Last Century
Ninja Skilled!
Una pioggia leggera batteva incessante sopra i tetti di Ainatur, ticchettando benevola e cullante come un caldo bagno dopo una giornata pesante. Dopo tutto ciò che era successo, dopo la guerra, il cambio di corona, le crisi, ben pochi eldar erano rimasti in grado di provare ancora sentimenti positivi, ancora meno erano in grado di provare speranza. Nei magazzini della città, temporaneamente adibiti a rifugio per gli sfollati di Sendylimion, restavano silenziose alcune elfe, intente a fissare la pioggia come se dovesse, da un momento all'altro, arrivare dall'acqua una risposta a domande imperscrutabili.
Erano in quattro, sopravvissute a orrori indicibili e silenziose come spettri. Solo pochi mesi prima, in circostanze diverse, non si sarebbero neppure guardate in faccia date le differenti estrazioni sociali, i differenti ruoli, ma la guerra le aveva accomunate a tal punto da lavare via ogni disuguaglianza, ogni diversità. Qualcuno, saggio, disse che siamo tutti uguali agli occhi di Dio, nella morte, ma quelle donne avevano sofferto abbastanza da non riuscire nemmeno più a capire quale senso potesse avere un ruolo o un grado davanti a tanta sofferenza. Alcune di loro sognavano, quelle poche volte che riuscivano a chiudere occhio, alti fuochi che lanciavano nel cielo nubi nere, lamenti perenni nel buio della notte, rumore di ossa spezzate, stridore di denti digrignati tra la rabbia e il terrore. Si svegliavano urlando, sudate, avvolte nei pochi vestiti sporchi sopravvissuti a quella strage e mai sostituiti. Per molti di quelli che erano rimasti, purtroppo, la colpa più grande era essere sopravvissuti ai propri cari, ai commilitoni. Quelli più sfortunati erano anche sopravvissuti ai propri figli.
La prima ad aprire bocca, alle prime ore della sera, fu Shandris Dree.
«La pioggia lava via il dolore.» sussurrò. «Mi piace la pioggia.»
Era un discorso banale, quasi puerile tanto insignificante sarebbe suonato alle orecchie di un qualsiasi individuo, eppure era una delle prime cose che dicevano da giorni. Shandris era giovane, aveva giustappunto finito gli studi quando si era ritrovata, suo malgrado, in quella tempesta di sangue che era stata la guerra. Non le rispose nessuna delle altre per almeno un paio di minuti buoni, fin quando Vestele Cantastelle non iniziò a canticchiare una nenia malinconica e triste.
Le altre si fecero più vicine mano a mano che le strofe andavano avanti, palesando sentimenti così comuni e condivisibili ai loro cuori da unirle con un filo invisibile. Aneirin Domabelve, rimasta in disparte rispetto alle altre, si passò una mano sui corti capelli biondi, abbassando la testa. Avrebbe voluto dire qualcosa ma si morse la lingua in un misto di timore e incertezza. Non voleva dire qualcosa di sbagliato, dentro di sé sentiva un tumulto di emozioni contrastanti che mal si sposavano con l'atmosfera cupa e tetra di Ainatur, quel giorno. Era arrivata da sola e per ultima, non aveva aperto bocca per una settimana intera. Quasi a dar voce alle sue parole, però, fu Calarel Scudo di Foglia a parlare.
«Hai una voce meravigliosa. Non sapevo sapessi cantare, Vestele.» poi, quasi a voler evitare l'intenebrirsi delle altre, tentò di fare una battuta. «Sì immaginavo dal tuo cognome cantassi, invero, solo non sapevo così bene.» si sforzò di sorridere e così fecero le altre, come per premiare quel blando, quanto apprezzato, gesto.
«Grazie Capitano Calarel. C'è rimasto poco di cui andare orgogliosi di questi giorni.» commentò la maga, stringendosi le braccia al petto.
