Opere HOT ZONE - LA ZONA ROSSA

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
tornando ai miei propositi di qualche giorno fa, la storia "Ti chiavo la mamma in cucina" m'è un po' scesa (la collega che era incinta ha partorito e non ho piu' il suo pancione sotto gli occhi per ispirarmi);
invece, il capitolo 2 dell'Edipo a tre lo pubblico davvero (dopo averlo limato) quanto prima, anche per poterlo utilizzare nella versione a fumetti
come detto privatamente a valchiria, forse la forma-fumetto potrebbe aiutarmi a portare a compimento la saga, che in versione romanzata mi appare veramente lunga da completare (col poco tempo a disposizione e la "tirannia" del genere erotico, che porta a dover sempre andare a parare li')
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
7a stanza e via

EDIPO (a) tRE

Riassunto delle puntate precedenti

1. Il protagonista, 11 anni, si fa mille seghe durante l'estate del '94, fin quando viene scoperto dalla zia Elena, sorella di sua madre, che in una mattina di febbre lo seduce, introducendosi nel suo letto.
2. [puntata mancante] Il ragazzino perde la verginità.
3. I due diventano amanti. Torridi amplessi nel caldo agostano. Un pomeriggio, d'improvviso, l'orrore: il protagonista sviene mentre sodomizza la zia.
4. Malessere a pacchi, paranoie e perdita dell'innocenza, fino al miraggio di un pomeriggio arancione passato in spiaggia con Teodora.
5. Teodora come salvezza. Nascita di un amore tra le macerie della liaison dangereuse con la zia, ormai assurta pienamente allo status di divinità primigenia assetata di sperma. Costruzione di una nuova leggenda personale.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
2. [finora mancante ma di seguito pubblicata] Il ragazzino perde la verginità.


