Contest QUATTRO RIGHE PER L'ANNO NUOVO [Concorso letterario dell'Accademia Soheaddiana]

Vota il tuo testo preferito!

  • Canto di Natale

    Votes: 1 7,1%
  • Storie di fava e di spada

    Votes: 4 28,6%
  • Il curioso smoking di Mr. Cavendish

    Votes: 0 0,0%
  • Una sera in cui mi rompevo i coglioni

    Votes: 8 57,1%
  • Vàmonos?

    Votes: 1 7,1%

  • Total voters
    14
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Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
Qui di seguito potrete leggere i lavori degli autori soheaddiani, le cui identità saranno, come da tradizione, rivelate solo una volta chiuse le votazioni, ovvero tra dieci giorni, sabato 12.1.13
Si potrà votare un solo testo, ma è aperta l'opzione di cambiare il proprio voto in corsa. I risultati del poll saranno visibili solo a votazioni terminate.

Ringraziamo le persone che hanno saputo scrivere qualcosa e presentarlo alla comunità, e ricordiamo che il vincitore riceverà in premio una maglietta originale che celebrerà l'evento.


Buona lettura a tutti.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
UNA SERA IN CUI MI ROMPEVO I COGLIONI



Parte in quarta a raccontare con gli occhi sognanti e il viso illuminato dalle luci basse del locale: “E quindi niente, è carino, alto, gentile, sensibile...”. La fermo immediatamente con un gesto da ghisa milanese che non lascia adito a dubbi. “Alt. Ma tu lo sai cos'è la sensibilità?” domando con un sorriso furbo e svelto da truffatore di mezza tacca per cui probabilmente la mia amica sta iniziando ad odiarmi. Senza attendere una risposta, proseguo: “L'arma più affilata che puoi mettere in mano ad un essere umano.”


Ilenia, questo è il nome dell'esserino innamorato e tremebondo che mi siede davanti, fa intendere con un movimento della bocca che pensa che io abbia finito di scolarmi le ultime stille di cervello che tengo in capoccia. Paziente ai limiti del paternalismo più becero, tengo di spiegargli quello che penso dell'unico vero stiletto: la sensibilità. Non sarà semplice, perchè l'esemplare di femmina dagli occhi verdi che mi siede davanti è qualcosa di più di un semplice caso disperato: è la morte civile. Vi dico solo che è una di quelle che vede i libri sull'autostima al supermercato e li compra, come se il segreto per non sentirsi costantemente una merda potesse stare là, incastonato con noncuranza tra i pachino di serra e i flaconi di detersivo sottomarca, quelli che ti lasciano i capi talmente infeltriti che viene seriamente il dubbio se fosse stato meglio non lavarli e basta.


Dato che il tema è in un certo senso solenne decido di cambiare accento e opto per un campano non meglio definito per dare credibilità alla cosa, che il milanese riuscirebbe a banalizzare pure il Cristo del Cimabue. “Il far coincidere nelle nostre stolte capocce sensibilità e dolcezza è uno degli errori più gravi che un essere umano possa fare, specie se di sesso femminile e con una spiccata predilezione per le tonalità pastello e cani grossi come pantegane e dotati della stessa affabilità. Una persona sensibile non è per forza una brava persona, pensa all'aggettivo in chiave scientifica: un'analisi chimica sensibile è semplicemente un'analisi “che vede” molte cose anche se quasi impercettibili e nulla più, se applichi questo concetto ai viventi, dovresti capire da sola che il resto viene da sé.” Niente, lo sguardo della mia discepola vestita completamente Zara (c'è crisi, pochi cazzi) esprime il vuoto e la desolazione, il posteggio di un ufficio postale di provincia la mattina di Santo Stefano.


Per uno dei motivi peggiori per cui un vivente possa accendersi una sigaretta, la noia, esco fuori dal bar promettendo che al mio ritorno avrei usato parole più chiare, sebbene non ne tenessi alcuna voglia. Spesso, anche in questo caso è ovvio, parlo semplicemente perchè mi piace il suono della mia voce e se non è onanismo questo allora spiegatemi voi che cazzo è, l'onanismo. Sul marciapiede del corso principale del paese – un buco – incontro dei miei compari ubriachi come stracci che riescono nel difficilissimo intento di annoiarmi molto di più della mia amica nel locale, e in un lasso di tempo molto minore. Questo, unito al freddo cane e all'effetto del mio doppio rum che sta lentamente scemando mi convince a rientrare, e vedo Ilenia che si gingilla con lo smartphone. Mai la parola “telefonino” era stata così brutalmente violentata: i 5 e oltre pollici di diagonale di quello che non esito un istante a definire un piccolo catamarano tra un po' rischiaravano a giorno l'ala del “Blitzkrieg” in cui ci trovavamo.


Un giorno vi racconterò perchè ad un localuccio di provincia in cui riescono a fare male pure il vodka lemon è stato dato un nome così altisonante e vi parlerò anche e soprattutto di Italico, l'anziano proprietario dalle basette volitive che non accontentandosi del nome ha fatto mettere lo stemma dell'aquila bicefala un po' ovunque, comprese le divise delle cameriere. Il giorno che tutte queste aquile si alzeranno in volo per cacare, ho sempre pensato, sarà un giorno difficile da dimenticare per noi ed i nostri soprabiti.


L'inadeguatezza fattasi doppio cromosoma X ripone il fiordo norvegese OLED con cui si baloccava. Faccio per spiegarle con parole semplici che un uomo sensibile è semplicemente un cecchino con un mirino migliore degli altri, ma qualcosa ce lo impedisce. Questo qualcosa, è Ding.


Non ricordo se vi ho mai parlato di Ding ma quasi probabilmente l'ho fatto, dato che si tratta di un'istituzione qui. Se vi dicessi che è un ebreo con i capelli rossi (più rame che mogano) con il pallino per le armi da fuoco di ogni calibro e colore, non vi direi abbastanza. Tiene per la Reggina, ma nemmeno questo basta. Ding è una raffinata ed efficientissima macchina di morte se solo gli punge vaghezza, ma la sua indolenza di solito salva lui dalla sedia elettrica ed, incidentalmente, noi dallo sterminio.


Ora, cosa voglia fare un askhenazita dentro al locale che appartiene ad uno a cui il nazismo piace semplicemente perchè sotto sotto non gli tira il cazzo, è chiaro come il sole: vuole rompere i coglioni, e ci sta riuscendo semplicemente con la sua presenza. Il tatuaggio a forma di fascio littorio che segretamente Italico si era fatto fare anni fa sulla schiena – in un altra città a 200 km di distanza, il tatuatore del paese sembrava troppo progressista – gli inizia a prudere, e la sudorazione profusa ed il cambio di colorito riescono a far sembrare l'uomo tale e quale allo straccio che tiene in mano per pulire i bicchieri: sudicio e inutile.


L'idea di assistere a una rissa a mano armata, non so come altro definirla, mi ringalluzzisce ulteriormente e scolo il cocktail di Ilenia, che aveva lasciato ritenendolo troppo forte, pentendomene immediatamente dato che si trattava di una pina colada così dolce che rischio di schiattare di diabete fulminante senza nemmeno avere il tempo di dire a chi lascio in eredità la Vespa. Borbotto con disappunto: l'alcol non si sentiva nemmeno, o almeno io non lo sentivo. Immagino che anni passati a bermi la vernice fumandoci appresso sigarette spesse come marmitte siano riusciti a pavimentarmi la cavità orale rendendola paurosamente simile all'amianto, il dosare ai pasti il peperoncino usando direttamente la cazzuola ha probabilmente dato il colpo di grazia. Potrei mangiarmi cartone e polistirolo e non accorgermene nemmeno e questo ha anche i suoi punti di forza, credetemi.


Il motivo per cui Ding era riuscito ad attirare l'attenzione di tutto il locale era di una banalità disarmante, a pensarci bene. Era da solo, vestito come al solito ed apparentemente indossava anche la solita espressione, solo che c'era un accessorio in più. Un piccolo obice - non saprei come altro definirlo, davvero – sostava accanto a lui, come un cane fedele pronto a riprendere il bastoncino non appena il padrone lo avesse lanciato.


Immediatamente delle domande mi sorsero spontanee. Dove se lo era procurato? Come era riuscito a infilarlo nella vecchia Clio del 93 e, soprattutto, perchè si vestiva sempre allo stesso modo? Ma ciò che più preoccupava erano i suoi occhi, nonostante stesse sorridendo, placido. Di carattere bonario e disponibile, in quel momento pure il demonio si sarebbe affrettato a raccogliergli il cappello se per caso un libeccio fastidioso glielo avesse fatto cadere. Roba da cacarsi in mano e prendersi a schiaffi.


Mi alzo. Di convincerlo con le brutte a desisterlo dal fare qualsiasi cosa, non se ne parla. Dall'alto del mio 1.94 fittizio (i tacchi io mi domando, perchè mi ostino a metterli che tanto ci cammino come un t-rex) sono letteralmente un gigante dai piedi d'argilla e se casco da quassù mi piglia a pernacchie pure quel cane di Newton, lui e quel suo parruccone di merda che non ho mai potuto soffrire, come le camicie a collo alto di Foscolo d'altronde. Conciata, non ho problemi ad ammetterlo, come una zoccola apprendista alle prime armi con tanto di vistosi orecchini a forma di carcinoma – metastatico IV stadio, omaggio di un babbeo con cui uscivo in quel momento – nel corpo a corpo avrei raccattato le mazzate pure contro Ciccio, l'aiutante di Nonna Papera.


Tento l'approccio diplomatico, virando su tonalità ancora più meridionali, che di solito in queste situazioni nun te sbaji mai.


“Ohi che minchia combinasti? Se speri di ottenere uno sconto presentandoti a braccetto con la Grande Berta ti consiglio di evitare come la peste il Mojito: la scorsa volta ci trovai dentro una roba pericolosamente simile al rosmarino ed in effetti le siepi qui fuori apparivano lievemente più sparute”.


Ride, e questo mi mette in difficoltà perchè non so come interpretarlo.
Voi come interpretereste una ghignata fatta da un tizio appresso a un cannone? Io, non so.


Anche perchè i suoi occhi continuano a mettere una paura fottuta. “Ho saputo che ce l'hai con gli ebrei”, sussurra soave.


Italico è un guscio vuoto, uno sberleffo d'uomo: il suo cervello non si sa come è colato pian piano, presumo da un orecchio, e non apre bocca.


10 minuti di pausa. Non succede assolutamente niente. Nessuno proferisce verbo e nel mentre io mi sono riaccasciata sul divanetto e fumando una sigaretta DENTRO il locale – urrah, volevo farlo da anni – contemplo gli arcobaleni di pochezza che lo arredano. Le aquile bicefale adesso sembrano piccioni, chissà se funziona anche con loro quel giochetto che se gli dai da mangiare troppo riso esplodono, e mi riprometto di provare la cosa prima o poi con un rapace vero.


