Contest Miss Bikini 2013 [CONCORSO LETTERARIO DELL'ACCADEMIA SOHEADDIANA]

Vota l'opera che si aggiudicherà il Concorso Estivo dell'Accademia!

  • Langley

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  • Celebrated summer

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  • Quel consistente bisogno di scopare

    Votes: 0 0,0%
  • L'Arno fa schifo al cazzo, credetemi

    Votes: 1 10,0%
  • Ciondolando pei campi (breve storia di tori e cani immaginari)

    Votes: 1 10,0%
  • L'ultima estate

    Votes: 5 50,0%
  • Fuck the Casbah

    Votes: 1 10,0%

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Stato
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Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
Siore e siori,
ecco a voi le opere in gara per ottenere il prestigioso GRAND PRIX DEL CONCORSO LETTERARIO DELL'ACCADEMIA SOHEADDIANA - SUMMER '13 EDITION
"Un testo per l'estate"
detto anche
"Un testo al sole"

Ringraziamo sinceramente autori e lettori, grazie a cui questa manifestazione esiste e perdura.
Il sondaggio popolare che si accompagna alla presentazione delle opere comporta la scelta di un solo testo, dunque un voto unico.

La chiusura del poll e l'acclamazione del vincitore avverrà da qui a dieci giorni esatti, MERCOLEDI 3 LUGLIO alle 21h45.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
Primo testo in concorso:



LANGLEY


Questa è la storia di un "mondo parallelo" proseguito al pari del nostro fino ad un'estate del secolo scorso. Durante quella torrida stagione le stelle si allinearono, forze misteriose entrarono in azione. Il velo spazio-temporale venne squarciato. Il risultato non potremo mai conoscerlo, almeno non qui, non adesso.


21 Ottobre 2006

"Ed ecco in diretta da Langley, Virginia, di fronte alla sede della CIA la nostra inviata Marie Smith." il presentatore del telegiornale dell'edizione delle 13 fece una piccola pausa ben studiata "ci sono novità rispetto alla sparatoria all'interno dell'edificio che ospita i servizi segreti?".

La giovane Marie aggiustò l'auricolare, l'audio le arrivava parecchio disturbato ma comprese qualcosa. Guardò con convizione di fronte a se, nella telecamera e prese la parola "si, abbiamo finalmente qualche novità. Pare che non sia stata una vera sparatoria quanto un suicidio di un dipendente con la sua pistola d'ordinanza. La sicurezza esclude categoricamente la possibilità che il colpo d'arma da fuoco udito all'interno dell'edificio sia stata opera di un attentato terroristico."


29 Ottobre 2006

Marie rientrò in casa. Era una casa particolarmente disordinata, tipica di chi vive da solo da molti anni e non è più abituato a rispettare gli spazi altrui. Si fece spazio tra la moltitudine di libri che si trovavano qua e la sul pavimento dello studio (dannate istruzioni incomprensibili di IKEA!), buttò la giacca sulla poltrona e posò la borsa del portatile. Accese il suo computer fisso ed andò in camera da letto per mettersi più comoda. Dopo una lunga giornata di lavoro l'attendevano almeno altre due ore di sgobbamento di fronte ad uno schermo.

Una stranissima email le era giunta. Era firmata "Agente 21", aveva pensato immediatamente ad un messaggio di spam ma l'allegato l'aveva incuriosita. Lo aprì con la certezza che fosse un virus, si ritrovò invece un pdf contenente alcuni documenti scannerizzati. Il logo della CIA in prima pagina con scritto "classificato". La firma di John Garrit era evidentissima, lo stesso Garrit che si era piantato un colpo di Beretta poco più di una settimana prima. Posizionatasi di fronte al pc iniziò a scorrere quelle pagine: "Project Redbird, applicazione sul campo del FM-30/30bis".

La giornalista fece un'immediata ricerca su internet, FM-30/30bis. I risultati pochi, la maggior parte si riferivano ad un vecchio manuale di campo degli anni della seconda guerra mondiale. Mancava però quel bis. Passo una decina di minuti tra Google e Wikipedia fino a giungere ad un altro manuale FM-30/31. Aveva sentito parlare di questo argomento, ma non aveva immediatamente riconnesso la sigla alla questione. Era un documento prodotto durante la Guerra Fredda per la creazione di attività destabilizzatrici da attribuire a movimenti comunisti in modo da fermare l'avanzata politica delle sinistre in Europa. La cosa immediatamente stuzzicò il suo interesse.

Riprese la lettura di quel "project Redbird". Le prime pagine erano dedicate alla situazione politica negli Stati Uniti durante la fine degli anni '60. In particolare si parlava del consenso dei giovani verso i movimenti hippie definiti "anti-governativi". Man mano che scorreva le pagine la faccenda si faceva sempre più interessante. Jonh Garrit aveva autorizzato il progetto che prevedeva azioni di contrasto agli hippie architettando azioni eversive ed illegali per smuovere la coscienza del ceto medio americano.

Marie non comprendeva se si trovava di fronte ad una presa in giro di qualche burlone della redazione oppure se era di fronte ad un vero e proprio scoop. Il governo degli Stati Uniti per mano di Garrit, che era piazzato ben alto all'interno della struttura della CIA, aveva realmente autorizzato qualcosa del genere?

Mentre si chiedeva questo i suoi occhi si posarono sul nome del primo capitolo "Operation Woodstock – cause del fallimento". Fece un respiro profondo, non avrebbe dormito, non con il dubbio a proposito di quel documento, si alzò ed andò a preparare il caffé.


14 Agosto 1969

Il furgoncino Volkswagen T2 con le tendine agli specchietti si parcheggiò sotto un albero. Fuori, nella proprietà di Max Yasgur si preparava quello che sarebbe stato ricordato dal mondo come il più importante concerto della storia. La CIA invece l'avrebbe ricordato come la sua estate gloriosa, la sua campagna più grande, la vittoria finale del governo su quei dannati fannulloni.

I due agenti nel retro del furgone iniziarono a preparare telecamere, nastri e microfoni. Il progetto era semplice. Attirare una grandissima quantità di hippie in un luogo affollato, senza servizi igienici e sanitari, farcire il ritrovo di droghe pesanti, filmare la decadenza di quel movimento, distruggerne l'opinione rivoluzionaria: rassicurare, rassicurare, rassicurare. Hanoi era lontana, ma era quello il vero fronte. Ogni uomo lo sapeva perfettamente e ce n'erano moltissimi tutto attorno a quei campi.

Sistemate le cineprese, gli agenti aprirono con dei taglierini gli scatoloni contenenti le dosi di varie droghe già impacchettate a dovere. Tutto era pronto.


15 Agosto 1969

Alle 17 iniziavano i "tre giorni di pace e musica" di Woodstock. Un milione di ragazzi era giunto da ogni parte degli Stati Uniti per quell'evento unico. Tutti inseguivano la liberazione sessuale, l'utopia, la rivoluzione dell'esistenza. La loro ingenuità sarebbe stata scossa sapendo che tutto era organizzato dal governo.

Il lavoro degli agenti iniziò subito. Il primo giorno era aperto dai musicisti folk, mentre Havens canticchiava "freedom, freedom, freedom" le telecamere immediatamente entrarono in azione. L'eroina scorreva già a fiumi nelle vene dei ragazzi. Scene di orge improvvisate tra il fango venivano catturate dai teleobiettivi ben nascosti.

Dai filmati sarebbero stati ricavati anche dei poster che avrebbero misteriosamente invaso le città di tutto il continente. Sarebbe stata una vera e propria bomba atomica.

Garrit, seduto sulla sua poltrona di pelle nel suo ufficio si sgranchiva le ossa del collo. Di tanto in tanto il telefono squillava e giungevano aggiornamenti in tempo reale dall'operazione Woodstock. Era giunta anche un'inaspettata telefonata, un pezzo grosso della CIA aveva fatto pressioni affinché i Jefferson Airplane non si presentassero. Pare che qualcuno nel governo non voleva romperne l'immagine "devi capire che ci potrebbero essere molto utili nell'operazione Bluebird". Non amava questo genere di pressioni ma gli ordini sono ordini. Magicamente la band si trovò bloccata da un guasto al pulmino. Il manager tentò in ogni modo di affittare un elicottero ma divenne impresa impossibile.