Lo zio Glauco era il mio eroe, il mito vivente della mia infanzia. Colui che mi aveva mostrato la pesca come suprema arte della meditazione e il Milan di Sacchi come suprema forma del giuoco del calcio, senza però mancar mai di rispetto a Maradona, Careca e Alemao, a Roberto Baggio e Lothar Matthaeus, a Toninho Cerezo e Giuseppe Giannini; colui che mi aveva introdotto ai Beatles e ai Rolling Stones, a Lucio Dalla e De Gregori, che mi aveva fatto scoprire la Storia d'Italia a fumetti di Enzo Biagi e i miti greci di De Crescenzo, che mi aveva soprannominato “Lupo di Mare” dopo avermi avviato al viaggio omerico e a Corto Maltese. La figura più influente sulla mia vita fino ad allora, plasmatore della mia “critica della ragione pratica” laddove mio padre era ancora il Super-Io ombroso della ragion pura. Lo zio Glauco, gran bevitore di vino e conoscitore delle stelle, che mi aveva insegnato come un uomo stringe la mano e vince la paura del mare.
E come lo ricambiavo io? Scopandogli la moglie.
Per un momento, infatti, allorché la zia aveva ripreso ad abbracciarmi come nessuno aveva ancora mai fatto, avevo pensato a lui, ma quando si sdraiò e mi disse lasciva
«vai giù, scendi giù cucciolotto, ti faccio vedere una cosa»
dalla mia mente sparì, come uno sputo dal quinto piano o un sasso lanciato in acqua, tutto il bene che lui aveva fatto per me, e la mia unica volontà fu di vedere da vicino, e toccare, la Grande Fessa, scrigno della vita ovvero cassaforte del genere umano da cui anche io, non troppo tempo prima, ero venuto fuori. E mentre scendevo lungo il suo corpo verso l'abisso, con il tremore esausto e invincibile dell'impazienza, la zia con gesti rapidi si toglieva entrambi i pezzi del costume, sì da mostrarmi infine la pelle nobile e bianchissima dei suoi seni, che incorniciati dalla forte abbronzatura dell'estate inoltrata mi parvero due gonfie mozzarelle piene di latte e d'amore, oggetti preziosi che si rivelavano ai miei occhi come il tesoro a quelli di Alì, allorché i capezzoli grandi e grinzosi, come proiettili erti verso di me usciti dal mare, ebbero lo stesso effetto magnetico di quelli di mia madre quando ero un poppante.
Ma giacché da quel piatto avevo appena mangiato, resistetti alla tentazione di succhiarli, e continuai a scendere al di sotto, sempre più in basso, là dove una nuova, promettente e sugosa portata mi stava aspettando, emanante già dall'ombelico un profumo che sapeva di inconscio rimosso e di porticciòlo, di monsoni e di viscere della terra. Inspirai forte e mi sentii perdere, e ancora una volontà di morire mi attraversò con un brivido dalla nuca all'ano, mentre mi facevo di nuovo tutto cazzo e desiderio. Poi un istante di quiete, di silenzio, come in alto mare prima della tempesta; fu allora che la vidi sorgere: mostruosa, necessaria, rossa e nera e “selvaggia e aspra e forte”
«la vedi, ti piace? Ti piace? Aspetta, ancora non hai visto niente»
non sapevo proprio immaginare cosa ci potesse essere ancora, ma evidentemente lei si: venne giù con le mani e, come se aprisse un Sesamo, schiuse le labbra per mostrarmi quella fenditura, quell'apertura di grottino fradicio e pulsante: la cosa più viva che avessi mai visto. Prima che potessi guardare bene, però, mi prese la nuca e mi spinse verso di essa, facendomi entrare nella sua tana come un gattino preso per la collottola. Trasalii. Fu il buio.
(Dissolvenza incrociata)
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
(Dissolvenza incrociata)
Usava la mia testa come un oggetto che la faceva mormorare, spingendomela e strusciandomela sulla spaccatura mentre io, inerte, mi lasciavo ricoprire tutto dalla lava bollente, assaporando quel gusto ferroso e minerale come da una sorgente di roccia, senza tuttavia capire nulla di cosa stessimo facendo. D'improvviso, mi afferrò le mani con una decisione quasi violenta, e me le schiaffò sui seni invitandomi con gesti impazienti a stringerli, a riempirmene, a tirarle i capezzoli. Nelle mie gambe sentivo accumularsi nel frattempo un'energia nuovissima e ruggente: percepii di iniziare a volere davvero qualcosa da lei, che in quel momento mi ciucciava le dita arrivate alla bocca, leccandomi mentre io coprivo ogni angolo del mio viso con quella polpa umida, infilandoci dentro il naso, il mento, e muovendomi dappertutto come un insetto drogato, finché mi attanagliò la faccia con le cosce e mi tirò i capelli, sussurrando emaciata
«ora la lingua, la lingua, tira fuori la lingua e leccamela, dai».
Stupito e imbarazzato, sia dalla sua audacia selvaggia che per non averci pensato prima, eseguii il suo comando, e fu in questo modo che scoprii cosa sia leccare una fica, patrimonio UNESCO dell'umanità.
Ma come il viaggiatore sente i millenni, e il paradosso del tempo, al cospetto delle piramidi di Giza, io stesso sentii opprimente la consapevolezza che fosse tutto più grande, più forte e più antico di me, allorché non sapevo bene cosa fare e continuavo a sfregare, accorgendomene a malapena, il cazzo sul letto. La sua fregna sembrava un Leviatano, immenso e invisibile, che mi sgusciava da tutte le parti; ero in debito d'ossigeno e, pensando di far bene, la scopavo con la lingua, tenendola dura con somma fatica, ma proprio mentre cominciavo a stancarmi, rischiando i crampi come in Samp-Barcellona, la zia sembrò innervosirsi: mi fermò, e per un istante parve quasi riprendere l'atteggiamento da insegnante che le era effettivamente proprio:
«aspetta, aspetta, non così, aspetta... guarda, qui... qui»