In tutto questo lasso di tempo, il barista raccoglie le forze per sibilare un'unica formidabile frase: “A' lillo, se te rode er culo dillo”.


Capolavoro. Un genio. Nel 99% dei casi questo avrebbe fatto scattare la tragedia, lo spirito di Gavrilo Princip era lì che si stava sfregando le mani dalla soddisfazione, io già temevo il lavoro extra che ci sarebbe stato al pronto soccorso, ma niente.


Completamente disinnescato non si sa bene per quali motivi dalla frase del barista, il nostro affezionatissimo guerrafondaio gira i tacchi ed esce, chiudendosi anche con premura la porta dietro per scongiurare gli insidiosi spifferi. Nessuno tenta di fermarlo, nessuno dice niente, nessuno chiama madama. Il cannoncino resta proprio lì, in mezzo a tutto, ingombrante come il proprio padre al primo appuntamento con una ragazza.


Ilenia sviene assolutamente senza motivo e in quel momento spero davvero che compaia il cane morto che si è rimorchiata perchè io di caricarmela sul motorino non me ne passava manco per un cazzo. Si riprende dopo un paio di minuti e alla mia lecita domanda sul perchè svenire una volta che il pericolo è passato mi risponde balbettando qualcosa sull'intensità del momento, il pathos, Iva Zanicchi ed il feng shui. Annuisco, pensando che la prossima volta che mi chiede di uscire piuttosto mi metto a lavare il cane, ed esco fuori a fumare.


Italico esce con me, io non resisto e sibilo “Perchè?”. Lui mi risponde serissimo: “La scorsa volta gli ho fatto un Martini. Mescolato, non Shakerato.”


“Ah.”


“Si, me la sono cercata, lo so” e si mette a fissare un lampione con l'intensità che solo chi ha appena scampato alla fine del porco può conoscere.


Non rivedemmo mai più Ding. Diede fuoco alla sua stessa macchina – un bel coraggio, dato che va a GPL – le perizie della scientifica dimostrarono che l'obice da tasca non sarebbe stato in grado di sparare poiché privo di proiettili e il ragazzo sparì dalla circolazione.


L'arma, inutile dirlo, diventò parte integrante del Blitzkrieg e adesso sta in bella vista circondata da un piccolo recinto con tanto di targhetta “SCIPPO AL MOSSAD” e ogni tanto quando mi bevo una bella birra rossa, d'accordo non è mai una sono sempre almeno otto, mi viene in mente Ding. Mi piace immaginare che sia vivo e non, come dicono i maligni, che sia andato lassù, ad insegnare a sparare agli angeli.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
VAMONOS?


Fomento


Nel buio delle cinque del mattino, mentre una fitta penombra ammantava la sua stanza illuminata solo dallo schermo di un computer, Aurelio Betti pensava solo a una cosa: la figa. Il biglietto aereo, già pronto, se ne stava sulla vaschetta della stampante mentre un valigione lo attendeva proprio sull'uscio. "Merda!" si disse ad alta voce, aveva dimenticato i preservativi. Canticchiando come un mantra "andiam, andiam, andiamo a trombar" sull'aria della nota canzone dei sette nani di Biancaneve, Aurelio riaprì la valigia già traboccante e ci infilò dentro un pacco di Durex Easy On; perchè la comodità era tutto quando c'era da puntare al sacro buco. Da fuori la porta una voce ovattata lo chiamò, suo padre era pronto. Scese nella cucina deserta ad eccezione di suo padre che ivi stazionava guardando l'algido tg del primo mattino. Agguantò una lercia merendina del discount, un succo di frutta che tra le sue componenti aveva di tutto eccetto che della frutta, e li trangugiò rapidamente. "Andiamo babbo, tocca passare a prendere Alessandro," un grugnito gli rispose e dopo pochi secondi si ritrovavano già sulla vecchia Marea di famiglia. Il fresco della mattina estiva era piacevole, Aurelio abbassò il finestrino e inspirò un po' di aria fresca. Aveva vinto lui alla fine, quelle vecchie mummie dei suoi genitori non potevano negarglielo, destinazione Barça. A ballare. E divertire, ovviamente. Si era fatto un culo così per gli esami di maturità, aveva dovuto creare il suo capolavoro per riuscire a copiare anche in un'occasione così ufficiale ma alla fine ce l'aveva fatta. Certo aveva dovuto fare un bel sacrificio, in cambio della versione di latino era stato costretto a reclutare per il viaggio anche quella scassa-minchia di Luisa Nenci; quell'arpia aveva posto l'ultimatum e nessuno nella classe era al suo livello quando si parlava di versioni. Poco male, Alessandro e Luigi gli avrebbero fatto da spalla e la presenza della Nenci sarebbe stata indubbiamente foriera di copiosi scherzi e prese in giro. Ridacchio tra sè, mentre dalla radio veniva fuori una versione annacquata di Stand by me di Ben E. King. "Magari Aurelio," abbozzò il padre continuando a guardare dritto verso la strada "vatti a vedere qualcosa della città, non pensate solo alle discoteche. Ormai sei grande, potresti averci qualche altro pensiero nella testa, no?". Aurelio sbuffò e masticò alcune parole che dovevano suonare come un "Sì, sì, babbo". Aveva tirato su un bel gruppetto, era riuscito a convincere anche quel gran pezzo di figa della Ricci che sicuramente avrebbe allietato le loro serate grazie al suo ocheggiare e davvero doveva gettare via tutto pensando ai musei e alle chiese? Suo padre non aveva idea di che avrebbe combinato in España. Tuttavia non voleva essere provinciale, questa volta puntava in alto: dritto all'Europa. Una bella collezione di bandierine da tutto il continente, sì signore. La Ricci poteva pure stare a bearsi di Alessandro che pendeva dalle sue labbra, tanto lo sapeva che l'amico stravedeva per lei e probabilmente avrebbe dato un braccio per portarsela in stanza. Il motore della Marea rombava per la provinciale, mentre casa di Francesco si faceva più vicina e con lei la stazione. Treno Chiusi-Chianciano Terme, direzione Roma Termini.


Ingenuità


"E mi raccomando Luisella, quando arrivi a Roma chiama e quando atterri chiama ancora, d'accordo?". Eravamo alle solite, iper-apprensività e non le faceva godere neanche il momento della partenza. Infilò nella valigia Il profumo di Suskind, lo aveva iniziato da qualche giorno, che libro magnifico era; sarebbe stato sicuramente un ottimo compagno di viaggio. Indossò un giacchino troppo fuori moda anche per sua nonna, salutò la madre che se ne stava in pantofole e scialle sulla porta e uscì di casa trascinandosi dietro il suo trolley. La stazione era vicina, una passeggiata nell'aria estiva l'avrebbe rinfrancata dalle eccessive attenzioni della madre. Alla fine si partiva, era riuscita a convincere Aurelio. Sarebbe stata la sua occasione. Aurelio era così bello, quei capelli biondi che si ingellava, le magliette strette e quei deliziosi jeans che mettevano in risalto il suo culo. Luisa lo amava, non c'era nient'altro da dire. Si era portata dietro pure un completino di Intimissimi davvero sexy, si era vergognata un sacco a comprarlo ma fortunatamente Giulia l'aveva accompagnata. Si sistemò gli occhiali con un gesto istintivo ma si accorse di non portarli, le lenti erano fondamentali: non voleva dare idea ad Aurelio di essere ancora una bambinetta che sapeva solo studiare. Lei era maturata, era pronta, ne era sicura: nella prossima settimana avrebbe perso la verginità e Aurelio sarebbe stato il suo principe azzurro.


Dubbio


Marta Ricci stava finendo di truccarsi quando sua sorella venne a chiamarla, dallo stereo del bagno veniva fuori un pezzo di Daniele Silvestri mentre dava l'ultimo tocco di mascara. Si diede una sistemata al seno, si guardò allo specchio facendo un paio di espressioni ammiccanti e quindi si infilò una maglietta Baci e Abbracci. La scollatura era generosa, d'altronde se voleva conoscere subito qualche ragazzo spagnolo doveva darsi da fare. Poco male se si sarebbe tirata dietro gli sguardi di quei porci con cui stava andando in vacanza. Era un sacrificio sopportabile, i suoi genitori non l'avrebbero mai lasciata andare da sola e purtroppo, in quel buco di paese in cui si ritrovava a vivere, erano gli unici che conosceva che volessero andare a Barcellona. Tutti gli altri suoi compagni erano ancora così bambini, ricordò ancora con tenerezza quando chiese a quello sfigato di Franco dove avrebbe passato le vacanze dopo la maturità. Candidamente gli aveva risposto che si sarebbe fatto un intero mese dai nonni in montagna, dove avrebbe fatto lunghe passeggiate e riflettuto su cosa volesse fare all'università, e quindi un mese di mare a Follonica dove avrebbe incontrato i suoi storici amici del mare con cui andare in sala-giochi e organizzare interminabili partite di Risiko. Il pensiero di Franco svanì in fretta e subito nella mente si vide cinta in un abbraccio da un caliente spagnolo. "Mm.." si lasciò scappare un mugugno mentre si infilava una gonna molto provocante e stivali leggeri. "Cosa stai facendo?" gli chiese da dietro la porta la sorella che nel frattempo stava continuando a bussare alla porta, "dai che perdi il treno!". Marta annuì tra sè, incurante del fatto che sua sorella non potesse vederla, e aprì la porta. Federica era stata molto gentile a svegliarsi così presto, la sua sorellona non la tradiva mai. Si infilarono rapide nella Cinquecento e appena partiti Marta tirò giù lo specchietto e continuò a controllarsi il trucco. Federica infilò una cassettina nel vecchio stereo, la voce profonda di De Andrè risuonò nella macchina e cominciò a canticchiare Giugno '73. "Dai Fede, non mi ammazzare la mattina, cos'è questa roba triste?" protestò Marta mentre ultimava gli ultimi ritocchi da battaglia al trucco. Federica non rispose neanche e continuò a cantare, la sorella sbuffò ma si arrese subito. D'altronde la macchina era sua, le stava facendo un piacere ed era meglio non farla arrabbiare. Lungo la strada le due si fermarono a fare colazione ad un bar, l'ambiente era parecchio ostile ricolmo di pensionati insonni già svegli da ore e con una vecchia e sporca televisione Brondi che recitava il tg del mattino informando sul fatto di cronaca nera del momento.
"Allora? Emozionata? La tua prima vacanza da sola! Beati voi che ve ne andate in vacanza, io ho ancora esami fino alla fine di Luglio!", disse Federica mentre girava con un cucchiaino lo zucchero nel caffè.
"Non vedo l'ora, Fede, a parte la compagnia che potrebbe essere migliore. Ma ci si accontenta, Barça deve essere bellissima."
"Oh sì, ricordo ancora la prima volta, avrò avuto la tua età più o meno. Devi andare assolutamente al Cine Princesa, è un centro sociale bellissimo."
"Non so gli altri quanti saranno d'accordo e poi, dai, lo sai che non mi piacciono le tue cose da comunista."
Federica la guardò un po' torva ma poi si arrese lei questa volta, era indubbio che la sorella non avesse i suoi medesimi interessi e probabilmente era ormai inutile tentare di convertirla a qualcosa che non sarebbe mai stato. Terminarono la colazione in silenzio, pagarono rapidamente e si rimisero in marcia verso la stazione. Nel cuore di Marta pero' cominciarono ad insinuarsi dei pensieri contrastanti, rifletteva sempre di più sulla situazione in cui si stava infilando. Aurelio avrebbe fatto il buffone come sempre, Alessandro ci avrebbe provato con lei per tutta la settimana e probabilmente i ragazzi spagnoli l'avrebbero trovata troppo poco attraente. Si stava guastando l'umore e le canzoni tristi di De Andrè, che sua sorella si ostinava ad ascoltare, di certo non stavano migliorando la situazione. Sospirò profondamente mentre la provinciale cominciava a riempirsi della solita quotidianità fatta di macchine e moto di lavoratori assonnati e in ritardo.