A quelle parole Domabelve alzò la testa.
«Calarel? Voi siete l'ufficiale delle guardie di Ostgil?» aveva un tono squillante, forte. Si alzò in piedi per parlare, facendo quasi cadere l'arco che aveva con sé.
«Sì... cioè no.» scrollò la testa, sconsolata. «Voglio dire che lo ero. Niente città, niente plotone, niente grado.»
«C'ero anche io a Ostgil. Ero nel reparto arcieri del tenete Xiloscènt... metà dei nostri sono stati spazzati via al primo attacco, il resto si è arreso. Abbiamo saputo che voi siete stata una delle poche a scamparla e portare gli uomini a Sendylimion.» continuò l'arciera. «Noi non siamo stati altrettanto fortunati.»
«No, no. Fortunati proprio non siamo stati. Io e quel che rimaneva dei miei siamo finiti dalla padella alla brace, dopo la morte di Falka è andato tutto a catafascio. Siamo partiti in ottanta da Ostgil e siamo arrivati in quattro ad Ainatur. Due dei quali sono morti per le ferite riportate.» tirò su col naso, abbandonando quella maschera di apparente neutralità tenuta sino a quel momento per dar sfogo, giustamente, alla frustrazione di quei nefasti eventi. «La fortuna non c'entra niente qui.»
Calarel fece qualche passo in avanti accompagnata dal cigolio metallico della corazza. Concetti come il fato e la fortuna le erano oramai avulsi, alieni, dopo quel che le era capitato. Avrebbe voluto dare voce a tutto il suo disappunto, ma sentiva di dover conservare un briciolo di dignità in quel momento, se non altro per evitare di turbare ancora di più animi già spezzati e piagati dalla sconfitta.
Aneirin non rispose, limitandosi a sistemare meglio l'arco prima di tornare a distendersi su un giaciglio di fortuna. A lei, in paragone, era andata anche peggio ma non se la sentiva di condividere la propria storia in quel momento, le faceva ancora male e voleva solamente ascoltare la pioggia in religioso silenzio.
Shandris, però, la pensava diversamente sul mantenere la quiete.
«Che la fortuna non c'entri è poco ma sicuro, comandante.» iniziò, venendo subito corretta.
«Capitano, signorina Dree. Sono un capitano.»
«Quello che è, potresti anche essere l'ultimo dei picchieri e comunque avresti ragione.» incalzò. «È la guerra che ci ha portato in questo stato pietoso. E se siamo entrati in guerra è per colpa di quello psicolabile di Re Stannis e delle sue manie di grandezza.» arricciò il naso, disgustata. «Guerra commerciale... la più grande buffonata della storia del continente. Ed Elenwen più scema ad accettare.»
«Andiamo, andiamo... è stata comunque la nostra regina, un poco di rispetto è dovuto.» Cantastelle intervenne, sperando di quietare gli animi.
«Abbiamo onorato un'alleanza, rifiutarci sarebbe stato disonorevole.» commentò Domabelve, poco incisiva.
«Ah, perfetto, abbiamo onorato un'alleanza ed adesso abbiamo migliaia di morti da seppellire, uno stato in frantumi e dei confini ridicolmente deboli. Non voglio gettare discredito sulla defunta regina, che Gallean l'abbia in gloria, dico solo che probabilmente il Tempesta ci ha usati.»
«Era abbastanza ovvio che l'avrebbe fatto. Tra l'altro ci hanno lasciato praticamente da soli a reggere un confine immenso. Le Arpie non mi vanno a genio, anzi spero che muoiano di dissenteria tutte quante, ma almeno si sono comportate quasi civilmente.» si strinse nelle spalle, chiudendo gli occhi e lasciandosi andare ad un lungo sospiro. «Almeno lo han fatto fino a che, prese da qualche delirio mentale, non hanno demolito Ostgil. E poi c'è stata l'annosa questione dell'assassino...»