15 Agosto 1969

Micheal Lang, uno degli organizzatori del festival, stava letteralmente per impazzire all'interno della sua tenda sotto il peggiore acquazzone di tutta l'estate. Aveva appena ricevuto la notizia della defezione all'ultimo dei Jefferson Airplane, un buco di un'ora restava nella scaletta. Erano la punta di diamante di tutta la giornata. La fuori un mucchio di ragazzi strafatti non aspettava altro che White Rabbit. Si distese cercando di pensare ad una soluzione.

Non fece in tempo a chiudere gli occhi che un'esaltatissimo Jimi hendrix entrò nella tenda. Dietro di lui un ragazzo dalle lunghe basette e dai capelli ricci lo accompagnava. Sembrava piuttosto intimorito e non convinto.

"Micheal, cazzo ho trovato una soluzione. Ecco chi sostituirà i Jefferson!"
"Cosa? Come? E chi è?"
"E' il mio chitarrista di supporto, ma è una bomba. E' un cazzo di italiano. Ti risolverà tutto il festival, fidati."
"No guarda, Jimi, davvero. Ti ringrazio ma non posso veramente"
"Cristo santo, che cazzo di coglione che sei Micheal. Perché non ti fidi eh? Perché?!"

Il chitarrista era decisamente su di giri e fuori controllo. Il ragazzo italiano piuttosto imbarazzato, prese parola con un inglese incerto "Jimi, no dai, non fare così."

"Nono, faccio come cazzo mi pare. Allora sai Micheal che ti dico? Vaffanculo, si, vaffanculo. Me ne vado se non lo fai suonare"

L'organizzatore portò le mani davanti alla faccia. Come se coprire la vista avrebbe fatto andare lo strafattissimo Jimi Hendrix. Era tutto un sogno, no? No, non lo era.

"Ok, Jimi. Ok, gli farò fare un pezzo solo. Un pezzo solo, ok?"
Hendrix uscì fuori dalla tenda urlando come un forsennato portandosi dietro il suo musicista.


16 Agosto 1969

La pioggia era andata finalmente via. Il cielo era limpido, era una perfetta giornata d'Agosto. Erano le otto di mattina, era confermato che i Jefferson Airplane avevano dato buca. Pare che dopo i problemi di trasporto la madre di Grace Slick fosse morta. O almeno così le avevano detto.

Hendrix aveva passato tutta la notte a minacciare di andarsene se il suo musicista italiano non avrebbe suonato almeno un pezzo. La confusione regnava sovrana, in realtà tutti volevano solo capire cosa diamine avesse assunto Jimi. Ben pochi potevano sapere che aveva assunto MRD-89. Una droga sperimentale utilizzata la prima volta nel 1962 durante la Crisi dei Missili di Cuba. Tale droga aveva permesso di scoprire di Dimitri Borikov, una spia sovietica catturata a Berlino Ovest, alcune importantissime informazioni che cambiarono completamente il corso della storia.

Il chitarrista era completamente sotto il controllo degli agenti americani. Il loro intento era minare la credibilità artistica del festival. Un'esibizione orribile di un chitarrista mediocre avrebbe provocato una rivolta tra le migliaia di giovani che aspettavano da decine di ore i Jefferson Airplane.

Garritt era stato inizialmente scettico. Ma quando aveva compreso che l'ordine ricevuto non era un favore a qualche senatore che non voleva distruggere gli idoli di qualche sua figlia adolescente si compiacque. La perfezione, la giustezza dell'organizzazione in cui militava lo stupivana ogni giorno di più. Era chiaro che molti dipartimenti a comparto stagno avevano lavorato a quell'operazione, comprese che c'era un quadro più ampio che non avrebbe mai colto.

Fissò il telefono attendendo che giungessero novità dall'operazione della sua vita. Era certo che sarebbe giunto una bella promozione e magari una bella villezza sul fiume Potomac. Sognava già un impiego nell'ufficio 48, quello che si occupava di operazioni paramilitari e di colpi di stato.

Il chitarrista italiano salì sul palco. Sentiva le viscere torcersi, come una bestia consapevole di essere stata inviata al macello. Jimi, ancora strafatto, aveva ora una pistola dietro i jeans ben nascosta dalla camicia a fiori. Faceva però il segno di ok con la mano che però alternava al gesto di sparare.

Il ragazzo fece qualche passo in avanti verso il microfono. Schiarì la voce, le casse fischiarono. La folla rimase in silenzio. Tutti si chiedevano chi diamine fosse quello li.

Attimi di attesa lunghi una vita intera e poi una frase inaspettata "scusate per il mio pessimo inglese, questa canzone parla della situazione sociale nel mio paese che è molto dura". La folla urlò uno yeah, ben pochi capirono perché ma tutti si adeguarono alla follia del momento. Il piano della CIA era entrato nel suo punto più alto, la folla era compleametne strafatta. Le cineprese erano pronte. I teleobiettivi scattavano a raffica.

Il peltro toccò le corde, una melodia magica uscì dalla chitarra. La lingua era incomprensibile, ai più sembrava portoghese. Sicuramente del portoghese ne aveva la malinconia, la tristezza, eppure la gioia allo stesso tempo.

Quasi nessuno, anzi, sicuramente nessuno comprese che era dialetto lombardo. Quella canzone si chiamava "Scioperu in dur Baset". Durò tre minuti intensissimi. Quei tre minuti sciolsero la folla, da ogni parte reazioni isteriche, chi piangeva, chi si disperava per la situazione dell'industria tessile italiana, chi in realtà era in preda alle convulsioni.

L'operazione della CIA era andata completamente in pieno. Le ore di girato invasero ogni apparecchio televisivo statunitense, le immagini che non potevano essere mostrate vennero stampate ed affisse lungo le strade presentandole come opera di un "collettivo artistico".

La "maggioranza silenziosa" a cui si era appellato il Presidente Nixon iniziò ad appoggiare fortemente l'impegno statunitense in Vietnam. Tutti i piani di ritiro vennero accontonati. Addirittura si ebbe un eccesso di reclute e molti aspiranti soldati dovettero essere rimandati a casa.

Fu una bella estate.

Tutto infatti era filato liscio, tranne un particolare. Lo "sciopero alla Bassetti" divenne la hit del momento. Il ragazzo italiano divenne uno dei più affermati cantanti di sinistra in America.

Il suo nome era Umberto Bossi.
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Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
Secondo testo in concorso:



CELEBRATED SUMMER

Chiusi i libri e messe alle spalle giornate scandite da caffè sempre più terribili nei corridoi della facoltà, restava da affrontare il tempo a disposizione che lo studio non mi aveva sottratto. Calendario alla mano sarebbero state vacanze brevi ed improvvisate anche questa volta o quantomeno i giorni sarebbero scivolati leggeri via uno dietro l’altro.
Dormire, il più possibile, questo era l’unico vero programma che avrei seguito alla lettera immerso nella penombra della mia stanza per sfuggire all’afa ed alla canicola pomeridiana di luglio, se non fosse stato per quella imbecille del palazzo di fronte. Cominciò ad urlare ed inveire al telefono contro quello che presumibilmente era il suo fidanzato. Questo è quello che riuscii a capire dal profondo dello stato comatoso in cui versavo. Le lanciai maledizioni in lingue che lo stesso Lovecraft avrebbe fatto fatica ad inventare mentre riacquistavo lentamente il mio senso dell’orientamento. Mi alzai. L’orologio segnava le 18:30.
Controllai il telefono e vidi che c’erano quattro chiamate perse e due messaggi: “Bella. Stasera si gioca alle 22. Vedi di esserci. Ciao, Manu .” La decisione era unilaterale e non c’era possibilità di mediazione. Il secondo messaggio era di Barabba. Gli scrissi “San paolo ore 2130. stop”
Partita di fine stagione senza troppe pretese. C’erano più o meno tutti i variopinti personaggi del bar Las Vegas: Manu, Sandrino, la sua maglia di Daniele Conti, ed il nipote quindicenne, Foffolo con i suoi 100 kg, il Dedeo , Danielino, io e Barabba, più un altro paio di figuranti. L’unica vera vincitrice della partita fu l’umidità che sulle sponde del Tevere regna sovrana.
Era quasi mezzanotte quando andammo via tutti. Entrati in macchina proposi a Barabba di scegliere tra un kebab o un gelatino
“ Quello che te pare ma prima andiamoci a prendere una birra perché io c’ho sete.”
Prima tappa dal solito Apu di fiducia e poi dall’unico gelataio ancora aperto in zona. Onestamente non mi sentirei di suggerire a nessuno di accoppiare il gelato ad una birra peroni, soprattutto se a temperatura ambiente. Il mio palato ed il mio stomaco tutt’oggi gridano vendetta.
Seduti su una panchina, nella quiete notturna, meditavamo sul da farsi vagliando le possibilità a nostra disposizione.
“Proviamo a sentire Enzo”.
Barabba, scuotendo la testa : “E’ a Fiumicino a magnà er pesce.”
“Proviamo a sentire Roberto”
“No, sta con Cicalina.”
Dati alla mano, tra amici e conoscenti, molti erano già partiti e chi non lo aveva fatto quella sera era impegnato.
“Senti io c’ho ancora sete, ma non ho voglia di un’altra peroni….che dici ci sarà qualcuno che venderà il chinotto ?”
Barabba mi guardò senza proferire parola e sul suo volto si stampò un divertito disappunto quindi disse “Frà, va bene tutto quello che proponi al momento, non abbiamo un piano migliore ed io non ho sonno”
Salimmo in macchina diretti da Apu ma disgraziatamente lo trovammo chiuso prima del previsto. Girato l’angolo, dopo 50 metri trovammo un bar aperto e con nostra sorpresa dietro al bancone dei gelati c’era Ester, la sorellina diciasettenne tutta sorrisi di una amica dell’università. Sbrigati i convenevoli le chiesi se il bar vendesse bottiglie di chinotto. Lei, sorpresa dalla richiesta, ridacchiando, indicò il frigo in fondo alla sala. Barabba con un ghigno sardonico faceva lo splendido con Ester mentre ero intento nelle ricerca del mio graal. La delusione sul momento fu così cocente che decisi di annegarla in una granita alla menta mentre Barabba decise di ingannare il tempo tra una sigaretta ed una Peroni piccola.
La mia ricerca non era finita ma si stava facendo sempre più tardi. Tornammo alla macchina diretti verso altri bar che sapevamo essere aperti. Al quarto tentativo finalmente vittoriosi .
“Ed ora che si fa?”
“Andiamo a piazza Fermi, li ci sono le panchine e ci mettiamo al freschetto” rispose Barabba
“Sei veramente un signore, tu si che sai come si vive.”

Pochi minuti in macchina.

Nulla apparentemente poteva turbare quel sacro momento che stavo rincorrendo ormai da un’ora.
L’orologio segnava l’1:30
Alle nostre spalle arrivò una panda con a bordo quattro persone. Si fermò a meno di un metro dalla mia macchina parcheggiata nelle vicinanze della panchina dove eravamo seduti.
Stavamo per diventare spettatori di qualcosa di insolito
I quattro a bordo, due ragazzi e due ragazze, scesero mentre dal cofano cominciò ad uscire fumo bianco, sempre più denso.
Le due ragazze cominciarono a starnazzare come due oche nell’aia “Oddio amò che succede fai qualcosa, io c’ho paura” e l’altra “Mò come ce tornamo a casa…manco l’auti passeno.”
I due ragazzi aprirono il cofano e partì una fiammata. Pochi secondi e lo richiusero immediatamente. Il fumo che usciva stava diventando nero e si sentiva l’odore di olio bruciato. Ad osservare la scena ora non eravamo solo io e Barabba. Altri passanti si erano fermati a guardare. Uno dei due ragazzi si avvicinò a me ed gli dissi di provare a chiedere l’estintore alla gelateria che era a pochi metri. Questo tizio, visibilmente agitato, urlò all’altro “Ah lo stintore !” Il mio sguardo visibilmente perplesso incrociò quello di Barabba che era a pochi passi da me e se la rideva.
Un passante alle nostre spalle, fino a quel momento rimasto nell’ombra, si rivolse allo stesso ragazzo con il quale avevo parlato, dicendo loro : “Guardate che ho chiamato i vigili”
Il ragazzo si girò ancora più preoccupato e poi si rivolse verso il suo amico “Ahò hanno chiamato le guardie”. I due ragazzi furono presi dal panico.
Uno dei due venne verso di me e prese la bottiglia di chinotto che tenevo in mano. Me la svuotò davanti per andare a riempirla alla fontanella. Ero inerme, non riuscivo a reagire e guardai sbigottito Barabba che alzò le spalle mentre se la rideva. Il ladro di chinotto non si era accorto che il suo amico stava riempiendo un secchio nero della spazzatura prestato sul momento dal fioraio della piazza. Vidi la mia bottiglia vuota finire per terra un attimo dopo. Mi sentivo sconfitto
I due trogloditi riempirono così tanto il secchio che non riuscirono a trascinarlo fino alla macchina ed il principio di incendio al motore ora stava diventando piuttosto minaccioso. Corsi verso la mia macchina e la spostai un po’ più in la.
I quattro cretini si agitavano intorno alla macchina, neanche fossero streghe nel bel mezzo di un sabba.
Nel frattempo erano scese persone dai palazzi vicini e noi ci eravamo spostati a distanza di sicurezza. I vigili del fuoco tardavano ad arrivare.
Lo spettacolo non era ancora finito. Il gruppo sparì tra il fumo per un paio di minuti per poi tornare indietro, aprire il portabagagli e prendere un passeggino. Sparirono di nuovo in pochi istanti tra fumo e fiamme sempre più alte. Quando arrivarono i pompieri, i quattro erano ormai ombre nella notte.

Increduli ci avviammo verso la macchina.

“Frà, se mi accompagni ad Acilia, poi te offro un chinotto…”
“Mi sa tanto che qualcuno questa notte prenderà il notturno e sicuramente non sarò io”
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
Terzo testo in concorso:



QUEL CONSISTENTE BISOGNO DI SCOPARE

Correva l'estate della terza superiore
Milo, 3° F, unico verginello della classe
per gli amici "Robocop"
per la fluidità e la grazia nei movimenti
neanche brutto, ma imbranato come la merda
Mara, 4° D, ripetente, detta "Valle degli Orti"
con scontato riferimento a piselli e minestrone
neanche bella, ma troia fin nel midollo

"Oh, Milo, ma scopati Mara, no?"
il genio di Paolo poteva svoltargli l'estate
vai col messaggino, diretto e brutale
tanto quella è troia dentro

"perchè no? domani sera a casa mia"

all'indomani
lui si scordò di lavarsi i denti
per l'agitazione
lei di lavarsi la fregna
perchè non era sicura
di volergli piacere

ciò che Paolo e Mara però ignoravano
era il chilo di salsiccia
che Milo nascondeva tra i boxer

e quando venne il momento

vuoi per le luci spente
vuoi perchè Milo una figa da vicino
non l'aveva mai vista
vuoi perchè Mara era così troia
da non aiutarlo nemmeno un poco
vuoi perchè Milo era davvero
fottutamente
imbranato

il 21 Giugno 2013
passò alla storia
tra gli adolescenti di Fregene
come il giorno in cui Milo Robocop
sfondò il culo di Mara Valle degli Orti
che era sì troia
ma il culo lo teneva da conto
"per il grande amore"
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
Quarto testo in concorso:



L'ARNO FA SCHIFO AL CAZZO, CREDETEMI


Quell'estate fu molto calda. Con molto calda non intendo la gente spalmata sui ventilatori, il popolino che si accalca nei centri commerciali per non comprare niente o chi sotto il sole accarezza l'idea di infilarsi dei calippi là dove non batte il sole: intendo proprio caldissima. Per mesi ci fu una media di una cinquantina di gradi e non furono pochi a lasciarci le penne, arrostiti.