L'incontro


La prima ad arrivare fu Luisa, nonostante avesse volontariamente fatto molto lentamente il tratto di strada che seprava casa sua dalla stazione per assaporare ogni secondo della sua vacanza. Si sedette su una panchina vicino ai binari, tirò fuori il suo Suskind e cominciò a leggere per ingannare l'attesa. Dopo circa dieci minuti fece la sua comparsa Marta, accompagnata dalla sorella Federica. Luisa si incupì, come poteva sperare di competere con la Ricci? E la sorella quanto era bella, un corpo perfetto e i capelli castani boccolosi. Sembrava un quadro rinascimentale. Ma sarebbe venuta anche lei? Luisa sperava proprio di no, il suo completino sexy non avrebbe mai potuto sconfiggere le sorelle più fighe della Val di Chiana.
"Ehi Luisa!" la salutò Marta, "che è sto sguardo cupo? Dai che si parte!"
"Ciao, sì, scusa. Stavo leggendo."
"Ma dai la scuola è finita, cosa leggi?" controbattè giuliva Marta.
"Leggi Suskind?" intervenne Federica mentre si accendeva pigramente una sigaretta. "Impara da lei, Marta, sia mai che tu perda un po' di tempo in cose come i libri, vero?"
"Dai, Fede, non me la menare. Sono in vacanza! Vacanza!" disse stridulamente Marta con una smorfia che doveva risultare simpatica.
La conversazione andò avanti per qualche minuto, Luisa le odiava entrambe. Marta era una stupida e sua sorella se la tirava come non mai, non era mica solo lei che studiava all'università, non c'era mica solo lei così bella al mondo. Maledette sorelle Ricci, stavano rovinando la sua occasione. Federica, quindi, se ne andò con sommo sollievo di Luisa e poco dopo giunse anche Alessandra con Luigi. I due se ne stavano sempre attaccati, come due opliti che devono coprirsi reciprocamente il fianco. Luisa non aveva particolare avversione per loro due, erano una coppia, niente che potesse minacciare il suo grandioso piano di conquista. Gli ultimi ad arrivare furono Aurelio e Francesco. Il volto di Luisa si illuminò, stamattina era anche più bello del solito e indossava quel cappellino da baseball che lo faceva tanto sembrare una star di Hollywood nel suo tempo libero colta alla sprovvista da un paparazzo. Aurelio si presentò intonando una sorta di coro da stadio che diceva: "Si parte, la-la-la-la, si parte, la-la-la-la", Francesco gli andava dietro e i due arrivarono quasi saltellando da tanto erano eccitati per la partenza. Quanto avrebbe voluto avere il coraggio di unirsi a quel coro degno del teatro greco che avevano studiato durante l'ultimo semestre, ma forse Luisa non era ancora pronta. "E andiamo Luisa, si parte, la-la-la-la, lasciati un po' andare" la punzecchiò Aurelio. Luisa arrossì e bofonchiò alcuni monosillabi senza significato a mo' di risposta. Aurelio proruppe in una risata sguaiata. "Oh Francè, passami una sigaretta e vàmonos ragazzi!" concluse quindi il suo show mentre Luisa si sprofondava per non essere riuscita a stare al gioco. Dopo circa un quarto d'ora, e qualche altra sigaretta, il treno era pronto per partire. Il gruppo vacanze Barcellona 2013 la-la-la-la, come lo aveva rinominato Aurelio in un moto di comicità degno del cabaret di Mediaset, si apprestava ad iniziare il suo viaggio.


Fastidio


Prendere il treno così presto al mattino era stata davvero una violenza incredibile nei confronti di se stesso, erano mesi che si svegliava sempre alle due di pomeriggio. Ma toccava, doveva essere a Roma entro pranzo e i collegamenti dal sud della Toscana alla capitale non brillavano certo per velocità, soprattutto se si voleva risparmiare qualche euro. Se non fosse arrivato in tempo Francesca gliel'avrebbe fatta pesare ulteriormente, già le cose andavano di male in peggio ci mancava anche di litigare per uno stupido ritardo. Sperava solo di poter affrontare un viaggio tranquillo, un po' di musica nel vecchio Creative Zen e nessuno accanto a lui che avesse voglia di parlare. Non fece neanche in tempo a terminare il pensiero che fu immediatamente disatteso quando un gruppo di ragazzi arrivò rumorosamente nello scompartimento dello scassato regionale. Quello che pareva il leader del gruppo era il classico biondo che ti saresti potuto ritrovare in qualche trasmissione televisiva squallida del primo pomeriggio. Si fece subito riconoscere correndo su e giù per il corridoio, urtando chi, a suo malgrado, se ne stava in mezzo al passaggio e infine sedendosi rumorosamente accanto ad un finestrino. Capitavana un gruppetto male assortito: un ragazzo vestito sostanzialmente come lui che gli fungeva da scudiero, una coppia con la sindrome dell'abbandono che rimaneva sempre attaccata l'uno con l'altra, una ragazza incredibilmente bella ma altrettanto volgare nel vestire e un'altra, questa decisamente bruttina, che se ne stava un po' imbarazzata a seguire il carrozzone. Il viaggio era indelebilmente segnato, il vociare del biondo travalicava anche le potenti cuffie comprate al negozio di cinesi sotto casa mentre la ragazza carina ma altrettanto volgare aveva già cominciato a parlare con un'alta voce stridula di quello che si aspettava dalla loro prossima vacanza in Spagna. Era stato inutile anche tirare fuori Un amore e tentare di fiondarsi nel mondo piccolo borghese del protagonista del libro di Buzzati; la contemporaneità, sotto forma di quel gruppo di rumorosi ragazzi, faceva sempre capolino rendendo del tutto vano ogni tentativo di concentrarsi in qualcosa di diverso dalle loro chiacchere. "Dai Aurè, datti una calmata! Non vedi che tutti ti stanno guardando?" disse alla fine la ragazza bella ma volgare. Aurelio, infatti, se ne stava irrequieto al suo posto a canticchiare cori da stadio squallidi e a fare battute dementi. Intanto gli altri due ragazzi della compagnia avevano cominciato a giocare a carte. "Aurelio dai, facciamoci una briscola" gli disse il suo scudiero, il biondo lo guardò male e quindi si alzò borbottando qualcosa che doveva far intendere la sua disapprovazione all'idea. Quando si allontanò dal vagone la calma e il silenzio si impadronirono dello scompartimento, la ragazza bruttina seguì con lo sguardo Aurelio e sospirò. Era chiaro fosse cotta di quella sottospecie di tronista, ardeva dalla voglia di seguirlo ma sembrava mancarle il coraggio. Così la osservò continuare a leggere il suo libro mentre nervosamente batteva il piede come a tenere il ritmo di una canzone che suonava solo nella sua testa. Fabro-Ficulle, Orvieto, Alviano, Attigliano-Bomarzo, Orte e poi finalmente Roma. Il viaggio continuò così, con Aurelio sempre più fomentato e il suo gruppo di accompagnatori che si divideva tra chi lo seguiva e chi lo compativa con sguardi inequivocabili. Quando il treno arrivò a Termini fu una vera e propria liberazione, scese del vagone e pregò ardentemente il Signore, come mai aveva fatto nella sua vita, di liberarlo per sempre da quella compagnia sgradita.


Uno scherzo


Tutto stava andando peggio del previsto, Luisa era stata una noia per tutto il viaggio. E poi era così ridicola con la sua cotta per Aurelio. Si stava stufando, Aurelio era stata una vergogna continua durante il viaggio mentre Francesco aveva tentato in ogni modo di attirare l'attenzione su di lui. Fu quando scesero dal treno che Marta Ricci si ripromise che mai più si sarebbe fatta incastrare in un tale viaggio della speranza. L'arrivo a Termini, dove avrebbero dovuto muoversi verso l'areoporto, fu una sorta di liberazione. Il grupetto si divise e Marta decise di farsi una giro da sola per smaltire la frustrazione della situazione in cui era venuta a trovarsi. Uscì dalla stazione per assaporare l'aria della grande città; fuori da Termini, pero', ci trovò solamente un gran numero di immigrati che giravano per i dintorni con aria losca, o almeno così Marta aveva interpretato i loro sguardi torvi e stanchi. Ad un tratto, forse perchè aveva indugiato un po' troppo osservando l'umanità tutto intorno a lei, uno degli immigrati le si avvicinò e le parlò con accento slavo: "Ehi, bella, ti vuoi divertire?", Marta gelò e cominciò ad indietreggiare spaventata. "Ma cosa hai capito bambina, non ti spaventare, non ti picchio mica!" disse con una frase che doveva essere rassicuratrice ma che invece assunse una dimensione decisamente grottesca dal momento che fu seguita da una risata eseguita da una dentatura piuttosto marcia e deficitaria di pulizia quotidiana. Marta si bloccò impaurita mentre lo slavo si faceva più vicino. "Ti vedo un po' tesa, amica, che ne dici di rilassarti un po' con questo?", lo slavo cercò qualcosa nella tasca e tirò fuori una boccetta. "Una di queste gocce e vedrai che niente ti farà più paura." In una situazione normale Marta sarebbe scappata a gambe levate ma nel momento in cui capì che lo slavo voleva venderle della droga un'idea cominciò a formarsi nella sua testa. Si fermò e cominciò a guardare lo spacciatore con uno sguardo di vivo interesse: "Cos'è?". Lo slavo si illuminò: "LSD, purissima, te la faccio a poco." Marta non ci pensò due volte, prese la boccetta, pagò lo slavo e si allontanò a metà tra lo spaventato e l'eccitato. Non sapeva perchè lo stesse facendo, in realtà si sentiva terribilmente simile ad Aurelio ma era stufa di quel gruppo di coglioni che le stava rovinando il viaggio ancora prima di partire sul serio. L'ora della sua vendetta era arrivata e Luisa sarebbe stato il suo inconspevole braccio.