«Con permesso, si trattava di un'azione di guerra. Non è che quella fosse una santarellina, né una bella persona, si trattava comunque di una sgualdrina. Tu ammazzi una di loro e loro, dall'alto della grande idea del vederci tutti come prede, ammazzano migliaia di innocenti.» strinse i pugni, trattenendosi a fatica dallo spuntare veleno ben peggiore. «A prescindere da tutto spero che un giorno Silene finisca con un palo conficcato nel buco del culo.»
Le altre scossero la testa, abbastanza infastidite da quell'eccesso di volgarità. Ovviamente si trattava semplicemente di sfoghi, di rabbia inespressa che trovava sollievo nel convogliarsi contro qualcuno o contro qualcosa. Per alcuni la colpa era di Re Stannis, per altri di Silene, per altri di Elenwen... ogni eldar aveva il suo responsabile per quanto accaduto e, ovviamente, lo avrebbe ingiuriato per tutto il tempo necessario a esaurire il proprio dolore. Non c'era raziocinio in quelle frasi, non c'era una ricerca analitica delle colpe. Si trattava di semplici esplosioni incontrollate dettate da giornate intere di frustrante silenzio, di choc.
E mentre i discorsi andavano peggiorando, con i toni sempre più caldi che si accavallavano cercando di imporre la propria idea su quella degli altri, una figura ammantata di scarlatto entrò nel rifugio. Proveniva dal palazzo cittadino ed aveva percorso le strade sfidando la pioggia a passo deciso e fermo, solitaria. Sulle prime nessuno la notò, quasi come fosse una semplice ombra lungo le pareti, ma quando iniziò a parlare tutte tacquero d'improvviso, riconoscendone la voce.
«Dovreste calmarvi. Dovreste calmarvi tutte quante.» Carnil si abbassò il cappuccio, rivelandosi al gruppo. Aveva l'aria stanca e provata; visibili sul suo volto erano i segni della fatica e dello scarso riposo che quella situazione lo costringeva a sopportare. Anche quei litigi sterili, quegli sbotti di acredine, erano per lui un piccolo fallimento come re, la prova tangibile di come la gente non si fidasse più di niente scivolando lentamente in una miserabile malinconia.
«Perdonateci, principe, non vi attendevamo sino all'indomani.» si scusò, con una riverenza, Calarel. Le altre, facendole eco, s'inchinarono in segno di rispetto. Anche il principe, a quel punto, fece un elegante gesto col capo invitandole a restare comode senza imbrigliarsi nelle formalità.
«Non è necessario. Solo vi prego di non arrovellarvi tra di voi... abbiamo già abbastanza nemici. So che è dura, ma dobbiamo cercare di restare saldi. Sarà una banalità, ma è sempre più buio prima dell'alba.» sorrise, cercando di portare un minimo di conforto al suo popolo. Ci teneva davvero a risollevare il morale di tutti, ci teneva anche sapendo che molti avrebbero fatto di tutto per restare furibondi, per dare libero sfogo alla propria ira. A differenza di tanti aveva sperimentato sulla propria pelle quale fine prematura e indegna avrebbero fatto gli eldar qualora, scioccamente, si fossero intestarditi nelle loro idee. Se avesse avuto il potere di far sorridere la sua gente, anche per un minuto, avrebbe sacrificato qualsiasi cosa per riuscirci, ma quel genere di possibilità gli era preclusa e altro non poteva fare se non parlare. Esserci.
«Siete l'ultimo gruppo di rifugiati, gli altri sono stati già tutti assegnati, smistati o congedati onorevolmente per i servigi resi al regno. Voi non vi siete presentate all'ufficio censorio... quindi sono venuto io da voi. Fuggendo dalla mia guardia del corpo che, probabilmente, mi ucciderà quando scoprirà che mi sono allontanato senza avvertirla.» la battuta suscitò un piccolo singulto di ilarità, soffocato nel mentre che il principe recuperava uno sgabello per sedersi. «Come saprete io sono rimasto lontano dal conflitto e non l'ho vissuto sulla mia pelle. Vorrei chiedervi, prima che cali notte, di raccontarmi la vostra esperienza... so che siete quasi tutte veterane.»