All'epoca studiavo ancora all'università, ma nel mentre sbarcavo il lunario imbarcamenandomi nell'unico campo in cui è possibile accattarsi qualche spicciolo essendo bravi a far finta di saper fare qualcosa: il giornalismo. E più precisamente, Studio Aperto.

Avete presente quando fanno i servizi nel centro di Milano o di Roma per il primo giorno dei saldi oppure quando interrogano i liceali sulle tracce della maturità oppure quando partono le inchieste sul “popolo della notte”? Bene, me ne occupo io ed alcuni miei compari stimatissimi – cani anch'essi – e non vi dico lo sbatti di agitare la telecamera a caso durante le puntate di Lucignolo: a Gianni venne il tunnel carpale per quella storia lì.

Comunque sia, questa volta si giocava in casa: Firenze. Degli squilibrati per cercare di rinfrescare la città avevano deviato col tritolo il corso del fiume, l'Arno, ricreando con maestria gli scenari della città alluvionata del '66: suggestivo a vedersi, l'intera città puzzava irrimediabilmente di piedi.

Abitando in collina me ne fotto di tutto questo, e gioviale raggiungo su una piroga scippata a mio cugino anni prima a Fregene i miei due colleghi, il Doge e Rasputin per la realizzazione del servizio- Gianni non c'è, tutt'ora frigna perchè non riesce a tirare il collo al papero come vorrebbe con l'unica mano utilizzabile - e trattandosi di qualcosa di più serio di un'inchiesta sui tosacani di Via della Spiga, siamo ragionevolmente elettrizzati.

Il Doge è un tizio mezzo rumeno che nonostante una statura al garrese non proprio esaltante mette addosso una paura della madonna ed è in grado di fumare un numero di sigarette a dir poco maestoso: il giorno che mi salterà il ticchio di rigirarlo a testa in giù ed agitarlo probabilmente si metterà a tossire pacchetti morbidi di Lucky Strike rosse.

Rasputin è di Settebagni, non apre quasi mai bocca e in realtà sospetto che abbia la scabbia, ma è l'unico di noi che va oltre l'uso di Instagram per quanto concerne foto e riprese, e quindi ci è indispensabile. Ci salutiamo come sempre.

“Lo sai come si fa a capire quando un cane è morto?”
“Ci spegni una sigaretta sopra?”
“Quasi. Gli metti degli occhiali sotto il tartufo e se vedi che non si appannano allora non respira più.”
“...Buonasera anche a te, Doge”.
Ci spostiamo tutti, persone e telecamera, su un pedalò che dio solo sa dove ha recuperato il mio compare dell'est e lemmi lemmi galleggiamo verso il centro.

“Allora” esordisco, “si fa come al solito?”
“Si, come al solito. Panoramiche a caso, intervista a due squinzie, fighe mi raccomando, un moccioso e un par di vecchi, Einaudi in sottofondo che nun te sbaji mai e dopo cerchiamo di ricollegare la cosa al backstage di un calendario.”

Annuisco con serietà. Il caldo boia riesce ad aumentare l'olezzo stagnante: avrei dovuto mettermi un fazzoletto inumidito con la sambuca a contatto con il naso come i medici del 1600, ma in casa avevo solo delle birre, e pure sgasate. Tutto quanto è pece.

“Che titolo diamo ar servizio?” bofonchia Rasputin.
“Camurria” propongo, e mi viene subito bocciato.
“Siamo a Firenze, imbecille. D'accordo che siamo su rete nazionale, ma allora se dipendesse da me lo intitolerei...”
E tira giù un moccolo armonioso con cui riesce a profanare, in una sola frase e senza virgole, i santi martiri cosma e damiano, la diocesi, l'arcivescovo di Costantinopoli, frà tuck, la verginità della madonna e l'altissimo sacramento. Lo squadriamo ammirati ed un poco anche invidiosi. Poi, continua, soave.

“Sennò si potrebbe osare il parallelismo tra città d'arte...”
“Cioè?”
“Firenze emula Venezia. Stanca del predominio acquatico della rivale, il sindaco Renzi tenta il tutto per tutto: già firmati gli appalti per le gondole, si sospetta lo zampino della camorra.”

Impreco. Mannaggia a lui che gli do' ancora retta. E' che ha una faccia seria, e ci casco ogni volta.

Arrivati al Duomo, tocca il lavoraccio. Rasputin resta sul pedalò a fare un po' di carrellate ed io e il mio compare risaliamo sulla piroga e veleggiamo nel putrido alla ricerca di gonzi da intervistare. Subito compaiono due tedeschi rubicondi, che sorseggiano un cappuccino seduti su una boa.
“Un cappuccino alle nove di sera?”
“Zi, ma è kon limone!”
“...Giusto.”

Dopo una curva a gomito, che ci tocca affrontare controcorrente cristando come due disperati, becchiamo una famigliola convenzionale ed apparentemente felice che sta festeggiando qualcosa. sopra un cassonetto.

Esulto. “Questi sono perfetti oh, paiono proprio tirati fuori da un sacchetto della Mulino Bianco!”
“Si, io due macine, vere, prenderei e gliele legherei intorno al collo, in culo a Banderas proprio: non vedi che stanno facendo fare un bagno a un neonato in tutta questa merda? Se ci immergo io il braccio lo tiro fuori depilato.”

Dapprima non avevo visto, ma stavano effettivamente facendo fare delle abluzioni, colerose, ad un infante di pochi mesi: così giovane, già così contaminato. C'era anche un prete. A volte mi domando se non sarebbe il caso di introdurre l'aborto obbligatorio in base al QI dei possessori di gonadi, ed è una domanda di cui conosco già la risposta.

“Buonasera siamo di Studio Aperto. Bella serata eh? Con questo libeccio se mettete una vela al cassonetto non vi ferma più nessuno.” Sorrido.

I disadattati sentendo l'odore di intervista in onda su tiggì nazionale si ringalluzziscono e rispondono con entusiasmo a tutte le nostre domande di routine. Insomma, pare che questa incolore coppia di bresciani abbia deciso di cogliere la palla al balzo offerta dal disastro dell'Arno per battezzare la propria figlioletta, sfidando la Leptospirosi o, più banalmente, non sapendo proprio che cosa è.
“E che nome ha questa tenera frugoletta?”
“E' il nome di una famosa via” mi risponde il bresciano, strizzandomi l'occhio.

Questa non me la faccio scappare, è tutto oro colato per il servizio.“Francigena?” azzardo con sguardo convinto.

“Cassia?” mi fa eco il Doge, serissimo.

“Lattea?” bofonchia Rasputin, stupendo un po' tutti che ci erano rimasti male nel non vedere arrivare un pezzo d'uomo di due metri con dei rasta color carota.

“Via le mani dal cul...?” Il Doge mi tappa la bocca, provvidenziale, e sfumazzando ci trascina via dalla giovane Flaminia e dai suoi, purtroppo per lei, unici tutori legali.

Dopo aver intervistato un paio di vecchi, decisissimi dopo l'evento a celebreare le nozze di fango piuttosto che quelle di diamante, facciamo per rientrare in sede dopo l'estenuante lavoro, corroborati da dei cocktail coloratie frizzanti offerti da dei giapponesi ricchi come sceicchi ed altrettanto vestiti male che hanno scambiato Rasputin per non so quale artista contemporaneo, uno che dipinge utilizzando esclusivamente tacchetti da calciatore e tempere Giotto già aperte che raccatta rastrellando le scuole elementari della provincia.