dischiuse lentamente le labbra con le dita, e posandovi l'indice sopra mi mostrò quella che era la sostanza, il quid della faccenda, la chiave di volta dell'arco, il segreto del bosco vecchio
«vedi qui, guarda, vedi il fagiolino? Vieni, vieni qui con la lingua, e muovimela sul fagiolino».
Trepidante e insicuro mi accostai a esso, sentendolo distintamente sulle labbra: cominciai a leccarlo.
La zia apprezzava, e nonostante a volte lo perdessi, mescolato al resto tra le pieghe del suo sipario di carne, lo ritrovavo poi subito, e subito riprendevo a leccarlo, a leccarlo, leccarlo come se non ci fosse un domani, affogando tra labbra e fagiolino, ormai vera e propria stella polare del mio cieco viaggio incosciente
«si, si, bravo, bravo, oh, sei bravo, si, vai sul fagiolino, il fagiolino, si, ecco, si, mi piace, mi piace, il fagiolino, fagiolino, si, è il clitoride, si chiama 'clitoride', è mio, è il mio, si, è il mio organo, si, l'organo, l'organo uh, l'or... l'organo del piacere, si, si, clitoride, dal greco, per piacere, si, dal greco, dal greco...»
«...Dal greco κλειτορίς, il greco κλειτορίς, κλειτορίς, capisci, il greco, dai, il greco antico, il greco antico, si, si, lì, ecco, lì, si, resta lì, dai, il greco κλειτορίς, dai κλειτορίς, dai, dai, dai col greco κλειτορίς, si, si, vai, vai, dai, dai, dai di greco, dai col greco, dai col grecoah, dai col grecah, dai col grah, dai cah, ah, ah, ah! Ah! Ah...! Basta, basta, piano, basta»
come a un cucciolo di cane che non smette di leccare e mordicchiare una mano.
Riaprii gli occhi come da un sogno, sgiostrato e con le labbra, la lingua e tutta la faccia completamente intorpidite; la guardai sommessamente, con il rispetto di un pavido servo indonesiano contemplante la sua padrona olandese. Lei aveva ancora gli occhi chiusi, e sembrava che qualcosa del suo orgasmo le continuasse a circolare in corpo. Allora intuii: avevo contribuito e assistito a quell'evento miracoloso, a quella spiegazione della femminilità, a quella recita encomiabile ricca di desiderio, di forza, di sofferenza e piacere, e alla fine non potevo provare per lei che una devota, subalterna ammirazione, mentre sentivo il fagiolino contrarsi ancora sulla mia lingua.
La zia ritornò, e mi sorrise infine: il ritratto della pace. Capii il suo appagamento ma, teso come un cavallo alla mossa, ebbi l'istinto d'avventura di rifarmi sotto: non ci pensai due volte, ormai pienamente, pre-coscientemente disposto a giocare il mio possibile ruolo, in quanto portatore d'uccello, in quella lezione di vita diretta e capitale, quell'atto esoterico di cui lei era la maîtresse magnanima e io il discepolo esclusivo
«si amore, certo, è chiaro, vieni, dammi il cazzo, dammi il tuo cazzo e mettimelo dentro».
Mi feci avanti in ginocchio; lei si alzò a sedere sul letto e mi accarezzò il giovanissimo petto, i lombi, le cosce, fino a prendermi l'uccello con entrambe le mani, rollandoselo tra i palmi umidi come un giocattolo
«sei diventato grande, cucciolo, sei grande, sei bello, è proprio bello, è grande, vieni, dammelo, vieni a sentire, senti, senti».
Si adagiò lentamente sulla schiena, aprì le cosce e mi mise direttamente l'uccello nella sua fessura. Come un tuffo lento, si immerse in me o io mi immersi in lei, e dai fianchi in un attimo sentii tutto il mio intero corpo riempirsi di gioia ferina, di un'onda nera che mi sbatté indietro e davanti, mentre nella punta del pene che sondava l'interno di quella donna sentivo esserci il senso del mondo
«non mi venire dentro»
aprii gli occhi e ci guardammo: mi sentii scoperto, perduto. Lei m'intese, e in un lampo si sfilò per finirmi con la bocca sulla cappella; guardandola compiere quel gesto unico, semplice e perfetto, e sentendo il suo palato, la sua lingua, la sua gola bagnata, stretta, dolce e forte che scorreva come spire dal glande alla base del mio roseo, beato, benedetto, brillante, fausto, favorevole, felice, prospero, ricco, invidiabile, positivo, vincente, bello, grato, lieto, gioioso, ottimo, promettente, augurale, meraviglioso, splendido, miracoloso, buono, benefico, gioviale, opportuno, provvido, utile, gaio, ottimista, piacevole, radioso, giocoso, allegro, contento, festoso, geniale, amico, destro, secondo, si, sacro, santo cazzo
eiaculai all'istante.
Mi restò attaccata tutto il tempo come un'amorevole molossina, bevendosi fino all'ultima stilla del mio sperma fortunato, prima di staccarsi quando sentì che non ne avevo più, allorché cominciai a tremare. Allora si rialzò, come una cavalla dressata, e finimmo guardandoci, l'uno di fronte all'altra, in ginocchio, con un senso quasi di profonda amicizia che adesso sembrava essere sceso su di noi come trascendenza.
«La prossima volta ti faccio venire dentro, va bene?»
«Va bene, zia. Ti amo».
Mi era uscito fuori da sé, ancora carico d'istinto, ancora prima che potessi accorgermi di quello che dicevo. Solo allora mi resi conto che, dopo averne sentito tanto parlare, era la prima volta che pronunciavo quelle parole. Ebbi paura.
«Anch'io».
Mi accarezzò, e forse ci sentimmo entrambi momentaneamente al sicuro.
«Ora fammi andare a preparare il pranzo che sennò non mangiamo niente, anche se io sono già piena, gnam gnam, slurp»
strizzandomi l'occhio, maliziosa ma anche ostentatamente infantile, nel gesto di “massaggiarsi il pancino”. Le sorrisi, affascinato da quella padronanza, da quell'ironia, e la guardai uscire dalla porta da cui era entrata un'ora prima, prima che la mia vita cambiasse per sempre.
«E' La Luce e io sono solo un insetto che morirà per Lei».
Avevo trovato la mia religione. Avevo iniziato la mia condanna.
 