«Signore, perché volete sapere di queste storie? Sono quasi tutte tragiche, non c'è niente di bello in quello che abbiamo vissuto.» Vestele, timidamente, cercò di scoraggiare il sovrano.
«No, no ragazza mia, è proprio il motivo per cui voglio che mi raccontiate le vostre vicissitudini. Ho letto i rapporti dei messaggeri, i resoconti, ma è tutto edulcorato, risibile. Se devo guidare questo paese voglio farlo condividendo sia la gloria che il fardello del mio popolo. Vi prego, raccontatemi.» le esortò, ancora una volta.
Nessuna di loro aveva voglia di condividere la propria storia in quel modo plateale, invero, dava a tutte l'idea di essere tornate ai tempi della scuola, dove era pratica comune riunirsi per discutere della propria giornata. Lo vedevano, un poco a ragione ed un poco in torto, come una specie di fallimentare - e anche puerile - tentativo di creare forzosamente dei rapporti sociali. Il problema era che, volenti o nolenti, tutte loro avevano dei segreti che necessitavano di venire a galla, problemi e turbe da affrontare assieme a chi c'era passato, per quei drammi. Il fatto che fossero eldar dal temperamento altezzoso e impassibile risultava oramai un lontano ricordo, un piccolo frammento traslucido gettato nelle profondità del mare. Non lo avrebbero ritrovato mai e, anche se qualche folle avesse osato rialzare la testa con la medesima arroganza, avrebbe finito per farsela tagliare. I tempi cambiavano, le persone cambiavano.
Mossa dal bisogno di condividere la propria sventura fu Domabelve a iniziare, schiarendosi la voce con un teatrale quanto eccessivo colpo di tosse.
«Credo di poter iniziare io.» si passò una mano sulla divisa logora, nervosa. «Il mio nome è Aneirin Domabelve...»
Aneirin era sempre stata svelta con l'arco e silenziosa con i piedi. In tenera età era stata arruolata nell'esercito per svolgere funzione primaria di avanscoperta e sentinella, ma nel corso del tempo si era messa a fare carriera ricavandosi un posto di rilievo all'interno dell’Arma. Non era mai stata una codarda, tutt'altro, ma aveva abbastanza sale in zucca per sapere quando evitare di buttarsi a testa bassa nella mischia. L'ultima grande guerra, nemmeno dieci anni prima, l'aveva passata come sentinella di confine, assistendo con sconforto alla perdita delle regioni interne del regno, ma restando lontana dal campo di battaglia. Durante i nefasti eventi del Grande Conflitto, però, Elenwen aveva disposto che ogni effettivo prestasse servizio pieno quindi, suo malgrado, Domabelve si era ritrovata affiliata al distaccamento di Bel Riose. Durante i violenti assalti si trovava nelle retrovie, lontano dallo scontro diretto, ma la vista dell'Arconita e dei propri comandanti morti la segnò profondamente. Come molti altri si ritrovò senza una guida, ingolfata tra le intemperie e chiusa alle spalle dal fiume, ma nonostante tutto riuscì a tuffarsi in acqua e raggiungere la salvezza dopo una estenuante lotta contro la corrente. L'unico motivo per cui era sopravvissuta, ripeteva, era l'armatura leggera e l'atletica sviluppata durante gli addestramenti. Tra le altre cose, quasi la disfatta non fosse sufficiente a segnare l'esistenza di una persona, dovette assistere anche alla tragedia umana dei compagni che, disperati, finirono per essere spazzati via o, peggio ancora, annegati nelle acque infide.