Psiconauta


Ma dove erano finiti tutti? Luisa cominciava a preoccuparsi, tra meno di mezz'ora partiva il treno verso Fiumicino e ancora non si vedeva nessuno. Ripose Il profumo nella borsa e cominciò ad osservarsi ansiosa tutto intorno. Se ne stava seduta su una panchina accanto al binario con la terribile sensazione che qualcosa stesse per andare storto, fortunatamente Aurelio arrivò dopo poco. La sola vista del suo amore aveva il potere taumaturgico di lenirle le ferite dell'anima, o almeno così Luisa amava pensare in un tripudio di banalità d'amore. In realtà dubitava che Aurelio avrebbe apprezzato un tale sfoggio di poeticità e non appena lo pensava si sentiva immediatamente inadeguata e la gioia di vederlo si tramutava nell'imbarazzo di non saper come agire. Aveva già usato gran parte del suo coraggio per porre ad Aurelio l'ultimatum che le aveva permesso di partecipare a questo viaggio, ora si sentiva come paralizzata. "Ehi Nenci che ti succede? Hai paura di me?" disse Aurelio divertito. Luisa si zittì per qualche secondo per poi farfugliare qualche parola: "N-no, no, sono un po'... stanca, sì." Aurelio ridacchio e cominciò a prenderla in giro, anche pesantemente, tuttavia Luisa non riusciva a sentire più nulla abbagliata dal solo fatto che Aurelio le rivolgeva la parola, cosa che la rendeva già immensamente felice dato il grado di attenzione che Aurelio le aveva riservato per i cinque anni di liceo. Dopo poco arrivarono anche gli altri. Mancava ancora un po' al treno ma il marciapiede del binario era già pieno di gente. Dopo tutte le emozioni degli ultimi minuti a Luisa era venuta davvero sete, con l'arsura in bocca cercò una bottiglietta d'acqua nella borsa ma non riuscì a trovarla. "Cerchi questa?" disse Marta che apparse a fianco a lei con un grande sorriso falso in faccia. "Ti è caduta prima, tieni!" concluse porgendole una naturale da mezzo litro senza etichetta. Quella sgualdrina voleva farla apparire una svampita, era vero era la sua bottiglia e probabilmente le era caduta prima ma era chiaro che voleva metterla in cattiva luce per fare colpo su Aurelio. Maledetta Ricci. Prese la bottiglietta senza ringraziare e diede una bella gollata. Si pulì la bocca mentre Marta la guardava un po' stranita per la sua reazione, poi si risedette sola sulla panchina mentre il resto del gruppo parlava concitato. Passarono ancora circa venti minuti quando il treno cominciò ad accendersi. La voce automatica annunciò che il treno era in partenza. Luisa si alzò dalla panchina. Poi, tutto cambiò. Inizialmente non capì cosa fosse successo, il mondo tutto intorno a lei le pareva diverso ma non sapeva dire come, come più ovattato, ma insieme a questo la mente improvvisamente le si aprì, fu come bere da una sorta di fiume della chiarezza. Durò un attimo, quello che era sufficiente per cominciare a vedere sotto occhi diversi chi gli stava intorno, poi tutto mutò nuovamente e Luisa cominciò a sentirsi come se stesse uscendo dal suo corpo mentre volava sopra la stazione osservando quegli stupidi dei suoi compagni di viaggio, ancora indaffarati in tali consumistiche e terrene preoccupazioni come un viaggio in Spagna.


Rassegna stampa


"Il Messaggero", Cronaca, 27 Luglio
Orribile strage a Roma Termini
COME IN AMERICA!
Scene di violenza straordinaria si sono consumate questa mattina a Termini dove una ragazza ha massacrato i suoi compagni di viaggio usando parti del suo trolley da viaggio. La capitale è paralizzata dallo scoppio di violenza che tanto ricorda le tragedie americane nelle scuole. Il papa interviene subito: "Lasciate che la violenza non si impadronisca delle vostre anime perchè è così che il Diavolo si avvicina a voi".




"La Repubblica ", Cronaca, 27 Luglio
Si consuma a Termini qualcosa di mai visto
STRAGE A TERMINI
Erano le undici di mattina quando L.N., una giovane abitante di Chiusi (SI), ha completamente perso il controllo delle sue azioni e ha ucciso i suoi compagni. Testimoni dicono di averla vista strappare a morsi l'apparato sessuale di uno di loro mentre rompeva il suo trolley per ricavarne un letale bastone di metallo.




"Corriere della Sera", Attualità 29 Luglio
Forse rituale satanico dietro la strage di Roma
UN SACRIFICIO UMANO NELLA CAPITALE
Gli investigatori stanno seguendo anche questa pista, le incisioni sui seni delle due ragazze vittime della terribile mattanza ricordano alcuni nuclei satanisti attivi soprattutto tra Umbria e alto Lazio. "E' una pista che teniamo in considerazione, per ora non possiamo dire di più" è l'unica dichiarazione del procuratore aggiunto incaricato del caso.




"Il Tempo", Attualità, 31 Luglio
La droga responsabile della strage alla stazione Termini
LA NENCI SOTTO ACIDO
L'autopsia lo ha confermato: Luisa Nenci, la giovane responsabile della strage e ora detenuta in un istituto psichiatrico in attesa del processo, era sotto un pesante mix di LSD e anfetamine. Traccie di droga anche nella sua bottiglia d'acqua, resta da capire se fosse un'abituale consumatrice di droghe.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
STORIE DI FAVA E DI SPADA
[Il testo sembra essere una raccolta di dialoghi realmente avvenuti tra alcuni avventori di una presunta Hostaria del Tallero, situata chissà dove, ed un non ben identificato “Signor Smargiasso”, temibile masnadiero sopravvissuto alle sue stesse malefatte che, giunto alla vecchiaia, si guadagnava da vivere tenendo vere e proprie lezioni di pseudo-tattica militare, contornate da bizzarri comizi su come sopravvivere ad una vita vissuta come se non ci fosse un domani. Non si sa quanto ci sia di romanzato o quanto sia attendibile la realtà storica che viene presentata nel testo, ma è probabile che Signor Smargiasso, o quantomeno l’autore, abbia partecipato in prima persona ad alcune delle battaglie citate, o perlomeno ne abbia raccolto testimonianze dirette.
Attualmente conosciamo due dialoghi, ma è probabile che ne esistano degli altri. Data la natura “pedadogica” della raccolta, il commentatore che collezionò questi testi decise di dividerli per paragrafi, a seconda della “lezione” impartita.]



- DIALOGO “PSEUDOLO”, CONOSCIUTO ANCHE COME “STORIE DI FAVA E DI SPADA”


1-LE BASI DELLA VITA TOSTA: ABBORDAGGI DA OSTERIA
“E così tu vuoi essere un duro? Non sei il primo a volerci provare, ragazzo, e probabilmente non ci riuscirai. Ma siediti qui, anzi, prendimi un mestolo di stufato, ed ascoltami bene, perché cercherò di immetterti sulla strada buona. O quella cattiva, eheh.
Quando avevo la tua età, avevo già ucciso tre uomini, due di questi perché mi avevano soffiato due donne: mia madre e mia sorella. Mio padre era un figlio di puttana, e lo fui anche io. Morì molto giovane, in un posto che nessuno ha mai avuto il coraggio di dirmi. Quanti anni hai detto che hai, ragazzo?”.
“Ho sedici anni, e mi chiamo Pseudolo”.
“Bravo, Pseudolo. Proprio a sedici anni, capii che mia madre era una puttana. Lo capii perché frequentavo anche io quell’ambiente già da qualche anno, e mia madre si comportava esattamente come loro. Gente che si presentava a casa a qualunque ora, letti sfatti e rifatti parecchie volte al giorno, profumi di unguenti che te lo fanno rizzare senza tregua per parecchie ore. Mia madre si lavava tre volte al giorno, capisci? Quale altro idiota farebbe una cosa del genere, senza un tornaconto? A proposito, Pseudolo, sei mai stato con una puttana?”.
“No, signor Smargiasso. Sono vergine”.
“Sei ver…che gli dèi mi taglino le palle se non ti sputo in faccia entro stanotte! Non ci siamo, ragazzo: DEVI andare a puttane, il più presto possibile. Si imparano troppe cose. Soprattutto, imparerai a non fidarti delle donne, a capire quanto mentono, e questo è fondamentale per sopravvivere, perché le donne sono la rovina di ogni tipo tosto. E ogni tipo tosto sa che ogni donna è un po’ una puttana, ognuna ha il suo prezzo: la vedi quella ragazza là, Giovannona? Te la puoi comprare, anche senza soldi: dopo che avremo finito qui, va’ da lei, congratulati per l’ottimo stufato, chiedile come si chiama, dalle una mano a pulire i boccali, fatti raccontare cosa ha fatto oggi, cosa fa nella vita, a cosa aspira; dille che sei un figlio di un mercante di brillocchi, che le sue mani sono sprecate nell’Hostaria, e che è un peccato che si rovinino con la soda, quando potrebbe fare da modella per gli anelli; dille che stasera dormirai qui, da solo, dalle il numero della stanza, e vedrai che quando rincaserai, te la troverai già pronta e calda nel letto”.
“Giovannona? Ma pesa il doppio di me!”.
“Meglio, Pseudolo, meglio! Le ragazze grasse sono proprio ciò che serve ad un novellino come te! Se riesci a gestire una balena come quella, puoi gestire qualunque cosa! Come credi che sia diventato uno sciupafemmine, eh? Infilzando stecchini? In ogni caso, stai tranquillo: Giovannona è una tipa navigata, e sa quello che vuole da un uomo. Anzi, prendi appunti mentre farà e ti chiederà determinate cose, che non ti dirò, per non toglierti la sorpresa. C’è bisogno anche di questo, le cose che ti prendono di sorpresa ti rimarranno più impresse nella zucca. Ricordati però, quello che ti dirò alla fine del mio racconto, perché ti saranno importanti per la fuga”.
“La fuga?”.
“Dovrai scappare prima dell’alba, ragazzo…cosa vuoi fare, portartela a casa, presentarla a tuo padre? Magari sposartela? Dovrai dartela a gambe, figliolo, e non farti vedere qui per un po’. Non ti sarà facile sfuggire alle grinfie di quell’orsa, quindi ascoltami bene. Sarà un ottimo allenamento per te”.
“Ma io non voglio…va bene, Smargiasso, riprendi il racconto”.