Taramir

SoHead Hero
Fantacalciaro
ridatemi le vecchie faccine, non posso commentare senza, cazzo.

sublime, comunque.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
11a stanza, sonetto sartriano-ipnopompico


AURORA DI NOTTE PER FOLLE DESIO


Aurora di notte per folle desìo
gli occhi tuoi blu vedo chiudersi ancora
aprirsi la bocca sull'uccello mio
che grandi pompini facevi, Aurora.

Eppure effimero fu 'l nostro amore
due giorni e due notti a Cipro di maggio
ebbri di sesso, di vino e calore
un clandestino e colpevole viaggio.

Perché ci piacemmo dai primi istanti
desti la passera ad un estraneo
l'uno per l'altra non fummo che amanti

sotto le stelle del Mediterraneo.
Scintilla di sguardi, stretta di mani
passione inutile senza un domani.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
ahaha te sei bruciato, io m'ero fermato al parallelo con Desio per default (solo vedendo la parola mi è venuto in mente), è per quello che ho messo l'accento nel corsivo, per evitare che la gente fosse portata a leggere dèsio... nel titolo in stampatello l'equivoco resta potenziale, ma per fortuna non tutti masticano di basket e di brianza :bluwesome:
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
La saga agghiacciante del giovanissimo eroe chiamata EDIPO A TRE non è ancora giunta a conclusione, e non è ancora morta la possibilità di scriverne e leggerne gli sviluppi.
Proprio in queste ore l'autore, che evidentemente non ha nulla di meglio tra le mani, sta ultimando quello che egli solo considera il capitolo sesto del romanzo, ovvero il racconto dell'allucinazione meridiana che coglie il protagonista dopo il pranzo di ferragosto.

Cosa si nasconde nella mente perturbata del nostro eroe, diviso tra la succubanza nei confronti della zia Elena, sottospecie di jonica Maga Circe, e il nascente desiderio della di lei figlia, la cuginetta Teodora?
Forse lo scoprirete, ma non cosi presto.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
7a stanza e rotti

EDIPO (a) tRE

Riassunto delle puntate precedenti

1. Il protagonista, 11 anni, si fa mille seghe durante l'estate del '94, fin quando viene scoperto dalla zia Elena, sorella di sua madre, che in una mattina di febbre lo seduce, introducendosi nel suo letto.
2. Il ragazzino perde la verginità.
3. I due diventano amanti. Torridi amplessi nel caldo agostano. Un pomeriggio, d'improvviso, l'orrore: il protagonista sviene mentre sodomizza la zia.
4. Malessere a pacchi, paranoie e perdita dell'innocenza, fino al miraggio di un pomeriggio arancione passato in spiaggia con Teodora.
5. Teodora come salvezza. Nascita di un amore tra le macerie della liaison dangereuse con la zia, ormai assurta pienamente allo status di divinità primigenia assetata di sperma. Costruzione di una nuova leggenda personale.