Raggiunse Ostgil allo stremo delle forze, assieme ad un piccolo drappello di sbandati che - perdendosi - avevano finito per virare verso sud anziché rifugiarsi nella capitale. Qui, dopo alcuni giorni di riposo, venne immediatamente posta in servizio attivo sotto Ghewen Xiloscènt, un tenente in seconda di guarnigione sulle mura cittadine. Quasi il destino l'avesse segnata, poche settimane dopo le truppe imperiali marciarono sulla città sbaragliandone i difensori. Lei, sulle mura, riuscì ad abbattere un paio di nemici prima di essere ferita e ridotta in fin di vita. Fortunatamente per lei, Falka permise alla popolazione cittadina di abbandonare le case prima di radere al suolo l'abitato e, furbescamente, Aneirin si fece passare per una civile nascondendosi in un carro che trasportava feriti. A quel punto era certa, così come lo era gran parte dell'esercito, che la guerra fosse finita e che Almarillan avrebbe finito per capitolare indecorosamente: per evitare di ritrovarsi di nuovo tra incudine e martello, oramai stanca di combattere, si fece portare verso l'interno del paese con l'intento di raggiungere Ainatur. E Gallen, o chi per lui, decise che mentre attraversava Sendylimion una sfortunata, quanto ignominiosa, serie di eventi portasse le arpie a compiere una strage nella regione.
In quei giorni era vicino al confine dell'Artalasse e, sgusciando nelle foreste e tenendosi alla larga dalle bande armate dell'impero, si nascose nel fitto della vegetazione sopravvivendo di espedienti. Qualsiasi persona sana di mente sarebbe corsa in città, ma lei temeva che la furia di Silene si sarebbe spinta sino ad Ainatur, costringendola a subire per la quarta volta consecutiva un attacco inarrestabile. Decise di restare nascosta nei boschi, cacciando e rubando per sopravvivere per quasi un anno intero, uscendone solamente al vociferare di un trattato di pace. Lo aveva sentito, a detta sua, da alcuni soldati di passaggio e, notando come la situazione si fosse calmata, si era decisa a raggiungere l'ultimo bastione dei lealisti per tornare in servizio.
Era una sopravvissuta, una sopravvissuta che aveva visto più morti di tanti altri ed aveva trovato il coraggio - o forse l'astuzia - di restare sana e salva. Le sarebbe convenuto di gran lunga cercare rifugio tra i separatisti o, meglio ancora, saltare il confine per andare nel Carandor, ma non aveva una stima troppo alta degli alleati. Non lo disse con chiarezza, ma traspariva bene dal racconto quanta poca fiducia riponesse nell'Unione. Quando ebbe finito di parlare si fermò un istante, lasciando modo e tempo agli astanti di farsi un'idea propria su quanto le era successo.
«E questo è quanto.» confessò. «Niente atti di eroismo strani, niente cose strane. Sono solo una ricognitrice che si è trovata al posto sbagliato al momento sbagliato... per tre volte di fila.» cercò di buttarla sul ridere, ma dai suoi occhi traspariva una certa malinconia.
«Non dovresti sminuire quello che hai fatto, Domabelve.» la redarguì il principe. «In giorni come questi ogni vita è importante, ogni anima è importante. Il fatto che tu sia sopravvissuta fa di te un'elfa forte. In guerra, così come in politica, non vince semplicemente chi uccide tutti mulinando la spada all'impazzata o gridando ingiurie al nemico. Vince anche chi usa la testa, chi sa mettersi al posto giusto al momento giusto.» Carnil la indicò con l'indice della mancina. «Tu hai visto la morte in faccia per tre volte ma sei tornata. Potevi fuggire, potevi sparire o diventare una brigante, ma hai scelto di tornare e continuare a combattere.»
«Mio signore io non so se sono adatta.» farfugliò, poco convinta.
«Sei adatta tanto quanto lo è chiunque abbia vissuto così tanto e sia ancora in vita per raccontarlo. Per quel poco che può valere, Aneirin, sono felice che tu sia qui.» le sorrise.