2-SBARAZZARSI DI CADAVERI IMPREVISTI
“Bravo. Insomma, dopo un po’ di tempo, capii che mia madre si bombava le persone a casa nostra, per soldi. Povera donna, senza il marito per così tanti anni…insomma, univa l’utile al dilettevole. Cercai di sopportarlo per qualche mese, ma ad un tratto sbroccai. La goccia che fece tracimare il vaso fu una serata molto storta, in cui persi tutto ciò che avevo, e anche qualcosa che non avevo, al gioco dei dadi. Non ero arrabbiato per il denaro in sé (ricorda che un tipo tosto non ha mai delle monete con sé, spende tutto appena può), ma per il fatto che quella sera non avevo potuto permettermi il servizietto della buonanotte dall’unica vera professionista del porto. Non servì a nulla neanche picchiarla, anzi, dovetti darmela a gambe levate per evitare le busse dei magnaccia. Ricorda una cosa, Pseudolo: picchiare le donne non serve a niente, a meno che la donna stessa non lo voglia. E una donna lo vuole almeno in sei giorni su sette”.
“Comunque, non perdiamoci in altre piccolezze: tornai a casa, devastato da un liquore di pessima qualità, e da un umore ancora peggiore. Mi fiondai sulla branda, sperando di addormentarmi nel tempo di un batter di ciglia, ma c’erano dei rumori che mi turbavano. Sentivo questi schiocchi, seguiti da gemiti che non erano di piacere. Sapevo riconoscere i gemiti di piacere da quelli di dolore, o quelli finti. Dovresti impararlo anche tu, ma ne riparleremo quando sarai andato a puttane almeno tre o quattro volte. Poi, dipende anche dalla qualità del tuo attrezzo”.
“Fatto sta che, dopo il ventesimo gemito, scattai come un rospo e mi precipitai in camera di mia madre, per cercare di farli smettere. Al diavolo i soldi, era notte già da un pezzo, poteva bastare per quella giornata. Trovai mia madre legata come una scrofa il giorno della festa di Vernonia, con uno straccio in bocca zeppo di saliva. Un tipo smilzo, brutto come la morte, ma davvero pietoso, e nudo come un verme, le stava sulla groppa. A pensarci bene, un po’ ti somigliava. Aveva una daga ondulata in una mano, ed un cilicio nell’altra. L’aveva riempita di tagli e segni strani, aveva la schiena che sembrava lo stufato che sto mangiando or ora. C’era anche un forte puzzo di piscio, forse anche diarrea. Mi avventai sul tizio, senza pensarci due volte, e cominciai a tempestarlo di cazzotti. Ebbe solo il tempo di urlare “Lei non sa chi-“ prima che, con due ganci ben assestati, gli feci saltare tutti gli incisivi. Mia madre mugugnava qualcosa, ma non si capiva niente, a causa del cencio. Ecco un’altra lezione importante per te, ragazzo: chi mena per primo, mena due volte, e chi perde tempo a parlare non è pronto per replicare. Se senti che non c’è altra soluzione al di fuori delle busse, fa’ in modo di sorprendere l’avversario con una furia senza pari, e probabilmente ne uscirai quasi illeso. Alla fine, decisi di strangolarlo…Fanculo, non mi aveva fatto chiudere occhio, e qualche soldo in più dal suo borsello mi avrebbe fatto comodo. Solo allora liberai mia madre, che mi fece una ramanzina che ancora ricordo…Neanche in guerra ho avuto così tante botte in così poco tempo, te lo giuro”.
“Saltò fuori che il tipo era un alto prelato di un culto molto importante, di cui non farò il nome, perché temo che mi stiano ancora dando la caccia da allora. Era un tizio così importante e ricco che ogni luna nuova poteva permettersi di pagare profumatamente per farsi picchiare, cagare e pisciare addosso, o di fare altrettanto all’eventuale puttana, a seconda di come gli erano andate le cose a lavoro. Insomma, avevo fatto un guaio a cui non c’era rimedio”.
“Passai l’intera nottata a fare a pezzi il corpo. Lo ridussi in pezzi minuscoli, grandi al massimo come il tuo bicipite. Insomma, passavano all’interno di una serratura, volendo. La mattina dopo, mi feci il giro dei macellai della città: vendetti più della metà della carne, quella buona, ai bottegai, il resto lo sbolognai al mercato, a qualche poveraccio più disperato di me, per pochi spiccioli. Le parti invendibili, come le dita, gli occhi, il naso, finirono nello stomaco di alcuni botoli rognosi che bazzicavano il mio quartiere: per liberarmi della testa, aspettai la notte successiva: dopo averla prontamente sfigurata, riempii la bocca di sassi, la accartocciai in un fagotto, presi in prestito una barca a remi, e la gettai in mare a mezzo miglio dalla costa. Ecco qui risolto il problema. Sono stato chiaro, Pseudolo? Hai preso appunti mentali? Vuoi che te lo ridica più lentamente?”.
“No no, signor Smargiasso, è tutto…molto chiaro. Chiarissimo”.


3-SOPRAVVIVERE ALLE SCARAMUCCE
“Bravo, ragazzo. In ogni caso, lo schifoso, che di solito indossava collane e monili pesanti quanto il mio pugno che si abbatte sul tuo capoccione, non aveva con sé granché; forse, quando veniva da mia madre, preferiva non metterli in mostra, per evitare di essere riconosciuto. Ciononostante riuscimmo a racimolare un bel gruzzolo, tra i soldi che aveva con sé e la vendita di un paio d’anelli, degli arnesi che usava per picchiare le puttane, e tre o quattro denti d’oro che gli estrassi prima di gettarlo in mare. Feci la bella vita per un po’, prima che qualcuno cominciò ad accorgersi della sparizione del tipo, e a preoccuparsi più del dovuto. Fu allora che, dopo l’ennesima notte di bagordi, trovai le mie poche cose raccolte in un borsone, sull’uscio di casa, assieme a mia sorella. Fu essa stessa ad informarmi che dovevamo levare le tende dalla città, perché mi stavano cercando. Con i soldi residui e le sue buone conoscenze, la mamma ci aveva trovato un posto lontano, in un monastero situato in un luogo di culto. Dovevamo partire la notte stessa, c’era una nave che ci aspettava al porto. Da allora, non ho più visto mia madre”.
“Cosa c’entrava tua sorella col viaggio?”.
“Cosa c'è, pusillanime, vuoi ritrovarti con questo piatto infilato in bocca? Non parlare male di mia sorella. Mia sorella era una brava ragazza, lavorava come apprendista da una sarta. E si vedeva, di nascosto, con un tipo, un fallito che sapeva addirittura leggere, e studiava i libri, uno squattrinato peggio di me. E di te”.
“Potrà sembrarti strano, ma colsi al volo l’occasione di alzare i tacchi. Anche perché, nel giro di pochi giorni, mi ero fatto così tanti debiti, tra puttane e gioco, che se avessi davvero avuto quei soldi, avrei potuto acquistare il castello di Grulnach con tutti i cortigiani. Afferrai la mia roba e mia sorella, e mi incamminai guardingo verso il porto”.
“Fu allora che saltò fuori quel parassita. <<Non ti lascerò andare via con questo farabutto, Dulcinia! Pagherò con la mia stessa vita, se necessario, il prezzo del nostro abbandono…non posso più vivere senza di te, tesoro!>>. Disse una cosa del genere, presa da chissà quale stupido racconto per donnicciole, e sguainò una bella spada, che aveva forse preso da qualche residuato bellico che decorava la biblioteca dove lavorava. Io ero disarmato”.
“Non mi dirai che l’hai ammazzato a mani nude?”.
“Assolutamente no, infido marmocchio. Vuoi stare un po’ zitto? Ascoltami bene, perché sto per darti una bella lezione, anche se, ahimé, non nel senso più violento del termine. Quasi sicuramente t’immagini che guerre e scaramucce si combattono con armature scintillanti, armi affilate e martelli nuovi di zecca…non esiste cazzata maggiore! Ho ucciso la maggior parte della mia gente con utensili da lavoro, spade arrugginite, martelli senza manico, e pugnali spuntati, ed i miei avversari combattevano con le mie stesse armi. Prima di cominciare la schermaglia, tieni un occhio sul viso del tuo nemico, per capire se si tratta di uno che ci sa fare o di un disgraziato che se la sta facendo addosso più di te, ma soprattutto esamina bene l’arma con la quale potresti essere ucciso, e carpiscine velocemente i punti deboli: molto spesso conviene più puntare alla spada, che al petto del rivale. Chiaro no? Ordunque: notai subito che quel brando non vedeva il campo di battaglia da almeno trent’anni. La lama, mangiucchiata com’era, non avrebbe tagliato neanche il burro, mentre la punta era ancora temibile. La cosa più interessante da osservare, però, era il suo ondeggiare innaturale: più che ondulare, la lama tremava, segno che l’attacco all’elsa aveva bisogno di qualche colpo di martello, o di una sistematina alle giunture. Mi guardai subito attorno, approfittando dell’attimo di distrazione fornito da mia sorella, che tentava di dissuadere l’amato dal commettere simili pazzie: sulla banchina c’era qualche cassa vuota, una trave ed un secchio che puzzava di pesce, pieno di strani liquami. Afferrai il secchio, e mi lanciai a testa bassa contro l’imbecille: scostò mia sorella ed afferrò la spada con entrambe le mani, per fronteggiarmi. A pochi metri da lui, tentai di colpirlo con l’acqua sudicia del secchio, e riuscii a colpirlo in pieno viso! Accecato dalla disgustosa mistura, il verme cominciò a tirare fendenti a destra e a manca, nel tentativo di sbudellarmi: uno di questi mi colpì all’avambraccio sinistro, posto a protettore del torace; le mie previsioni sull’usura della lama si rivelarono esatte, dato che si limitò a causarmi una ferita superficiale. Ne approfittai per afferrare la lama con l’altra mano, e tirare, dando fondo a tutta la forza che avevo in corpo. Un paio di strattoni ambo i lati, ed il cretino si ritrovò con la sola elsa in pugno! Approfittai del corpo a corpo per pugnalare il bastardo con quello che avevo in mano: la punta, acuminata, lo trapassò. Scappai di corsa, lasciando il mangia libri alle urla di mia sorella. Entrambe le braccia sanguinavano, ma meglio le braccia che mezzo metro di intestino lasciato sul selciato, no? Ricorda anche questo, ragazzo: le braccia guariscono, le budella no. Alla fine, dunque, giunsi alla nave, e partii da solo”.


