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Garbare deriva dal sostantivo garbo - a sua volta probabilmente dall'araboqālib 'modello'- che ha come valore più antico in lingua quello di 'bella forma, linea aggraziata' (av. 1537), e nei dialetti quello di 'forma dei pezzi di costruzione di una nave' (come il genovese gar(i)bu attestato nel XIII secolo) (DELI); a questo significato è legata l'accezione marinaresca del verbo 'disegnare la sagoma dei pezzi che costituiscono lo scafo di un'imbarcazione' (GRADIT). Garbare si riferisce quindi primariamente, ad un piacere estetico, ed in effetti nella lessicografia è registrato nel significato di 'piacere, andare a genio, riuscire gradito' detto di oggetti o persone.

Per quanto si tratti di voce dell'uso toscano, appartiene anche alla tradizione italiana, successiva però al XIV secolo: non risulta infatti presente nel corpus del TLIO, Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, la maggiore base di dati disponibile riguardante la lingua italiana anteriore al 1375; il Vocabolario degli Accademici della Crusca la registra fino dall'edizione del 1612, pur rimandando la trattazione al lemma piacere, dove si legge "diciamo con significato di piacere, garbare, attagliare, gustare"; solo la terza edizione ha la trattazione al lemma; come testimoniano il GDLI e lo spoglio della LIZ, il verbo è usato nella storia della letteratura sia da autori toscani (Pulci, Firenzuola, Panciatichi, Aretino, il Lasca, fino a Collodi, Fucini e Tozzi), ma anche non toscani (Gottifredi, Siri, Baretti, Belli, Leopardi, Manzoni, Nievo, De Sanctis, Fogazzaro, De Roberto, Capuana, Gozzano, Svevo, Pirandello e altri ancora).
 
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