Di arte moderna non ne capisco una sega, ma dato che a prescindere diffido inizio a sparare a zero completamente a caso.

“Almeno Fontana s'è fatto i milioni con il taglio...l'idea era quasi originale dai, rispetto a queste stronzate.”
“Pure mio zio s'era fatto i milioni con il taglio...mannaggia alle soffiate degli infami.”

Veloce mi appunto mentalmente di non lasciare mai il portafoglio a vista con Rasputin nei paraggi. Il pedalò scivola lento nella notte riportandoci alla Stazione di Campo di Marte, proprio accanto al nostro glorioso avamposto lavorativo, cioè un monolocale ex friggitoria in cui era rimasto, irremovibile, il puzzo di unto ed i vetri delle finestre incrinati dai sassi degli zingari.

Rumori di esplosioni in lontananza, probabilmente già domattina l'Arno sarà tornato in sede, lasciando solo fango, pantegane e sogni infranti. Abbiamo finito appena in tempo.

Stanchissimi posiamo tutte le attrezzature, inviamo il servizio alla sede centrale sperando che la mail non finisca come sempre nell'antispam del capo – ENLARGE OUR STIPENDIO - ed ognuno fa per tornare a casa propria quando getto un'ultima occhiata al pedalò, e noto una scritta inequivocabile.

“Doge...”
“Eh.”
“...NOLO PEDALO' LAMPEDUSA BEACH? Come minchia...?”
“Non fare domande.”

Veloce, mi appunto mentalmente di non lasciare mai la Vespa in vista con il Doge nei paraggi.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
Quinto testo in concorso:



CIONDOLANDO PEI CAMPI (BREVE STORIA DI TORI E CANI IMMAGINARI)


Nino era accovacciato al suolo. I piedi nudi colla pianta nera di sudiciume stavano poggiati al terreno polveroso solo sulle punte, cogli alluci che si toccavano, e smuovevano la terra secca formando un piccolo infossamento; i talloni, spessi di calli, erano tenuti alti, e gli servivano da seduta nel mentre che stava curvo su qualcosa, con la schiena piegata in avanti tanto da mostrare sulla maglia rossa stinta i rilievi delle ossa.
Il ragazzino stava, in quel momento, osservando un baballotto[1] che teneva tra le punte di indice e pollice; l'animale, colla pancia all'aria, aveva seguito a muovere le zampe per un poco, e s'era poi fatto immobile, arti distesi, come a pretendere d'essere morto: ma Nino aveva ormai imparato ch'era tutta una finta ed intendeva essere mollato, e lo ammoniva a voce. Alzato lo sguardo dunque, cercava qualcosa tra le pietre e gli steli intorno, e presto un sussulto che indicava il successo lo faceva alzare in piedi, spingendosi in su colle gambe a molla.
Tutto appariva bianco; luci candide gli danzavano negli occhi, come le janas[2] di cui gli raccontava la nonna; la testa era leggera, laddove sentiva invece le gambe pesanti e molli, e che faticavano a muoversi una dinanzi all'altra, come lui voleva. Non era spaventato, dacché era capitato altre volte e passava tutto in poco; l'importante era non far cadere l'insetto, che sentiva solleticargli i polpastrelli, così alla cieca stringeva la mano libera in un pugno cavo, e messo l'insetto dentro lo tappava col palmo dell'altra: ora la bestiola girava e rigirava nella prigione carnosa, e si portava tra gli spazi delle dita infilandovi la testa e grattando la pelle.
Fatti pochi passi, tornava ad inchinarsi, e davanti agli occhi un mondo brulicante e frenetico fuoriusciva dalla terra: piccole formiche rossicce lavoravano e scavavano il suolo proprio come i diavoli, e colle loro gallerie congiungevano il mondo dei vivi all'inferno. Quand'era più piccolo, ricordava in quel momento, credeva che sotto al buco ci fosse un piccolo nido, al pari delle case loro fatto solo d'una o due stanze; ma poi una volta aveva strappato dal terreno uno spesso stelo di angelica, tra le cui radici aveva scavato il formicaio una colonia, e sotto la zolla che mancava stava un antro grande quanto la sua testa, dove erano lasciate le uova; ed a scoperchiarlo, centinaia dei piccoli insetti s'erano riversati dalle gallerie, ed ognuno stava ad afferrare tra le mandibole un uovo e lo portava via. Nino ne aveva preso una manciata, e quando le aveva guardate, dentro ognuna di quelle minuscole pietre che sembravano fatte d'acqua sporca stava una formica ormai fatta: poteva vedere il nero della testa e del corpo, colle zampe che si congiungevano davanti. Dopo averle studiate un poco, con un lancio le aveva gettate a un angolo del campo, e quel dì l'aveva passato colla malinconia che gli rabbuiava la fronte.
Ora, prendeva la punta del ramo secco d'una pianta d'albicocco che nei primi mesi dell'estate li aveva ristorati coi suoi frutti, e tenendo sempre in una mano l'insetto, infilava il bastoncino ricavato nel foro d'entrata, più volte di seguito; poi, quando le formiche s'erano allertate, e andavano impazzite fuori e dentro dalla tana, gettava il babalotto in mezzo a loro, dove c'era il buco, e l'animale cadeva rovesciato; e i piccoli demòni gli si arrampicavano sul corpo nero, e mordevano le zampe, le antenne, la bocca, in gran numero. Nino non sapeva se potevano, armate scarsamente com'erano, far davvero del male allo scarabeo ch'era almeno venti volte più grande di loro; ma lo guardava piantare le punte nere delle zampe nella sabbia, a tentare di rivoltarsi sulla pancia, ed il movimento a scatti faceva schizzare via i granelli tutt'intorno. Fosse stato a dimensioni d'uomo, s'immaginava, la lotta sarebbe stata pari a quella tra un toro ed una muta di randagi dal pelo fulvo: il terriccio smosso dall'insetto diventava intere zolle fatte volare dagli zoccoli che raspavano il terreno nervosi, a caricare l'attacco e schivare i morsi dei cani, che finendo a vuoto azzannavano l'aria con sordo clangore; poi la prima incornata trapassava la gola d'una delle bestie, ferendola a morte, ed il suo sangue decorava il corno come una coccarda al giorno del santo, mentre sfiancato dagli assalti che arrivavano, cedeva ai primi squarci dei denti che gli s'aprivano sulle zampe dai muscoli tesi e dal pelo lucido di sudore.

Mentre stava a vagheggiare, una voce che urlava il suo nome lo riportava all'attenzione, e ripresosi dalla fantasia sentiva all'intorno le grida delle madri che annunciavano ai figli sparsi per le campagne l'ora del pranzo, come ai pascoli le pecore richiamano gli agnelli col loro placido lamento per attaccarseli alla mammella; ed obbligato ad abbandonare lo scontro che aveva provocato, mentre si ripuliva le mani dalla polvere, osservava con piacere che la nera bestia, forte della sua lorica, s'era rimessa sulla pancia e ed arrancava lontano dall'entrata del formicaio, ed ogni segno di zampa indicava ch'era salvo; la fuga l'aveva allietato , e questo sentimento gli metteva ora appetito, così che era corso via, verso casa.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
Sesto testo in concorso:


L'ULTIMA ESTATE



Agosto 2013

Giuseppe Burberi era sempre stato una persona operosa, nel corso dei suoi cinquant'anni di vita non era passato un singolo giorno in cui non si fosse dato da fare. D'estate il suo regno, il suo orizzonte di vita, stava tutto in quello stabilimento balneare sul lungomare di Viareggio. Bagno Felicità. A ripensarci ora era proprio un nome infame ma, come succedeva sempre in questi casi, la denominazione entrò così tanto nell'immaginario collettivo dei suoi clienti che cambiarla avrebbe significato una piccola rivoluzione. La gente è abitudinaria, si ripeteva sempre Giuseppe, e non aveva mai voluto rischiare di far perdere ai suoi clienti quelle piccole certezze che spesso ci forniscono inaspettati pilastri su cui posare le nostre vite. Di inverno, invece, era la darsena a fornirgli uno scopo. In un vecchio magazzino che aveva comprato a due lire negli anni ottanta, era ormai trent'anni che progettava quelli che una città intera considerava i suoi veri capolavori: perchè Giuseppe Burberi era considerato da tutti uno dei più talentuosi costruttori di carri allegorici di tutta Viareggio. In una città che faceva del suo carnevale una vera e propria religione, Giuseppe aveva numerosi estimatori e una certa reputazione nel campo; quei mesi d'inverno in cui preparava parodie di politici o rappresentazioni di gironi infernali danteschi, e spesso le cose andavano di pari passo in una visionaria e personalissima visione della realtà, erano forse gli unici a garantirgli una reale felicità. Poi l'inverno si avviava alla sua conclusione, il carnevale passava e Giuseppe si ritrovava in un limbo primaverile con una moglie depressa, che spendeva gran parte dei soldi di Giuseppe in gratta-e-vinci e nel Lotto, e un figlio ingrato che era fuggito a Firenze non appena ne aveva avuto la possibilità.Era così che si avvicinava alla sua cinquantesima estate, agosto e la salsedine cominciavano a posarsi sui manti delle strade che accarezzavano il lungomare cittadino mentre Giuseppe passeggiava verso la darsena. In mano una valigietta e intanto le biciclette correvano sulla pista ciclabile portando con loro gli ormai pochi villeggianti viareggini. Non erano più gli anni novanta, lo sapeva bene, ma nonostante questo per un attimo le strade tornarono a riempirsi di vacanzieri. Gli abituè dei tre mesi di vacanza estiva erano quasi del tutto scomparsi, il suo vecchio amico Riccardo aveva venduto il bar, ma Giuseppe poteva ancora assaporare, come una chimera dolce e amara, il passato.

Agosto 1998

"E così tu fa i carro?" chiese in un italiano insicuro. I lunghi capelli biondo cenere si poggiarono delicatamente sulle spalle nude leggermente abbronzate, la pelle inumidita da quel bagno di mezzanotte.
"Ti dirò di più: Giuseppe è il migliore a costruire i carri," rispose Duilio mentre osservava voracemente il corpo di Ashley. Il costume a due pezzi balenava nella luce della luna, mentre un pareo avvolgeva dolcemente le gambe lasciando intravedere perfettamente la perfezione delle forme. "Non è vero, Bepiù" incalzò Duilio mentre un sospetto gonfiore dalle parti dei bermuda lo stava cominciando a mettere in difficoltà.
Giuseppe si limitò ad un sorriso mentre osservava un'altra ragazza uscire dall'acqua. A differenza di Ashley i suoi capelli scuri si confondevano nella notte, era meno universalmente bella dell'amica ma era portatrice di un fascino particolare, misterioso. "Rebecca! Come here!" urlò Ashley all'amica, senza che effettivamente ci fosse alcun bisogno di alzare così tanto il tono della voce. Giuseppe odiava quel suono, erano sguiate quanto quella ragazza di Siena con cui era uscito nell'estate del 1985. Rebecca si sedette lievemente affianco ad Ashley e intanto Duilio continuava a fare l'anfitrione, quasi si credesse Mastroianni ne La Dolce Vita, nel tentativo di portarsi a letto almeno una delle due. Bepi si astrasse completamente mentre Duilio continuava nel suo tentativo alternando toscanismi vari e un inglese da terza media stentata.
"Giuseppe, please, porta noi vedere carro, yesì" fu la voce civettuola di Ashley a risvegliarlo dal torpore.
"Io, non saprei, ci sono solo i resti di quelli dell'anno scorso. Davvero, non sono un granchè..." si difese. Duilio lo fulminò con lo sguardo mentre le due ragazze lo continuavano ad implorare con quel loro stupido accento. La cosa non faceva altro che far imbestialire ancora di più Giuseppe che pero', abilissimo, nascose ogni suo sentimento con un sorriso da schiaffi.
"Uffa! Boring italian," ebbe la premura di far notare Rebecca.
"Let's take another bath, Rebecca," disse Ashley mentre si levava il pareo e, prendendo per mano l'amica, la conduceva ancora verso quell'oscura macchia che era il mare di notte.
"Bepi, non fare lo stronzo." Duilio era davvero incazzato, guardava alternativamente il mare da cui provenivano gli schiamazzi delle due americane e l'amico. "Quand'è che hai avuto tra le mani due figliole come queste? Stiamo scherzando?"
"Non mi rompere i coglioni, dai, non ho voglia. E poi come la spiego a Maria? E' tardi e devo tornare a casa, Francesco non è stato bene ultimamente."
"Non me ne frega niente di quella fava di tua moglie, non mi costringere a passare ai ricatti"
"Cosa vuoi dire?"
"Estate 1993, due bocce così e labbra carnose. La troia veronese te la ricordi? Chi ti ha coperto con Maria incinta mentre tu ti divertivi al gioco delle infedeltà?"
Giuseppe sospirò. "Sei un infame, Duilio" fu la sua unica risposta.

Agosto 2013

Tante cose erano cambiate a Viareggio da quei ruggenti anni novanta che edonisticamente avevano fatto sembrare tutto possibile. La ricchezza e la non consapevolezza di stare vivendo al di sopra delle proprie possibilità non aveva accarezzato le menti di nessuno dei mattatori di quegli anni. Lui stesso, che si era sempre definito un buon lavoratore e una persona tutta di un pezzo, ci era cascato e le zingarate con Duilio, i tradimenti, le discoteche e le nottate passate in spiaggia erano la norma. A maggior ragione quando ti ritrovavi un matrimonio iniziato male, e a posteriori poteva dirsi pure finito peggio, e un lavoro, come quello di chi gestiva stabilimenti balneari, in cui si era sempre immersi in un certo tipo di socialità frivola. Per fortuna, tra tante cose che cambiavano, rimaneva ancora qualcosa che resisteva al portentoso declino che aveva colto la Versilia dall'inizio del nuovo millennio. Nel suo caso, ciò che resisteva a tutto quel tardo impero, era il suo magazzino. Ogni singola volta che ci tornava gli sembrava di poter congelare il tempo, tornava ad avere vent'anni quando tutto era iniziato e Maria era ancora una splendida giovane cliente del Felicità. Come accadeva ormai da qualche anno, giunto di fronte al magazzino ci ritrovò Luigi. Il figlio di Duilio era una delle poche cose buone che gli erano capitate nel corso degli ultimi dieci anni. Per Giuseppe era stato facile affezionarsi a quel ragazzo che aveva mostrato così tanto amore per l'arte dei carri allegorici, e in modo altrettanto naturale lo aveva eletto a suo erede. Così, da ormai quattro anni, aveva cominciato a dargli lezioni insegnandogli il mestiere.
"Ciao Bepi" lo salutò Luigi levandosi il cappellino da baseball per asciugarsi la fronte madida di sudore.
"Luigi! Merda, me ne ero completamente dimenticato. Scusa il ritardo, la trattativa con gli arabi per la cessione del Felicità mi sta uccidendo."
Luigi lo gratificò di un sorriso, semplice ma sincero, e i due entrarono nel grosso prefabbricato. Senza perdere tempo in ulteriori chiacchere cominciarono a lavorare sui progetti per l'anno che sarebbe venuto, un grosso carro politico che andava ad ironizzare sulla grande crisi finanziaria degli ultimi anni.
"Vedi" cominciò a dire Giuseppe mentre stavano cominciando a miscelare le vernici per dipingere uno dei protagonisti del carro "Molti pensano che il punto fondamentale di un carro sia la visione di un costruttore, quanto sia in grado di stupire mostrando scene che lo spettatore non riesce ad immaginarsi nella sua testa."
"Beh, sì, tu stesso mi hai insegnato che lo stupore è ciò a cui dobbiamo tendere," rispose Luigi.
"Vero, ma non è abbastanza. Il colore è ciò che fa la differenza, rendi qualcosa vivido con le tue vernici e le persone rimarranno a bocca aperta dieci volte di più. Rendi un carro una grigia riproposizione di una giornata autunnale e avrai fallito nel tuo compito."
I due continuarono a discutere e lavorare fino a mezzogiorno, poi lo smartphone di Luigi cominciò a squillare. Era suo padre che reclamava il figlio per pranzo, prima che la conversazione telefonica si chiudesse Duilio chiese di farsi passare Giuseppe.
"Allora stasera, siamo d'accordo?"
"Ok"
"Ci vediamo di fronte al Felicità e, dai cazzo, mi sembra di parlare con un lobotomizzato"
"Sì d'accordo, ci vediamo dopo"
Giuseppe chiuse la conversazione, con qualche difficoltà data la sua totale inadeguatezza di fronte al dispositivo touch, e ripassò il telefono a Luigi.