4-FARSI STRADA A COLPI DI PENNACCHIO
“Come hai fatto a curare le ferite? Gli altri della nave non ti han detto nulla?”.
“Ottima domanda, Pseudolo. Il capitano già sapeva con chi aveva a che fare, e preferì non chiedermi nulla, anche perché l’oro parlava per me. Per guarire le ferite, usai il metodo migliore che ogni uomo tosto conosce: l’alcool. Mi misi subito alla ricerca di un barile di liquore, e, una volta trovato, vi immersi entrambe le braccia. Urlai come se mi stessero strappando via la pelle con un cavatappi. Un po’ sulla ferita, un po’ in bocca, ed il viaggio durò il tempo di una sbronza”.
“Una volta giunti, mi scaricarono a pedate fuori, con un pezzo di carta da consegnare ad una signora del famoso monastero. Il problema maggiore consisteva nel fatto che io dovevo essere l’accompagnatore di una ragazza, mia sorella appunto, che doveva entrare nell’ordine: si trattava di un collegio di sacerdotesse vestali, ma non capii mai cosa dovessero fare. Insomma, volevano mettermi alla porta, ma puzzavo, avevo vistose cicatrici, barcollavo: pensavano che fossi malato, e mi accolsero all’interno per curarmi. Dopo qualche giorno, decisero di darmi una possibilità, e mi misero a lavorare assieme al contadino. Io, che al massimo avevo fatto crescere lividi sulla faccia della gente, mi ritrovai a far crescere erbacce ed ortaggi vari, che servivano alle maledette sorelle per chissà quale lavoro”.
“Beh, semplicemente li mangiavano, no?”.
“Hai mai visto qualcuno mangiare erba scura alta mezzo metro, o frutti spinosi, o bulbi neri, schifati persino dalle capre? No, Pseudolo, c’era qualcos’altro dietro. C’era una storia misteriosa, una prospettiva di ricchezza, ed il mio istinto da uomo duro non ha mai fallito, neanche a sedici anni. Altra perla che ti do, caro il mio porcellino smilzo: se senti odore di affari, buttati! Nessun uomo tosto si è mai tirato indietro…almeno, non senza averci provato”.
“Ti dico subito che il monastero pullulava di sacerdotesse che, secondo il loro culto, dovevano essere vergini, per mantenere lo spirito della divinità attivo. Già, proprio come te. Inutile dire che queste sgallettate zampettavano come cardellini non appena mi vedevano passare nell’orto, sia che mi limitassi a potare qualche ramo a caso, sia mentre i miei possenti bicipiti strappavano via le erbacce che soffocavano i misteriosi bulbi. fiutavano il profumo di virilità che contraddistingue il maschio tosto, che sono e fui, ma non mi interessavano le giovani virgulte: io volevo puntare alla Madre Superiora, che avevo di rado visto sfrecciare con superbia tra i portici del monastero. Lei sapeva sicuramente tutto ciò che mi serviva per cavar soldi da quell’anfratto pullulante di mestruo. Già sapevo come fare, cosa che tu sicuramente ignori: ed è qui che arriva la nuova lezione che il Signor Smargiasso ti dà in pasto. Ricorda: se vuoi una donna, non devi mai puntarla direttamente. Con le donne non funzionano gli approcci diretti, a meno che tu non sia certo che lei ti voglia, ma non è questo il caso. Devi girarle attorno, passando di tappa in tappa, di donna in donna, tra quelle che la circondano, fino ad avere abbastanza materiale e sicurezza da affondare il colpo. Avrai un solo colpo a disposizione, giovanotto, e non puoi permetterti di sbagliare: devi sapere come si muove il pesce grosso dello stagno, perché se si accorge dell’inghippo, non lo beccherai più. Insomma, cominciai dalla base, ed adescai le più giovani e facili ragazze. Ovviamente mi era proibito avvicinarmi alle sacerdotesse e parlare con loro, e quando io lavoravo, non doveva esserci nessuna nell’orto, ma si sa che un po’ tutti se ne fregano delle regole, specie quando c’è di mezzo il baffuto”.
“Il baffuto?”.
“La fava, Pseudolo. Dannazione, ma neanche le basi? Dove sei stato in tutto questo tempo, a casa ad accudire i cavalli? Ti ho già detto che le ragazze erano così su di giri, in quell’ambiente tutto femminile, che potevano sentire l’odore del mio pennello da venti metri, e bastava uno sguardo per farle sciogliere. Tutto troppo facile. Dopo un sano gioco di ammiccamenti e dimostrazioni di virilità, furono loro a venire da me. Anche due alla volta. Ma non credere che basti intingere il biscotto, ed aver risolto, ragazzino! Devi essere bravo, altrimenti la fringuella non si scioglie, e non può esserti utile. Ce la fai a stantuffare per almeno mezz’ora?”.
“Me-mezz’ora? Non lo so, Signor Smargiasso, sono vergine…”.
“Ah, già. Dimenticavo di avere a che fare con simile poltiglia. In ogni caso, ragazzo, fare l’amore è un po’ come muovere un burattino: devi prestare attenzione a tante cose contemporaneamente, e devi fare attenzione a come muovere i fili, perché, tirando un cavo, puoi muoverne un altro, e viceversa. Non devi dare il massimo, quasi mai, perché altrimenti ti bruci come una candela fatta di zolfo. Si tratta di dosare forza, attenzione, parole, sguardi, sino a creare un equilibrio. E devi anche cercare di capire cosa vogliono, perché quelle troie non te lo diranno mai chiaramente: devi percepire ogni singolo ammiccamento, spostamento di bacino, tentativo di tirarti su o buttarti giù, dato che lo fanno sempre con una maledetta delicatezza. Perché il tipo tosto è anche questo! Come diceva un mio amico, vola come una farfalla, colpisci come un calabrone, e vedrai che non topperai. Se le cose vanno bene, te ne accorgerai, perché torneranno per averne ancora. Devi essere l’uomo che non chiede mai, Pseudolo, non un fottuto ragazzino che si sfascia il manico nel buio della notte! È una maledetta relazione di dare e ricevere: in cambio di un po’ di piacere, facevo parlare queste civettine: e quando hai la testa nello zucchero, ed il culo farcito di sbobba, dici cose che non dovresti dire, e fai cose che non dovresti fare”.


5-LA SINDROME DELL’INFERMIERA
“Nel giro di un mese riuscii a fidelizzare cinque o sei gattine, e cominciai a chiedere informazioni sui frutti, sui rituali della dea, insomma, cose così. Non tutte parlarono. Eh sì, ragazzo, ci sono anche i fallimenti, nonostante le cose ti siano parse buone! Tu, di certo, ne sai più di me a riguardo. Ma non devi demordere, mai. Venni a sapere che i frutti del mio lavoro venivano benedetti e poi portati nelle cantine, non sapevano di più. Venni a sapere che il monastero si finanziava da solo, non riceveva soldi da superiori, che forse neanche esistevano. E venni a sapere che, ogni sette giorni, arrivavano dei tizi nerboruti che portavano via delle misteriose casse, di cui nessuno conosceva il contenuto. Era un buon inizio, ma era comunque troppo poco. Dovevo passare al livello successivo, ma dovevo anche sapere chi o cosa puntare. Cominciai, lentamente, a bazzicare nei pressi degli scantinati, nella speranza di carpire qualcosa. Riuscii a farmi assegnare quella zona dal vecchio per cui lavoravo, e lo facevo lentamente, di modo da accumulare giorni, ed eventuali possibilità. Finalmente, mi ritrovai davanti i tanto agognati nerboruti, che trafficavano con le altrettanto agognate casse. Alcuni grassi sacchetti, che tintinnavano come il salvadanaio del principe di Snafuz, pendevano dalle cinte di quattro sacerdotesse di mezza età, che dovevano essere le caporione della situazione. Fu in quell’istante che scattò il mio genio: ricordati, ragazzo, che essere tosto non vuol dire per forza essere inflessibile; anzi, alcune volte una sconfitta è necessaria per ottenere una vittoria maggiore. Devi essere malleabile come l’acqua, Pseudolo, e rapido come la scarlattina; rapido di cervello e di pugno, di cervello e di pugno! Non di pugnette, perdinci!”.
“Insomma, per farla breve, approfittai dell’arrivo di questi energumeni per fare un po’ di caciara. Casualmente urtai uno dei tipi con una pertica che usavo per far cadere le nocciole, invece di scusarmi inveii contro di lui. La cosa degenerò velocemente in una rissa. Nonostante fossi armato, i tipi arrivarono velocemente alla mia faccia, e mi gonfiarono come una vela col vento a favore. Ti sembrerà che io abbia fallito, giovane infingardo, e invece tutto era andato come avevo previsto: tra lo sconcerto delle sacerdotesse superiori, quei primati mi abbandonarono in una pozza di sangue e bava, blaterando che non avevano tempo da perdere con un ragazzino. Una di queste superiore mi venne in soccorso, e si prese cura di me. Clic! Avevo attivato il suo istinto materno, Pseudolo! Capisci? Questo funziona sempre con le tardone, specie le più pure di cuore: suscita in loro un po’ di pena, e nel giro di poco tempo ti troverai un’infermiera al tuo servizio. Mi prese subito in simpatia, e cominciò a prendersi cura di me; nel giro di un paio di settimane, dopo essermi rimesso in forze, le feci capire che finalmente ero in salute, MOLTO in salute, e non si può dire di no ad un pennacchio in salute come il mio, specie quando non ne vedi uno da vent’anni almeno. L’ospitaliera divenne amante, e ben presto mi inserii ancora di più nelle serrate maglie degli affari del monastero: seppi che i frutti e le erbacce che coltivavo, dopo alcuni rituali, venivano utilizzati per creare un forte liquore, che aveva degli effetti notevoli sui corpi di chi ne beveva. Il monastero vendeva a caro prezzo questi elisir, che venivano comprati da alcuni signori della guerra per aumentare la forza e la tenacia delle proprie truppe durante gli assedi. Roba tosta, insomma. Col tempo, riuscii anche a farmene portare alcuni assaggi, e ti giuro, rospetto mio, che bere quella roba è un po’ come succhiare il latte dalla tetta di Gratia Plena”.
“Capirai che non potevo andarmene da lì a bordo di una botte: sarebbe stato folle e, nel caso ci fossi riuscito, poco remunerativo. Avevo bisogno di qualcosa in più, ma la mia ancella non poteva aiutarmi ulteriormente: le Superiore svolgevano solo mansioni fisiche, ed aiutavano la principale nella messa del liquido nelle botti, ma non conoscevano né le dosi esatte, né la procedura corretta per realizzare questo portento. Addirittura, alcune superiore avevano provato a realizzare una loro mistura, basandosi su alcune piccole informazioni che erano riuscite a carpire, ma i risultati non furono soddisfacenti. Non mi restava che puntare al pesce grosso: ottenni alcune importanti informazioni dalla mia diletta che mi aiutarono a tracciare un quadro della situazione. La Madre era una donna sulla cinquantina, non brutta, ma arida come il deserto di Gonnlom, e fredda come un vecchio avvocato. E superba, tanto superba. Era inavvicinabile a tutte le sacerdotesse, persino le superiore trovavano difficoltà nel rintracciarla, quando non erano richieste le loro mansioni. Ma io non ero solo, nella mia battaglia. Potevo contare sull’aiuto di quasi tutto il monastero, ed avevo già un piano in mente”.