Lei, sentendosi inaspettatamente bene dopo aver raccontato la sua breve ma tormentata storia, sorrise di rimando. «Grazie, signore. È bello sentirsi di nuovo a casa, nonostante tutto.»
Anche le altre, a quelle parole, annuirono con cenni di assenso, anche se Scudo di Foglia parve non apprezzare particolarmente il periodo da latitante nella foresta. Non disse nulla ma, chiaramente, quello alle sue orecchie suonava terribilmente simile alla diserzione. Senza comando, con un esercito sbandato e fazioni ribelli intente a proliferare, tuttavia, era conscia di non poter accusare nessuno di aver disatteso gli ordini.
Fu proprio Calarel a prendere parola, quindi, convinta dell'importanza di raccontare al futuro re ciò che aveva fatto durante la guerra. Non aveva in mente di ottenere chissà quale prestigio, tutt'altro, voleva solo dimostrare al sovrano di essere degna di fiducia in un momento dove la lealtà, nel regno, latitava.
«Signore io sono Calarel Scudo di Foglia. Ero ufficiale di secondo grado della guarnigione di Ostgil durante la guerra...»
Erano in quattro, sopravvissute a orrori indicibili e silenziose come spettri. Solo pochi mesi prima, in circostanze diverse, non si sarebbero neppure guardate in faccia date le differenti estrazioni sociali, i differenti ruoli, ma la guerra le aveva accomunate a tal punto da lavare via ogni disuguaglianza, ogni diversità. Qualcuno, saggio, disse che siamo tutti uguali agli occhi di Dio, nella morte, ma quelle donne avevano sofferto abbastanza da non riuscire nemmeno più a capire quale senso potesse avere un ruolo o un grado davanti a tanta sofferenza. Alcune di loro sognavano, quelle poche volte che riuscivano a chiudere occhio, alti fuochi che lanciavano nel cielo nubi nere, lamenti perenni nel buio della notte, rumore di ossa spezzate, stridore di denti digrignati tra la rabbia e il terrore. Si svegliavano urlando, sudate, avvolte nei pochi vestiti sporchi sopravvissuti a quella strage e mai sostituiti. Per molti di quelli che erano rimasti, purtroppo, la colpa più grande era essere sopravvissuti ai propri cari, ai commilitoni. Quelli più sfortunati erano anche sopravvissuti ai propri figli.
La prima ad aprire bocca, alle prime ore della sera, fu Shandris Dree.
«La pioggia lava via il dolore.» sussurrò. «Mi piace la pioggia.»
Era un discorso banale, quasi puerile tanto insignificante sarebbe suonato alle orecchie di un qualsiasi individuo, eppure era una delle prime cose che dicevano da giorni. Shandris era giovane, aveva giustappunto finito gli studi quando si era ritrovata, suo malgrado, in quella tempesta di sangue che era stata la guerra. Non le rispose nessuna delle altre per almeno un paio di minuti buoni, fin quando Vestele Cantastelle non iniziò a canticchiare una nenia malinconica e triste.
« ♪ Scende la pioggia sulla città
lenta monda l'anima
il cielo buio rimbomberà
di dolore e malignità.
Scende la pioggia sulla città
lenta monda l'anima
la nuda terra accoglierà
corpi senza dignità.
Scende la pioggia sulla città
lenta monda l'anima
il vento sferza Almarillan
non s'odon le fronde suonar.
Scende la pioggia
scende già
scende lenta
sulla città. ♫ »
lenta monda l'anima
il cielo buio rimbomberà
di dolore e malignità.
Scende la pioggia sulla città
lenta monda l'anima
la nuda terra accoglierà
corpi senza dignità.
Scende la pioggia sulla città
lenta monda l'anima
il vento sferza Almarillan
non s'odon le fronde suonar.