6. Allucinazione (po)meridiana

In principio furono le cicale, e il mare era un deserto.
Doveva essere mezzogiorno, perché cercai l'ombra ma non c'era.
Il caldo imperava.
La spiaggia era vuota, e priva di qualunque idea di movimento.
All'orizzonte, lontanissimo, i miei occhi furono attratti da un incommensurabile, remoto avvenire, un farsi che compresi subito avere a che fare con me.
Un'altissima, immensa, e impossibile onda, uno tsunami che sembrava essersi creato per precedere, includere e superare la mia semplice persona. Uno spettacolo potentissimo, e silenzioso, che durò un tempo indefinibile, durante il quale non feci altro che assumerlo e ammirarlo.
Mi balenò in testa l'ipotesi che il suolo su cui mi trovavo fosse Atlantide, Atlantide nel momento in cui scomparve per sempre.
In quell'istante apparvero, sulla sabbia, due enormi macchie nere, come di nuvole in movimento che oscurassero il sole.
Alzai lo sguardo: in mezzo al cielo vuoto e inabitabile, due chimerici nembi antropomorfi dalla bellezza pari alla terribilità scendevano in picchiata verso di me. Le avevo riconosciute immediatamente, ma fu solo quando erano quasi atterrate che ammisi la loro identità: Elena era un'aquila splendente, Teodora una splendida gabbianella.
Planarono regalmente, ma prima ancora di posare le zampe, la zia gridacchiò alla figlia eccitata
«prendiglielo in mano e ti darà il suo cuore!»
ma allorché le sue dita ubbidienti si levarono sull'uccello, la zia intervenne di nuovo
«come si dice, Teodora?»
«Grazie, mamma»
«esatto. Allora dai, ti meriti il primo giro, ma poi tocca a me».
Ero sciamannato, sciabordito, e talmente prostrato, dinanzi alla loro prostrazione, da contenere con estremo sforzo il bisogno di gioire prima ancora di essere sfiorato, alla guisa di un cane che si piscia addosso per l'emozione di vedere il padrone ritornare da lontano.
«Siediti su quel cazzo, Teodora! Non abbiamo tutto il giorno!»
ma non appena mia cugina mi si mise a cavalcioni, prima ancora che la sua lillera gonfia e calda si posasse sul mio glande disgraziato, prima proprio di entrarle dentro, io avevo già dato tutto, e mi arresi di malsana sponte, rilasciando a gocciolone maldestre un orgasmo colpevole, rigurgitante di pulsazioni silenziose, solitarie e oscure.
Per Teodora fu una gran delusione. Richiuse con sdegno le gambe, mosse le ali e in un istante riprese le grandi altezze, ascendendo insieme alla madre con imperiosa eleganza, fino a scomparire ai miei occhi imperfetti.
Rimasto solo sulla sabbia cocente, l'inguine e la pancia sporchi di sperma, l'orgoglio macchiato dal pentimento e la volontà infettata da pulsioni di sparizione, rivolsi lo sguardo all'orizzonte, ma la Grande Onda era ormai assente (forse risoltasi nella massa inaccessibile delle profondità marine) e tutto il circostante aveva nuovamente l'aspetto del silenzio e del vuoto; al culmine dell'alienazione e come sua diretta conseguenza, forse, mi ritrovai su un'affollata bretella metropolitana, al volante di un'auto che controllavo con fatica e spavento supremi, e che andava troppo veloce per me, senza avere tuttavia la coscienza superiore della Kit di Supercar.
D'improvviso mi accorsi di un cartello lampeggiante che indicava le strisce pedonali e, proprio in quel momento, di una giovane madre che si accingeva ad attraversare la strada, spingendo la carrozzina del suo poppante. Sapendo che l'auto non si sarebbe fermata, pensai d'impormi e passar di prepotenza, ma la donna non accettò il sopruso e si piantò in mezzo alle strisce a mo' di sfida. Provai un'ultima manovra maldestra per schivarla ma malauguratamente la presi in pieno, lei e il passeggino, facendoli schizzare oltre l'auto. Non ebbi il coraggio di guardare nel retrovisore: erano certamente tutti morti.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
