal seguito, mentre quello di Samamun proseguì lentamente per qualche passo.
"Parigi è nota nel mondo per il capitolo di Santo Stefano.. e l'abbazia di San Dionigi sembra sia una costruzione unica, così alta e maestosa da sfidare il cielo."
"Allora, mio teknon, è là che dirigeremo, cercando di placare questa inquietudine che ho nel cuore."
 
Capitolo XII
Viaggiatori lontani


Moise era cresciuto nei due anni trascorsi: spiccava con solennità tra i soldati della sua scorta, ridendo e scherzando con loro.
Xenos camminava al suo fianco, portando la spada del principe: il protocollo voleva che nessun membro della famiglia reale portasse armi agli incontri col re, un retaggio di antichi dissapori e tradimenti.
Attraversarono il cortile delle guardie, vuoto e silenzioso in quell'ora tarda del pomeriggio, e svoltarono nei corridoi silenziosi del Quartiere degli Allievi: solo una porta aperta, da cui usciva un suono ritmico, dava indice di vita in quella parte di palazzo.
Probabilmente sono tutti a pregare, è quasi l'ora dei Vespri, fu il pensiero di Moise.
Con la curiosità di un ragazzo sbirciò dentro la stanza, e vide un adolescente di circa la età che sembrava brillare, tanto era ricoperto di sudore: stava eseguendo continui e dolorosi piegamenti sulle gambe, mentre teneva tra le mani un libro e ne recitava a bassa voce le parole; non diede cenno di aver notato la presenza estranea, così Moise si limito ad annotare il fatto prima di proseguire oltre.
La campana rintocco due volte, e il principe e la scorta si affrettarono a raggiungere la chiesa.
[...]
La piccola sala era gremita: oltre al Vescovo Michele e a tre giovani presbiteri, vi erano radunati il Principe Feraki, Abdi il Navigatore e Damascio il Domestikos reale; il giovane principe Silkenos, quattro nobili che da poco avevano passato l'adolescenza, il massiccio ragazzo che aveva visto compiere quegli strani esercizi, Xenos, due servitori elegantemente vestiti e due guardie dall'aspetto nobile e fiero, gli unici armati in tutta la sala. E ovviamente lui, il principe Moise.
Il padre aveva salutato i figli con affetto, ridendo e scherzando con loro, raccontando del fantastico molo costruito da Abdi e delle nuove passioni della di loro madre per il cucito e i giochi indiani portati da un mercante giunto via nave: i figli si erano lanciati in lunghi racconti del tempo vissuto lontano da casa, e di che cose meravigliose avessero imparato, visto, conosciuto.
L'atmosfera era colma di chiacchiere, e uno dei nobili si era lanciato in una buffa pantomima del capitano della guardia, suscitando l'ilarità dei compagni e degli armigeri quando all'improvviso la porta che dava sulla grande terrazza si spalancò silenziosamente: da dietro essa apparve una delle donne più belle che chiunque in quella sala avesse mai visto.
Alta, dal corpo proporzionato e abbondante, vestita di un pallido bianco dai capelli velati ai piedi nascosti sotto la lunga veste, il viso incorniciato da un piccolo diadema d'argento che faceva risaltare lo straordinario colore verde dei suoi occhi.
La figura quasi divisa sorrise, mentre era calato il silenzio.
"Il mio nome è Idèèn, fratelli. Sono una servitrice del Signore e del Re, che vi invita ad entrare."
Al termine di quelle parole una teoria di servitori sembrò comparire dal nulla, e porse agli ospiti bevande rinfrescanti, mentre Georgios stesso, in piedi oltre la soglia, li invitò a godere del tramonto con lui.
[...]
"Quindi, amici cari, siete tutti coinvolti. Michele, tu e Damascio partirete domani stesso. Feraki, fratello caro, voglio che tu e Abdi continuiate nel vostro lavoro, e che le prime barche di prova siano in acqua il prima possibile. Quanto a Baba, da oggi tu, Hybisco, risponderai a me direttamente della sua educazione, e sovraintenderai all'istruzione nelle lettere di ogni nuovo ragazzo giunto a palazzo.
Infine, voi giovani principi: Moise, tu scortato da Istabanos e da Kubri, oltre che da fratello Daniele, da Xenos di Zeila e dal fedele Zacharis, raggiungerai l'Accademia di Fez, dove apprenderai la saggezza islamica, e potrai così conoscere meglio cosa anima i nostri vicini e amici, e farne tesoro per il tuo ruolo di principe ereditario."
Il Re fece una pausa, osservando l'uditorio di uomini che pendevano letteralmente dalle sue labbra, seduti sui comodi cuscini su cui avevano consumato il pasto.
"Silkenos, per te il cammino sarà molto più duro e lungo. Domani stesso partirai per la Georgia, con questa mia lettera. Israel di Nobatia, Shakanda di Sennar, fratello Timoteo e Markos " il re li indicò uno ad uno "voi lo scorterete, lo proteggerete e lo servirete per un periodo non inferiore ai sette anni."
Il principe Feraki non represse un lamento di dolore, e il fratello si chinò verso di lui stringendogli la spalla.
"E' il destino di un principe. Silkenos, ti dò anche il compito di scrivere regolarmente alla tua famiglia e a me, per narrarmi cosa apprenderai. Quanto a voi, nobili accompagnatori, riceverete terre e onori al vostro ritorno in ragione di questo vostro nobile sforzo."
Il re si alzo, levando il calice, e dopo aver salmodiato una breve preghiera disse: "E ricordate sempre: la pioggia cade sul giusto come sull'iniquo. Ma io ti ricompenserò Israele, e ti eleverò sopra ogni altro popolo della terra. Così io eleverò voi, cavalieri di San Michele che questa sera avete giurato, sopra ogni altro uomo di questa terra. Che Dio ci guidi tutti."
 