6-TRATTARE CON DONNE ARIDE
“Infimo Pseudolo, devi capire che quando devi trattare con questo tipo di donne, non c’è fava o pugno che tenga. Non puoi entrare in camera, spaccare tutto, e violentarla sulla scrivania, non servirebbe a nulla. In effetti, sarebbe un comportamento tosto, ma non sarebbe un comportamento remunerativo. Non puoi forzare un cambiamento di atteggiamento, deve essere una cosa che parte dall’interno della stessa persona…ci sono, però, dei metodi per forzare questo cambiamento. Dunque, dove non arriva la fava, né il pugno, arriva…la droga”.
“Durante una delle mie sortite col vecchio contadino mi procurai un potente anestetico per cavalli, ed un’altra brodaglia che serviva per indurre alla fertilità le capre. Tentai di creare un mix di queste droghe, che mi permettesse di sciogliere il cuore della vecchia. Feci alcuni esperimenti con le pulzelle che venivano a trovarmi di notte, per trovare la giusta combinazione…perdinci, per poco non ne ammazzai una! Dopo un paio di settimane, ottenuto un risultato soddisfacente, mi procurai, tramite la mia superiora preferita, informazioni dettagliate sui rituali necessari per la creazione dell’intruglio, quando, dove e come avvenivano; mi fu utilissimo sapere che la Madre, prima di benedire i frutti del raccolto, beveva da un calice benedetto del vinaccio che poi cospargeva su un altare, o una cosa del genere, ora non ricordo i dettagli, ma insomma, BEVEVA, e questo era ciò che mi serviva. Proposi ad una pulzella un rapporto bizzarro, pericolosissimo, all’interno della Sala del Rito, il luogo dove venivano custoditi il famigerato calice ed altri arnesi sacri utili alle cerimonie: il gusto del proibito le fece rizzare tutti i peli che aveva sotto l’ombelico, e quasi non ci vide più. Mi lasciò una finestra aperta, prima di andar via, per permettermi di intrufolarmi, di notte; giunsi qualche ora prima dell’appuntamento, e cosparsi il calice con l’unguento che avevo preparato. Poi, ovviamente, cosparsi di seme anche la vestale, ma questi sono particolari che dovrebbero sembrare ridondanti, data la tostezza del soggetto. Devi notare, caro il mio Pseudolo, che tutto ciò avvenne in estate.”.
“È importante?”.
“Certo che lo è, scarto di letto che non sei altro! L’estate è la stagione delle malefatte, perché fa caldo, e quando si ha caldo si lasciano le finestre aperte, almeno di giorno. La finestra è il miglior amico del tipo tosto, ragazzo: dove c’è una porta chiusa, c’è sempre una finestra aperta, se il periodo è quello giusto. Insomma, attesi che tutte le sacerdotesse furono riunite nella Sala per lo svolgimento del rituale, e ne approfittai per intrufolarmi nella camera della Madre. La camera si trovava a dieci metri d’altezza. Non fu facile, ma esiste un modo di guadagnare che lo sia? No, bamboccione bello. Insomma, scalai la torretta, sgattaiolai nell’antro, e cominciai a frugare in giro, con discrezione, rimettendo tutto come l’avevo esattamente trovato, per non dare nell’occhio, ma non trovai niente di interessante. Solo strani alambicchi, ed un mucchio di scartoffie”.
“Beh, non sapevi leggere, cosa volevi trovare?”.
“Pseudolo, sai leggere?”.
“…No”.
“E non imparare mai a farlo. I tipi tosti non sanno leggere. MAI. I libri ti rammolliscono”.
“Certo, Smargiasso”.
“Bravo. Insomma, dopo qualche minuto di ricerca infruttuosa, fatta eccezione per qualche moneta che intascai senza pensarci mezza volta, decisi di nascondermi sotto l’enorme letto, ed attendere l’arrivo della Madre. Passarono alcune ore, prima che la stessa aprì la porta. O meglio, furono due delle Superiore a farlo, dato che la vecchia non si reggeva in piedi. La sbatterono sul materasso, e se ne andarono bofonchiando qualcosa, anche perché la Madre le cacciò in malo modo, dicendo che voleva essere lasciata sola. Attesi che la signora cominciasse a russare, prima di agire. Ascoltami bene, perché questa pratica potrebbe tornarti utile più e più volte, in varie situazioni”.
“Ricordi che con le donne non si punta mai direttamente al sodo? Bene. Cominciai ad accarezzarle delicatamente, MOLTO delicatamente le gambe. Un tocco soave, leggerissimo, la sfioravo appena coi polpastrelli. Il mio lavoro fu facilitato dal fatto che la Madre si fosse addormentata a gambe aperte. Su e giù, su e giù, salendo con lentezza, verso la coscia. La donna ondeggiava appena, ma aveva smesso di russare. Una volta giunti alla coscia, il tocco divenne più deciso. Usai tutte le dita, poi le intere mani per esplorare le cosce ancora sode di una donna che camminava spedita per tutto il giorno. Le tornivo i muscoli, come se dovessi fare un vaso con l’argilla, cercando di farle distendere le gambe, di allentare la sua tensione, con lenti circoli. Le gambe divennero molli come pasta frolla, tra le mie mani. La Madre non accennava al risveglio, ma il suo respiro era diventato pesante, carico a tratti di flebili vocalizzi. Dalle cosce, passai al basso ventre. Fu un attimo: non appena le sfiorai il sesso, la Madre sussultò, inarcò la schiena, ma non diede cenno di svegliarsi. Ben presto si abituò ai miei massaggi ondulatori: la mano afferrava la sua rosa, ma senza brandirla: con la stessa delicatezza con cui custodisci un cucciolo, cominciai ad alternare colpetti infinitesimali con le varie dita, sulle labbra e sul clitus, mai nello stesso punto. La balorda mugugnava di piacere come una giovenca: attesi che fosse ben madida, prima di infilarle un paio di dita dentro. Nel frattempo, con l’altra mano, quasi inconsapevolmente, ero passato a toccare me stesso: mi si era fatto duro come il diamante, e non ce la facevo più. Fu quando estrassi gentilmente le dita, che la Madre aprì gli occhi. Si trovò davanti me, il mio drago purpureo che la puntava, e non ebbe il coraggio di dir nulla. La possedetti su quel letto per almeno un’ora, fu una delle sbomballate più belle della mia vita”.
“Lo sai come si dice, bifolco? Che una volta aperta una breccia, nelle mura, la città è ormai conquistata. La signora, dopo aver provato l’ebbrezza del grifone, non poté più farne a meno. Ma era una donna prudente, e mi ci volle più di un mese di prestazioni al di sopra della media per ottenere ciò che volevo sapere. Fu una missione che richiese il massimo grado di tostezza, in tutti i sensi. Per fartela breve, la Madre mi confessò che prima di essere sacerdotessa, era alchimista: sfruttò la posizione di potere nel monastero, e le sue competenze, per ottenere ricchezza. Lei stessa ammise che il rituale era solo una facciata, uno stratagemma che serviva a convincere le altre sacerdotesse che solo la Madre poteva ottenere il liquore sacro. E invece…diamine, bastavano quei quattro alambicchi e il lavoro di qualche disgraziato per ottenere soldi facili. Nei mesi successivi, nelle notti d’inverno, ci amammo persino nei luoghi a cui era garantito accesso solo a lei: negli scantinati più bui, dove si trovavano gli impianti di produzione. Lì mi mostrò le scartoffie con i suoi studi, le sue ricerche, le sue prove, fino a giungere alla formula perfetta. Lei era troppo orgogliosa per non condividere i suoi successi con il tizio che se la sbatteva. Finalmente, mi sbatté in faccia quello che cercavo da mesi”.


7-LA FUGA
“Scommetto che le hai dato un pugno, e sei scappato via con le pergamene. È così che fanno gli uomini tosti, no?”.
“No, somaro impenitente. Così fanno gli stupidi. I tipi tosti sanno come far calare il sipario senza beccarsi la pioggia di ortaggi. Bisognava andarsene di lì senza destare il minimo sospetto, la Madre era una donna potente, e non ci avrebbe messo molto a farmi rintracciare ed ammazzare, o peggio. Ricorda, Pseudolo: l’unica cosa peggiore di una donna incazzata nera, è una donna incazzata nera e potente abbastanza da farti inseguire dallo stesso Maccus. Ma io avevo un piano. Ascolta il piano del maestro”.
“Ormai avevo l’intero monastero ai miei piedi, e sapevo quando, come e dove muovermi. La notte prima del giorno delle consegne, mi insediai nella camera, e ricopiai tutte le iscrizioni che c’erano su nuovi rotoli, che nascosi accuratamente sul mio corpo. Dopodiché, diedi fuoco agli originali, e corsi come se avessi il diavolo stesso alle spalle. La stanza era piena di schifezze che, a contatto con il fuoco, esplosero, e divampò un incendio immane. Le botti da vendere erano fortunatamente lontane dal luogo del disastro: ben prima della notte, mi premurai di aggiungere ad esse un’altra botte, vuota, in modo che non destasse sospetti. Nel trambusto generale, afferrai un paio di sacerdotesse, le più stupide che ricordavo, e dissi loro che avrei provato a spegnere l’incendio da solo, in attesa dei soccorsi. Mentre quelle oche scappavano e starnazzavano, andai a nascondermi all’interno della botte cava, e lì vi passai tutta la notte. Nonostante il disastro, la Madre non venne meno alla sua avidità. Il giorno dopo gli energumeni giunsero, e caricarono le botti, con me all’interno. Fui abbastanza prudente da stipare delle provvigioni all’interno della botte, dimodoché potessi mangiare e bere qualcosa durante il viaggio. Queste provviste mi salvarono la vita, dato che stetti rannicchiato in quella botte per parecchi giorni, fino ad arrivare alla destinazione: l’accampamento di guerra del Duca di Mercalli. Il Duca apprezzò molto la mia visita: con le formule per crearsi la brodaglia da solo, le sue casse non poterono che ringraziarmi. Come premio, mi rese ufficiale nel suo esercito, che proprio allora era impegnato nel faticoso assedio alla città fluviale di Rontirri. Avrei preferito un bel gruzzolo, ma avevo rischiato già troppo finora, e non mi andava di far arrabbiare un altro pezzo grosso. Anche perché, se non avessi accettato, sarei stato ucciso seduta stante, accusato di tradimento, o altre menate del genere. Fu così che cominciò la mia carriera di masnadiero”.
“Ti è chiaro il concetto di fuga, adesso, Pseudolo? Devi avere un piano per scappare. Puoi provare ad improvvisare, ed i tipi molto tosti riescono a salvarsi lo stesso, ma non mi pare che sia il tuo caso. Ricorda sempre che anche nelle fortezze più inespugnabili, c’è sempre qualcosa che entra, e qualcosa che esce: bisogna trovare queste cose, ed accodarsi alla propria scia. Ricorda inoltre, che è più facile evitare di dare nell’occhio, quando tutti sono occupati a fare qualcosa. Qualcosa come scappare, ad esempio”.
“Credo…credo di aver capito”.
“E me lo auguro ragazzo, perché stanotte ne avrai bisogno. Mi raccomando però, che non ti venga in mente di dar fuoco all’Hostaria del Tallero! Dato che sarò qui ancora per qualche notte, morire per mano di un ragazzino, dopo tutto quello a cui sono sfuggito, sarebbe il colmo dei colmi! Per ora abbiamo chiuso, ora datti da fare”.
“Aspetta un attimo, Smargiasso…all’inizio avevi detto di aver ucciso tre uomini. Chi è il terzo?”.
“Quella…quella è un’altra storia. Te la racconterò quando tornerai, se riuscirai a fare ciò che ti ho detto. Ora è il tuo turno. Ehi, Giovannona! Vieni un po’ qui!”.
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
IL CURIOSO SMOKING DI MR. CAVENDISH