La cosa migliore, pensai, era lasciare discretamente la città – ero un assassino, e pure senza patente. Probabilmente parcheggiai, giacché d'un tratto fui nuovamente a piedi. Presi la direzione inversa a quella da cui ero venuto, ma camminare mi costava una fatica irreale, insormontabile. Accettavo tale fenomeno come un fatto, che tuttavia non mancava di stupirmi e disperarmi, finché all'apice di quell'angoscia mi ritrovai, improvvisamente, su una piazza ove si ammassavano le bancarelle del mercato rionale, e un'ammucchiata impressionista di bestie e persone in compravendita.
Da quella folla dolente emerse un uomo dai lineamenti poco definiti, che mi si avvicinò con rapidità e familiarità disperate. Accadeva che due mafiosi lo stessero inseguendo, al fine di ucciderlo, anzi giustiziarlo, con l'accusa di essere l'amante della moglie di uno dei due, nella fattispecie di quello alto e fino con la testa a fiammifero, che avanzava insieme al suo collega, un uomo-pietra dagli occhietti rossi e sporgenti come palle di vulcano, facendosi largo nella bolgia con rotolante minacciosità. L'uomo mi chiese di aiutarlo, e per prendermi il tempo di riflettere gli proposi di scappare insieme, ma la corsa era impossibile, impossibile: facevo fatica persino a muovermi, e la sorpresa si mescolava allo spavento e all'orrore. L'uomo sembrava altrettanto in difficoltà, ma per nostra fortuna vidi, alle sue spalle, una ronda di poliziotti che attraversava la strada. Lo presi per un braccio, e con precipitazione gli suggerii di chiamare il loro aiuto, ma lui trasalì di più e di nuovo
«non posso, sono un pregiudicato!»
capii allora che il meschino non aveva scampo, e subito i mafiosi furono su di lui. Il Pietra lo cinse alle spalle serrandogli le braccia, mentre il Fiammifero estraeva dalla giacca sporca un coltellaccio curvo, una specie di falcetto. Gli prese i capelli con una mano e con l'altra cominciò a sgozzarlo, aprendogli la gola a fatica, cercando in tutti i modi di decapitarlo nonostante la lama fosse vecchia e spuntata.
Avvenne tutto silenziosamente, e dal dettaglio della mano del Fiammifero che affondava il taglio nel collo aperto dell'uomo mi ritrovai, subito dopo, all'interno di un grande Palazzo dai pavimenti di marmo policromo e le pareti ritmate da nicchie ornate di busti dei Padri della Patria alternate a grandi finestre aperte, un lungo corridoio luminoso che finiva per dare su una gigantesca sala, forse un'aula magna, in fondo alla quale si stagliava una scalinata barocca.
Un suono di tacchi rimbombanti nel silenzio precedette l'apparizione di due figure che risalivano dal basso: vestiti come nella Scuola di Atene, riconobbi i giudici Falcone e Borsellino. Avrebbero dovuto introdurmi a quel luogo, spiegarmi quel che io stesso mi andavo figurando, ma il loro umore sembrava scuro, come di guide turistiche che odiano il proprio lavoro e vorrebbero far altro nella vita. Io ero altrettanto imbarazzato, perché non potevo non pensare che quei due fossero morti ed era come parlare vis à vis con uno che ha un brufolo enorme in faccia. In quel momento si aggiunse alla scena mia nonna Clio, vestita come una ballerina di rock 'n roll acrobatico, con le grosse braccia flaccide scoperte, e l'abbronzatura estrema del petto a raggrinzire la pelle come un mare increspato amaranto
«vieni nonna, usciamo insieme, ti va?»
«e dove pensi di andare?»
disse Borsellino, a bruciapelo. Colto di sorpresa, tacqui avvilito, e preoccupato che la nonna non mi rispondesse direttamente. Eppure sembrava di buon umore, allegra e smaliziata come una ragazzina. Accennava passetti di danza, e teneva con le dita l'orlo della gonna. Capii che era l'idea di uscire con me a renderla tanto gaia ed intrepida, ma sotto lo sguardo severo dei magistrati mi accorsi che forse non era conveniente che si mostrasse in strada abbigliata in quel modo.