La noia era il sentimento più diffuso nell'animo di Maria, il secondo ad arrivare nella sua personalissima classifica del disagio era invece il rammarico. Era per quello, continuava a ripetersi, che rimaneva intere sere, solitarie, ad osservare gli sparuti clienti del minigolf "Il Marinaio". La pineta di ponente era in grado di rilassarla e, oltre al fresco, poteva osservare scampoli di vita familiare che non aveva mai potuto vivere. Quella sera, pero', non c'era nessuna famigliola felice a giocare a minigolf, ma quattro ragazzini sui quindici anni impegnati a farsi belli di fronte ad altrettante ragazze della loro età. Maria rimase seduta al bar, mangiando distrattatamente un bombolone alla crema fino a quando il gruppo di ragazzi non si sedette in un tavolo vicino.
"Ok, ma sei sicuro?" disse uno di loro, che portava un'improbabile cresta come acconciatura.
"Ma certo, ormai non ci va più nessuno al Felicità. Abbiamo promesso un idromassaggio alle ragazze ed è quello che le daremo," rispose eccitato l'amico dai folti capelli lunghi e un abbozzo ridicolo di barba.
"Giacomo, sei sicuro? Io non voglio mettermi nei casini" protestò una delle ragazze.
Il dialogo andò avanti così per circa venti minuti, quindi il gruppetto si allontanò dal minigolf e Maria rimase sola a riflettere. Non gliene importava niente di quello che volevano fare, quel dannato stabilimento balneare era stato l'inizio di tutto. Se durante quell'estate del 1985 non fosse andata in vacanza lì, non avrebbe conosciuto Giuseppe e i suoi problemi, in un sol colpo, sarebbe svaniti tutti. Niente litigi per la sua incapacità di dargli un altro figlio, niente tradimenti e nessuna falsità a Natale quando tutti bisognava recitare la parte della famiglia unita. Dio, quanto era stata stupida in tutti questi anni. Così, persa in pensieri non certi gentili, si ritrovò a passare di fronte ai vecchi tappetti elastici della pineta, ormai abbandonati da tempo. Sorrise ripensando a tutte le notti d'estate passate con suo figlio, mentre Giuseppe era impegnato a scoparsi quante più turiste possibili. Quest'ultimo pensiero, invero, la rattristò parecchio. Era giunto il momento di tornare a casa, qualche ridicola commedia degli anni '70 trasmessa dai canali dell'inutile digitale terrestre l'avrebbe aiutata ad addormentarsi. Assieme a quelle pillole e un bicchiere di pessimo vino bianco del discount.

Agosto 1998

I gridolini di eccitamento delle due americane si fecero sempre più lontani, Duilio continuò a guardare verso il mare mentre Giuseppe già si preparava all'idea di portarle tutte al magazzino e poi, l'indomani, a sentirsi l'ennesima ramanzina di sua moglie sulle sue responsabilità di padre e marito. Poi, ad un tratto, le grida di eccitamento cominciarono a trasformarsi. Non era più la gioia a permeare quei suoni, tutto era diventato una disperata richiesta di aiuto. Duilio agì subito capendo l'antifona mentre Giuseppe se ne rimaneva immobile come paralizzato dalla situazione.
"Che cazzo stai facendo? Non vedi che stanno annegando?" lo rimproverò Duilio mentre si levava la maglietta e correva verso la battigia.
Le dura parole dell'amico parvero sortire effetto, si svestì e gettò in mare il più velocemente possibile, nel frattempo le grida stavano diventando sempre più disperate. Ashley continuava a chiamare Rebecca mentre Duilio, in vantaggio sull'amico, le stava cominciando a raggiungere. Le acque avvolgevano le membra con pesantezza, quasi come fossero una melma che ostinatamente voleva bloccarti e tirarti giù, l'adrenalina in corpo non era abbastanza e Giuseppe soffriva ogni singola bracciata. Quando riuscirono ad arrivare alle due ragazze per Rebecca era troppo tardi, il mulinello infame l'aveva travolta giù e tentare di recuperarla significava probabilmente la morte anche per il suo salvatore. Duilio portò a riva Ashley che nel frattempo aveva ingurgitato una quantità incredibile di acqua salata.
"Cristo, cristo, cristo! Giuseppe fai qualcosa, sei tu il bagnino!" urlò spaventato Duilio
"Ok, ok, aiutami, tu fai pressione qua" rispose mentre cominciava una respirazione bocca a bocca. Dopo circa un minuto di infruttuosi tentativi, con un Duilio sotto shock incapacitato a qualsiasi ulteriore aiuto, il corpo di Ashley ebbe un sussulto e la ragazza cominciò a tossire espellendo parte dell'acqua che aveva bevuto.
"Oh merda" disse Giuseppe mentre si lasciava cadere per terra ormai sfinito, l'adrenalina lo abbandonò e tutto quello che vide fu solo il cielo, scuro e senza stelle a causa delle illuminazioni cittadine, prima di chiudere gli occhi lasciando che tutto ciò che era successo scorresse via, in una sorta di poco ortodossa meditazione zen.

Agosto 2013

Giacomo era decisamente fomentato dalla situazione, era sicuro che quella sera avrebbe raggiunto il suo scopo. Giada era un po' freddina, ma l'idromassaggio in costume e tutto quell'alcool che si portava nello zaino avrebbero decisamente messo la situazione a suo favore. Entrare nel Felicità era stato molto facile, da quando lo stabilimento era fallito non c'era più un guardiano ma, chissà perchè, l'idromassaggio rimaneva sempre attivo, ultimo testimone di quello che il bagno era stato in tempi migliori.
"Guardate cos'ho qui" disse quindi mentre si levava la maglietta e entrava nella vasca insieme a tutti gli altri. Svitò il tappo di una bottiglia di vodka e la porse a Giada. "Dai, bevi, vedrai che ci si diverte stasera."
Giada sembrava titubante ma le prese in giro delle sue amiche, nonchè la pressione degli altri ragazzi, le fecero ingurgitare una prima portentosa gollata di vodka. Il sapore liscio della vodka non le diede molto fastidio e, anzi, la pervase con un calore piuttosto piacevole. Intanto Giacomo aveva cominciato a rollare uno spinello e cominciò a farlo girare mentre cominciava ad avvicinarsi a Giada nel tentativo di un primo approccio.
"E allora? Vedi che mantengo la parola?" le disse con fare piacione. "Si sta bene qui, eh? Tieni, bevi ancora," concluse passandole anche una bottiglia di rum che qualcun'altro aveva preso dal suo zaino e aperto. Intanto una mano, in perfetto stile piovra, cominciò a cingere la vita di Giada e Giacomo le si fece sempre più vicino. Giada era spaventata, si guardò intorno e notò che alcune delle sue amiche avevano già cominciato a darsi da fare con gli altri ragazzi del gruppo.
"Andiamo, non fare la difficile, vedrai che ti piace" la incalzò Giacomo che cominciò a baciarla sul collo.
La ragazza, pero', non sembrava cedere così facilmente. Si ritrasse e con un gesto inconsulto per liberarsi della presa di Giacomo finì per lasciar cadere la bottiglia e lo spinello che aveva in mano. Fu questione di un attimo, nessuno riuscì a capire precisamente dove avvenne il cortocircuito ma in brevissimo tempo l'impianto elettrico della vasca collassò e un incendio cominciò a propagarsi fino ad arrivare alle cabine di legno.
"Oh cazzo, via, via via!" urlò Giacomo mentre portava fuori letteralmente di peso Giada e, assieme a tutti gli altri, cominciavano a scappare via lontano. Fu solo quando ormai avevano corso via per almeno un chilometro sulla spiaggia che si voltarono. Lo spettacolo che li accolse fu terribile e bellissimo allo stesso tempo, le cabine del Felicità erano completamente bruciate e le fiamme, ormai altissime, si erano espanse veloci. Anche i due stabilimenti limitrofi cominciarono a bruciare mentre le sirene dei pompieri risuonavano per la città.