Oliver Cavendish era un signore sulla settantina, bianco, alto e decisamente magro; il passo un po’ incerto, tipico delle persone la cui statura sembra ergersi ben oltre i limiti stabiliti dalla propria coordinazione. Il viso era decisamente scavato, abbronzato, la pelle sembrava la buccia di una mela avvizzita; numerosi i solchi su di esso, rughe d’espressione decisamente marcate, in particolar modo sulla fronte, dalla quale si dipanava una spianata, incoronata dai rimasugli di quello che un tempo doveva essere un fascinoso groviglio di riccioli dorati. Un bell’uomo, per la sua età, non fosse stato per quello sguardo così assente che lo condannava ad una certa aria un po’ stupida.
I bambini che frequentavano la biblioteca lo prendevano quasi sempre in giro, ma sempre a bassa voce e stando bene attenti a non farsi sentire, perché anche se quei due zaffiri spenti non tradivano alcuna cognizione della realtà, le orecchie – per quanto piccole – potevano funzionare ancora a dovere, per quanto ne sapevano. A voler ben vedere, a far ridere i marmocchi non era tanto l’aria ebete dell’uomo, quanto il contrasto piuttosto stridente di questa con il suo abbigliamento. Oliver infatti indossava sempre, ogni santo giorno, uno smoking: sembrava gliel’avessero cucito addosso, non c’era un solo centimetro di tessuto fuori posto. I risvolti a punta di lancia di raso nero, doppio petto a due bottoni, il papillon ben allacciato, la plissettatura bella in ordine, i bottoni di madreperla in pendant con i gemelli; i pantaloni su misura, le scarpe impeccabili: era elegantissimo. Ed era anche un mistero cosa ci facesse sempre così vestito, di giorno, pulito e profumato, tutti i santi giorni, nella biblioteca di Tallahassee, Florida.
Qualcuno sosteneva fosse matto, che gli fosse dato di volta il cervello dopo un grave incidente o qualcosa del genere; altri invece, più sospettosi, ritenevano che fosse un gran volpone, di quelli che si nascondono dietro a una maschera da imbecille per poter agire indisturbati, e quindi ne avevano un po’ paura sebbene, questo va detto, aveva l’aria più mite che si possa immaginare. I bambini invece, più semplicemente, lo credevano un po’ tocco, e se la ridevano di gusto ogni volta che compariva in fondo al vialetto, così elegante e con quella sua andatura così goffa.
Ogni mattina Oliver entrava in biblioteca e prendeva a prestito uno dei volumi della Ricerca del tempo perduto di Proust, sprofondava nella sua poltrona preferita (che quasi per magia trovava sempre libera) e si immergeva nella lettura per un paio d’ore. Qualche volta capitava che si addormentasse un poco, per qualche minuto, ma senza mai russare, e quando si svegliava sembrava saper ritrovare immediatamente l’esatto punto in cui aveva interrotto la lettura. E quando concludeva, riconsegnava il volume alla signorina Babatunde-Higgins, la corpulenta bibliotecaria di colore, sempre con fare affatto affabile.
Nemmeno la gioconda impiegata però avrebbe saputo determinare il criterio (ammesso che ce ne fosse uno) secondo il quale il signor Cavendish sceglieva, di volta in volta, un determinato volume piuttosto che un altro. E questo non perché non ci badasse, anzi: la donna, attenta osservatrice ma soprattutto portatrice sana di un’avida curiosità, nutriva un interesse rimarchevole nei confronti di un personaggio così enigmatico come quel vecchietto costantemente infiocchettato nel suo smoking, eppure non era in grado di trovare uno schema logico che fosse in grado di predire quale volume avrebbe richiesto Oliver la volta successiva.
Nella tarda mattinata di un torrido 26 agosto del 1989, il signor Cavendish si presentò al banco della signorina Babatunde-Higgins e chiese di poter prendere in prestito Il tempo ritrovato.
– Sono profondamente desolata mr. Cavendish, ma l’intera Recherche non è al momento disponibile.
– Abbiate pazienza, miss Marie Claire, temo di non avere inteso. Esattamente cosa significherebbe che “non è al momento disponibile? – replicò, non piccato ma certamente sorpreso Oliver.
– Significherebbe che qualcun altro ha preso a prestito tutti e sette i volumi dell’opera.
– Significherebbe anche che io non abbia alcunché da leggere stamani, e presumibilmente anche per diversi giorni a venire.
– Presumibilmente.
– Presumibilmente.
– Già. A meno che non vogliate considerare l’idea…
Il signor Cavendish, anticipando l’aberrante obiezione secondo la quale una biblioteca è stracolma di libri da leggere, strabuzzò gli occhi, che per via del loro essere così incavati, diedero luogo ad un effetto tra il bizzarro e l’improbabile: la cosa non sfuggì di certo a Marie Claire Babatunde-Higgins, l’interezza del cui nome, peraltro, travalicava problematicamente i ristretti limiti del cartellino di identificazione del personale della biblioteca. Sul suo viso baluginò dunque l’ombra di un sorriso che, pur non volendo essere di scherno, di fatto era poco meno.
L’anziano non mancò però di notarlo, ed ecco che pose (con un gesto non privo di una certa teatralità) entrambi i palmi delle mani sul banco, sporgendo il capo in avanti e andando così a caricare su di essi gran parte del proprio esiguo peso, per poi concludere la sua brevissima ma incisiva pièce fulminando la quarantenne con quei suoi due piccoli zaffiri tondi: – Abbiate nuovamente pazienza, miss Babatunde-Higgins, ma vogliate considerare il mio interesse particolare verso l’opera in questione.
Dal canto suo, la bibliotecaria non poté non notare il coup de théâtre, ma soprattutto il fatto che per la prima volta in tutti quegli anni si rivolse a lei chiamandola per cognome anziché per nome: non si vergognava così tanto da quando anni addietro la madre la sorprese in bagno con le mutandine calate ed una zucchina insaponata tra le mani, quindi decise (oltre ad arrossire, ma quella non fu una decisione) di cercare di rimediare in qualche modo. «Se volete», disse con una certa servilità, «potrei indicarvi chi l’ha presa in prestito». «Anche se non potrei», aggiunse abbassando la voce, «ma dato che il signore è ancora qui potreste approfittarne, possibilmente fingendo di aver casualmente notato da voi la cosa».
Al sentire queste parole, il vecchio riprese una postura composta ed invitò l’impiegata a fare quanto detto, la quale immediatamente provvide. Si trattava di un giovane sulla ventina, bianco e pallido, sudaticcio per la calura della giornata agostana, seduto ad uno dei banchi per la lettura: a voler ben vedere era uno dei pochi utenti della biblioteca quella mattina, e tra quei pochi era di certo l’unico con sette volumi dello stesso autore poggiati sul tavolo. In effetti Oliver avrebbe potuto individuarlo facilmente anche senza la complicità della bibliotecaria, ma il suo volto mostrava chiaramente che non stava facendo nulla per nascondere un certo compiacimento legato al teatrino di poc’anzi.
Si mosse con passi rapidi e straordinariamente coordinati, rispetto alla sua usuale andatura, dal bancone al ragazzetto: questi ebbe solo il tempo di alzare lo sguardo verso il vecchio, ma non credette ai suoi occhi quando lo vide sbottonarsi la giacca ed estrarre da una tasca interna di questa una Glock di piccolo calibro. Non ebbe nemmeno il tempo di emettere un suono, che il vecchio fece fuoco. Quattro colpi, prima di fermarsi.
Marie Claire Babatunde-Higgins accorse verso il tavolo pochi istanti dopo, trovandosi davanti a sé il cadavere del ragazzo che aveva da poco preso in prestito Alla ricerca del tempo perduto, e a pochi passi di distanza da lui Oliver Cavendish con la sua pistola ancora saldamente in mano. La bibliotecaria si portò le mani al volto, incredula e muta, bloccata dal terrore che la assaliva.
«Sapete, miss Marie Claire?» disse Oliver, con un tono di voce profondo come la notte, «credo di amarvi, di avervi amata dal primo giorno che vi ho vista».
 

Mersault l'Apostata

Chosen one
Fantacalciaro
Vittoria meritata, per distacco, de UNA SERA IN CUI MI ROMPEVO I COGLIONI, scritto da Pepper
complimenti, allori e cappelli levati


adesso avrai diritto al premio previsto, una maglietta usata ideata da oghard :sisilaitorn:




gli altri autori, cui va il plauso di tutti per l'impegno e la bravura, sono:
VAMONOS - Rebaf
CANTO DI NATALE - Mersault
STORIE DI FAVA E DI SPADA - Oghard
IL CURIOSO SMOKING DI MR. CAVENDISH - Taramir

grazie e arrivederci a una prossima volta :zhat:
 
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