Non seppi cosa dire per uscire dall'impasse, ma senza capire come fosse successo, mi ritrovai improvvisamente solo, la città ancora. Colto dalla bellezza in bianco e nero della riva del fiume nebbioso nella notte mitteleuropea, presi a risalirla, ma prima ancora di ritornare a qualunque possibile seguito dei miei pensieri, sentii una nuova presenza crearsi in quell'istante, ed emergere dal fondo nero del pre-incosciente: un piccoletto di età indefinibile, vestito di jeans neri attillati e di una maglietta nera da cui fuoriusciva la pancia gonfia. Un altro mafioso, apparentemente. Il suo viso sembrava di terracotta, e ricordava quello del Pietra salvo mostrare tutt'altra ironia negli occhietti sporgenti. Si avvicinò così tanto da farmi credere che mi avrebbe baciato, ma invece mi parlò sottovoce
«mi sai dire che ore sono? Guarda che stai facendo tardi».
Lo guardai stupito: conoscevo quell'uomo? Era anch'egli un morto, abitante quella strana e scivolosa contrada? Mi sforzai come per ricordare qualcosa: le sue parole recavano uno strano effetto di déjà-senti, ed era come se mi chiamassero ad una sorta particolare di riflessione, forse l'invito alla risoluzione di un indovinello che sembrava dovesse rinviare proprio a me, aprendo il varco ad un'invisibile catena di considerazioni: qualcosa si sfasciò allora in quello spazio, e la fisicità atomizzata che gli era propria si fece definitivamente inafferrabile. La palpebra della nebbia calò sopra ogni cosa come un sonno improvviso, inghiottendo tutto il visibile in un collasso istantaneo, che si portò via anche l'omino di terracotta.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
Aprii gli occhi: la luce era bassa, l'aria era fresca.
Sdraiato sul lettino blu, sul mio terrazzo di casa, riconobbi me stesso dentro quel che era il mio corpo, e compresi subito cos'era successo: era stato tutto un sogno, un'allucinazione pomeridiana, uno strano viaggio che ora, secondo dopo secondo passato a contatto con l'aria aperta e strutturata della natura, andava già perdendo tutto il suo emozionante realismo, impigliandosi nella fitta rete della vita e del mondo.
Il terrazzo appariva completamente trasfigurato rispetto a quando l'avevo lasciato, e l'accecante, ingovernabile e mortifera luminosità del primo pomeriggio aveva nel frattempo trascolorato dentro un vespro violaceo, che già si volgeva all'apparizione delle prime stelle nel cielo apparecchiato per la notte. La fine del giorno.
Intorno a me non c'era più nessuno, se non il nonno che, buttato sulla settimana enigmistica, pareva più un elemento naturale, montarozzo pietroso o polveroso cespuglio di capperi, che un vero e proprio essere umano. Si accorse di me lentamente, guardandomi come un vecchio cane assorto
«bentornato, minchiazza: hai dormito tutto il pomeriggio».
Un terrore m'invase, come un riflesso condizionato che mi attraversò la testa e le vene. Il mio primo pensiero fu “dov'è Teodora?”
«Perché non mi hai svegliato?»
«Perché se hai dormito tanto, si vede che ne avevi bisogno»
«ma dovevamo andare a far legna per il falò di stasera...»
«sono andati tuo padre e tuo zio, con i ragazzi»
«allora li raggiungo»
«lascia perdere, ormai è fatta: sono le otto, tra poco torneranno».
Ma vedendo il mio scoramento che quasi si faceva lagrima, raddolcito aggiunse
«non ti preoccupare, ti sei perso il lavoro sporco, ma il meglio deve ancora venire: stasera sarai l'unico in forma, e mentre gli altri bestemmieranno per stare svegli, a te non ti addormenta manco il padreterno».
Non gli risposi, ma se da una parte constatai le sue ragioni, dall'altra mi dolsi – pure troppo – di non aver colto l'occasione di approfondire e stimolare le meccaniche amorose che si erano innescate quella mattina con Teodora, alla quale davanti allo specchio, solo poche ore prima, avevo promesso di votarmi come un cavaliere che giura fedeltà alla sua dama, e che invece avevo perduto di vista alla prima difficoltà, come una vera minchiazza.