Capitolo XIII
L'uomo fiero


L'aria frizzante del mattino stava lasciando spazio al calore del meriggio, e l'intenso odore dei gigli rendeva la placida camminata dei due uomini piacevole e rilassante.
Il più giovane vestiva di tessuto grezzo, marrone scuro, e la sua pelle nera sembra assorbire la luce come un pozzo oscuro; l'altro, lievemente brizzolato, aveva la carnagione di un tenue color mogano, e comodi abiti azzurri e verdi.
"E dunque, questa sarebbe la famosa pianta di buna.."
"Già. Si dice che il succo dei suoi semi possa tenere sveglio un uomo robusto per tre giorni e tre notti."
La domanda era stata posta dal più anziano, che si era chinato ad osservare un alberello carico di frutti rossi e verdi, che cresceva in un piccolo angolo riparato del giardino. L'altro gli si era fatto accanto, indicando con un gesto della mano la spremitura.
"Davvero incredibile. E' un peccato che ad Alodia non abbiamo mai posseduto piante del genere."
"I miei giardinieri dicono sia legato ad un problema di altitudine e di temperature: la pianta ha bisogno di luoghi alti e molto costanti nelle piogge, mentre fatica ad attecchire lungo i fiumi per l'eccessivo calore della stagione secca."
"Siete fortunato, Georgios.. questo vostro giardino è un piccolo Eden sceso in terra."
"Sono certo che Alodia lo è altrettanto, David. E c'è ancora tanto da conoscere, da far crescere prima che questo possa essere davvero un Eden."
"Già. Ma l'Ordine sta lavorando a riguardo.."
"Non è detto che basti. E altri problemi mi assillano, come l'Etiopia.. E' un popolo fiero, ma ha bisogno di terre, e devo mandare qualcuno di fidato a capo dell'Armata del Mar Rosso a dar loro manforte nello strapparle ai popoli della costa.."
"E se andassi io? Potrei anche esplorare quei luoghi, e cercare notizie su nazioni e terre confinanti.."
I due uomini rimasero qualche secondo fermi, in silenzio.
"Sta bene." Il Re si alzò, invitando David a inginocchiarsi davanti a lui.
"David di Alodia, ti nomino ufficialmente Strathegos dell'Armata del Mar Rosso, e ti invio come generale e mio rappresentante presso il Negus Negesti Mara Thakla Haymanot. Possa Dio vegliare sulla tua vita. Hai qualcosa da chiedermi, fedele Uomo di San Michele?"
"Si, mio Re. Veglia sulla mia casa, sui miei figli e sul mio regno. Che Dio possa benedire la mia spada."
"La tua famiglia vivrà presso di me fino al tuo ritorno, onorata e riverita come la mia. Di questo hai la mia parola e il mio giuramento."
 
Capitolo XIV
L'orda nella notte


"Ascoltate, uomini."
La voce poco più alta del normale, che scorre lungo la vallata del fiume.
"Davanti a voi.. davanti a voi ci sono tre cose, tre sole."
Il buio della notte, del sole ancora non sorto, il buio dei ranghi su ranghi di disciplinati e silenziosi soldati, con le armi coperte di stoffa, con le armature nascoste dai mantelli.
"La prima è la morte, la compagna di ogni soldato. E' là che vi attende, in fondo alla valle, pronta a ghermirvi e cullarvi tra le sue scheletriche dita.. e a strapparvi la carne dalle ossa."
Il lieve nitrire di un cavallo, il suono ovattato degli zoccoli fasciati che sbattono sul terreno.
"La seconda è la sconfitta, che non dovete dimenticare. Vi aspetta anche lei, pronta con lo scudiscio a frustarvi su di nuovo per questa collina, come vostra suocera."
Qualche risata nervosa percorre i ranghi, mentre il generale sorride. Piano piano una tenue luce illumina la valle dell'Atbara, e le pianure di Funj, dove li attende il nemico.
"La terza è la gloria, e la vittoria. E' oro, è terra, è biondo frumento, sono donne focose e case solide.. e vi aspetta anche lei, pronta ad accogliervi dentro il suo umido ventre."
I soldati scattano in piedi, mentre i vessilli si aprono al vento, schioccando e mostrando l'orgogliosa effigie di San Michele armato di spada.
"Io penso che una di queste tre signore abbia atteso abbastanza.. non credete anche voi, miei soldati?!!?"

L'urlo riempì la valle, mentre l'esercito carica giù dalla collina, verso la gloria.
 
Capitolo XV
Il messaggero verso Oriente


L'aria calda del mattino tremolava al calore del sole battente. Il piccolo vascello su cui si andava radunando la scorta quasi scompariva tra le navi annonarie e gli scafi mercantili del porto, insolitamente calmo nonostante l'ora.
La ragione era l'uomo che adesso avanzava sulla banchina, abbigliato in modo semplice ma la cui nobiltà traspariva in ogni passo del suo incedere.
Più sui cinquanta che sui quaranta, alto e robusto, il viso fiero del colore dell'ebano più ricercato, l'aria letale del guerriero esperto: David di Nobatia onorava la sua natura di uomo tra i più potenti del regno con una presenza capace di colpire ogni uomo, e si sussurrava, anche troppe donne.
Al suo fianco, poco dietro, camminava un giovane, che portava la lancia, la spada e un piccolo scrigno disadorno per il suo signore.
"Alì, porta tutto nella cabina. La mia scorta?"
"Tutti e cinquanta bordo. Pronti ad ogni evenienza."
"Bene. La missione è la prioritaria su ogni altra cosa, quindi dì al capitano di esporre la bandiera con la Croce Reale. Voglio partire il prima possibile."
 
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