"Questa è l'ultima estate, Duilio"
"Che stai dicendo?"
"E' così, basta con la vita da bagnino, dopodomani vendo tutto e di conseguenza basta coi ricordi. Voglio dimenticare."
"Non dire stronzate, glielo dobbiamo, siamo qui proprio per non dimenticare mai quello che è successo. Tieni, bevi," concluse mentre passava a Giuseppe una Moretti da 66 centilitri.
"Se tu vuoi continuare questo squallido rituale, fai pure, ma io sono stufo," fu la risposta piccata dell'amico mentre cominciava a tracannare la birra gelata.
"E' così quindi, te ne vuoi lavare le mani?"
"Non è colpa di nessuno se Rebecca è annegata, è finito il tempo di sentirsi responsabili."
"Sei proprio uno stronzo, Giuseppe, avrei dovuto capirlo quando eravamo ragazzi che non te ne fotte niente di niente, ad eccezione ovviamente di quelle buffonate di carri su cui hai sprecato tutta la vita. Guardati: un figlio che ti chiama solo per i soldi, mentre li spende tutti per ubriacarsi e provarci con le turiste a Firenze, e una moglie che passa tutte le sue sere ad ingozzarsi di bomboloni alla crema per sublimare il fatto che tu non riesci a scopartela come Dio comanda."
"Non ti azzardare a mettere in mezzo fatti personali, stai molto attento."
"Lo sa tutta la città, cosa credi? Guardati allo specchio ogni tanto, ci vedrai che la tua supposta morale di ferro in realtà è solo vigliaccheria nel non saper accettare la realtà."
Quelle ultime parole colpirono nel profondo Giuseppe, la verità era che Duilio aveva ragione e il fatto era una vera e propria lacerazione per l'anima sconquassata di Giuseppe. I due rimasero in silenzio per un periodo indefinito, continuarono a bere senza guardarsi mentre il ritmico sciabordio delle acque scandiva il tempo che passava. Sarebbero rimasti così fino all'alba se non fosse stato per un lontano balenio che attirò l'attenzione di Duilio.
"Bepi, guarda, quello non è il Felicità?"
"Cosa?" rispose stancamente l'amico.
"Cristo, guarda, quello è un incendio."
Giuseppe si alzò, strabuzzò gli occhi e cominciò a fissare intensamente quello che effettivamente sembrava proprio un incendio.
"E' il Felicità" dichiarò Giuseppe con una strana calma.
"Bepi, cazzo, dobbiamo fare qualcosa! E' il tuo fottuto bagno!" disse Duilio agitato mentre già tirava fuori il cellulare e componeva il numero per le emergenze. Intanto l'incendio si stava propagando velocemente, complice il più classico dei venti caldi estivi, ma Giuseppe rimase ad osservare rapito le fiamme mangiarsi il suo passato, la sua casa, chissà forse persino sua moglie che se ne stava fatta di barbiturici sul divano della loro casa sopra il Felicità. Avevano un colore stupendo, gli ricordavano le sue vernici e quel rosso intenso che usava per rappresentare le guance ubriache dei pupazzi che adornavano i suoi carri. Era tutto bellissimo, e mentre Duilio tentava inutilmente di scuoterlo, Giuseppe se ne rimase lì, vittima di una strana sindrome di Stendhal prestata al disastro naturale. Immobile e felice.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
Settimo testo in concorso:



FUCK THE CASBAH


Chi sono?
Una pancia gonfia d'asino morto opprimeva la città vecchia promettendo pioggia, vento e tempesta.
Dal taxi la vedevo, avvicinandomi sul viale delle forze armate tra due file ininterrotte di palme e bandiere nazionali, costeggiando il giardino degli innamorati prima di cominciare la salita che mi avrebbe portato presso la porta dei savi, là dove finisce l'asfalto e cominciano i vicoli di pietra.
Il tassista disse qualcosa, indicando il blob di nuvole nere che avevamo davanti. Non pioveva da tre mesi, lo sapevamo tutti e due, e con uno sguardo sincero attraverso il retrovisore mi fece capire che il mio disappunto per essere uscito senza ombrello era fuori luogo, laddove tutta la popolazione era invece in attesa che l'acqua arrivasse, a nutrire i campi e lavare le strade.
Non dissi niente. Scesi dall'auto e mi incamminai verso l'arco della porta dei savi. Il caldo era appiccicoso e insopportabile. Sulla piazza del re il vento spazzava le foglie e le buste di plastica scappate ai venditori di strada, le persone facevano finta di niente ma allungavano tutte leggermente il passo, infrettolite dal temporale in procinto di esplodere. Seguii il flusso di quelli che si infilavano nella porta, camminando come se stesse già piovendo. Ma una volta entrato nella medina rallentai, anche perché non avevo ancora deciso in quale caffè mi sarei andato a sedere. Fu in quel momento che il fulmine mi colpì, in piena nuca come una ghigliottina, come una gazza attirata dalla mia catenina. Due suoni caratterizzarono l'evento: una sedia gigantesca che si sfonda e fa CRAAAAAC, e un'immensa lampadina che si rompe e che fa POF!
E caddi, come corpo morto cade, finendo di faccia sul selciato. Mentre il mio cuore smetteva di battere e il cervello si spegneva, mi passò davanti, come un riflesso involontario, quel pezzo di quella canzone inglese che dice:
“We are accidents waiting to happen”.
E niente, basta, questa storia – la mia vita finisce così, una qualunque mattina di fine estate. Ne è valsa la pena?
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
la moderazione dell'Accademia è abbastanza lieta [cit.] di proclamare vincitore del GRAND PRIX DELL'ACCADEMIA SOHEADDIANA - SUMMER '13 EDITION



:rebaf:
REBAF



con il suo racconto L'ULTIMA ESTATE.
Complimenti vivissimi e in bocca al lupo per tutto al vincitore!

Tante care cose anche agli altri autori, che ringraziamo qui ancora e per sempre:

LANGLEY - RAUFESTIN
CELEBRATED SUMMER - BRILLO
QUEL CONSISTENTE BISOGNO DI SCOPARE - TARAMIR
L'ARNO FA SCHIFO AL CAZZO, CREDETEMI - PEPPER
CIONDOLANDO PEI CAMPI (BREVE STORIA DI TORI E CANI IMMAGINARI) - DAVR
FUCK THE CASBAH - MERSAULT
 

Taramir

SoHead Hero
Fantacalciaro
non ne sono così convinto, ma provare anche solo a fare un'alzata di zampe dei disponibili non costa assolutamente nulla e ci dà un'idea della fattibilità della cosa
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
tutto dipende da voi, bellezze
se abbiamo almeno un 3-4 partecipanti, per una summer '13 edition - cd2 io ci sto, figuratevi
potremmo mettere la scadenza per la presentazione delle opere a settembre, di modo da avere due mesi pieni per produrre qualcosa
riguardo il tema tuttavia, sarebbe in effetti corretto chiedere a Rebaf, sentiamo che dice e se partecipa

in ogni caso, non abbiamo niente da perdere, né onore né prestigio, quindi...
 
Stato
Chiusa ad ulteriori risposte.
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