Il pranzo di ferragosto mi aveva infatti sorpreso e sconfitto; per presunzione, per una sorta di “hybris gastonomica”, ero soccombuto, e mio malgrado caduto in un sonno profondo, e foriero di una strana catàbasi di cui tuttavia mi interessava, in quel frangente, solo la scena iniziale: il palpito disperato del mio orgasmo intempestivo, la vergogna lancinante e i sensi di colpa per aver deluso Teodora, e l'impotenza nel vederla volare via.
Ma se abitare l'impotenza è il desco comune dell'umanità infelice, l'eroe è quel solitario viandante che segue il suo destino nella pienezza dell'attenzione, ed esisteva una conseguenza logica per cui se io volevo essere un eroe come andavo dicendo, la vicenda assumeva tutta una sua innegabile coerenza: il pranzo era stata la prima prova, e l'avevo bellamente fallita. Stravolto dalla mia incontenibile tracotanza mangereccia, ero caduto nel sogno come in un'interrogazione a sorpresa, un'imboscata che aveva mostrato tutta la mia inesperienza, e una certa inadeguatezza nel mestiere che mi ero scelto, e che pure aveva scelto me.
La visione mi mostrava quali fossero le immediate conseguenze del mio errore: smarrendo Teodora, ero finito nel regno dei morti, a farmi insinuare dagli dei il tarlo dell'impotenza, l'impotenza dei mortali di fronte al proprio passaggio nella Storia.
Compresi allora che, se davvero ero convinto di compiere la mia impresa e cercare l'amore di Teodora per unirlo con il mio, non avrei dovuto più cedere a piaceri mondani o debolezze emotive; dovevo restare sveglio, sempre, per tutto il tempo necessario, sospendere ogni necessità fisiologica, ogni insufficienza umana per riuscire ad essere, totalmente e a costo di morire, all'altezza del mio ideale.
Ribadendo così, con rinnovata gravità, il voto di fedeltà alla mia missione, giunsi a calmare il sentimento di perdita irreversibile per essere mancato alla raccolta della legna, e nell'attesa del suo ritorno cominciai a studiare una strategia per il falò di quella notte. Mi era chiaro che quella fosse la nuova prova che dovevo affrontare e che, pur nella sua estrema complessità, fosse per me una grande occasione. Ripensai alle 5 “W” che avevo imparato a scuola:
chi – io
cosa – dichiarare l'amore per mia cugina;
quando – quella stessa notte;
dove – in spiaggia, presso il fuoco rituale di ferragosto;
perché – perché non potevo fare altro per continuare a vivere.
L'ultima domanda, quella che in classe non avevamo mai capito perché non avessero aggiunto alle altre se non in ragion del fatto che non cominciasse con “W”, era:
come – come dichiarare a Teodora il mio amore, quella stessa notte al falò di ferragosto?
Sembrava in effetti un'idea completamente idiota, una battaglia da lasciar perdere senza nemmeno provarci. All'esame del piano appariva che:
1 - avrei avuto intorno tutta la famiglia, e la notte come unica alleata;
2 - non avevo rudimenti di tattica, e una conoscenza sommaria del campo;
3 - non sapevo che armi utilizzare;
4 - l'unico movente per l'ottimismo era una spericolata e ingiustificata certezza: che lei non aspettasse che me, e che ogni ora passata senza tentare la fortuna equivalesse ad allontanarmi sempre di più dalla realizzazione del mio sogno.
Ma come fare? La questione mi abitò ossessivamente, come la più importante decisione del Generale, nell'attesa della battaglia – della notte.

(continua)
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro

Valchiria

SoHead Perfumier - Queen of the year
dobbiamo rimetterci sotto, te lo prometto!
dobbiamo riprenderlo, dobbiamo finirlo, deve essere una bomba e dobbiamo pure farci fama & ricchezza!

per ispirarti, leggiti se puoi "il blu è un colore caldo" (è il fumetto da cui è tratto il film "la vita di adele")
qui sul post lo trovi addirittura pubblicato (mi sembra ci sia tutto)
http://www.ilpost.it/2013/10/28/il-blu-e-un-colore-caldo-ultima-puntata/
Lo hai promesso. Salvo i log.
Appena sono sul PC vedo
 
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