Scende la pioggia
scende già
scende lenta
sulla città. ♫ »
Le altre si fecero più vicine mano a mano che le strofe andavano avanti, palesando sentimenti così comuni e condivisibili ai loro cuori da unirle con un filo invisibile. Aneirin Domabelve, rimasta in disparte rispetto alle altre, si passò una mano sui corti capelli biondi, abbassando la testa. Avrebbe voluto dire qualcosa ma si morse la lingua in un misto di timore e incertezza. Non voleva dire qualcosa di sbagliato, dentro di sé sentiva un tumulto di emozioni contrastanti che mal si sposavano con l'atmosfera cupa e tetra di Ainatur, quel giorno. Era arrivata da sola e per ultima, non aveva aperto bocca per una settimana intera. Quasi a dar voce alle sue parole, però, fu Calarel Scudo di Foglia a parlare.
«Hai una voce meravigliosa. Non sapevo sapessi cantare, Vestele.» poi, quasi a voler evitare l'intenebrirsi delle altre, tentò di fare una battuta. «Sì immaginavo dal tuo cognome cantassi, invero, solo non sapevo così bene.» si sforzò di sorridere e così fecero le altre, come per premiare quel blando, quanto apprezzato, gesto.
«Grazie Capitano Calarel. C'è rimasto poco di cui andare orgogliosi di questi giorni.» commentò la maga, stringendosi le braccia al petto.
A quelle parole Domabelve alzò la testa.
«Calarel? Voi siete l'ufficiale delle guardie di Ostgil?» aveva un tono squillante, forte. Si alzò in piedi per parlare, facendo quasi cadere l'arco che aveva con sé.
«Sì... cioè no.» scrollò la testa, sconsolata. «Voglio dire che lo ero. Niente città, niente plotone, niente grado.»
«C'ero anche io a Ostgil. Ero nel reparto arcieri del tenete Xiloscènt... metà dei nostri sono stati spazzati via al primo attacco, il resto si è arreso. Abbiamo saputo che voi siete stata una delle poche a scamparla e portare gli uomini a Sendylimion.» continuò l'arciera. «Noi non siamo stati altrettanto fortunati.»
«No, no. Fortunati proprio non siamo stati. Io e quel che rimaneva dei miei siamo finiti dalla padella alla brace, dopo la morte di Falka è andato tutto a catafascio. Siamo partiti in ottanta da Ostgil e siamo arrivati in quattro ad Ainatur. Due dei quali sono morti per le ferite riportate.» tirò su col naso, abbandonando quella maschera di apparente neutralità tenuta sino a quel momento per dar sfogo, giustamente, alla frustrazione di quei nefasti eventi. «La fortuna non c'entra niente qui.»
Calarel fece qualche passo in avanti accompagnata dal cigolio metallico della corazza. Concetti come il fato e la fortuna le erano oramai avulsi, alieni, dopo quel che le era capitato. Avrebbe voluto dare voce a tutto il suo disappunto, ma sentiva di dover conservare un briciolo di dignità in quel momento, se non altro per evitare di turbare ancora di più animi già spezzati e piagati dalla sconfitta.
Aneirin non rispose, limitandosi a sistemare meglio l'arco prima di tornare a distendersi su un giaciglio di fortuna. A lei, in paragone, era andata anche peggio ma non se la sentiva di condividere la propria storia in quel momento, le faceva ancora male e voleva solamente ascoltare la pioggia in religioso silenzio.
Shandris, però, la pensava diversamente sul mantenere la quiete.
«Che la fortuna non c'entri è poco ma sicuro, comandante.» iniziò, venendo subito corretta.
«Capitano, signorina Dree. Sono un capitano.»
«Quello che è, potresti anche essere l'ultimo dei picchieri e comunque avresti ragione.» incalzò. «È la guerra che ci ha portato in questo stato pietoso. E se siamo entrati in guerra è per colpa di quello psicolabile di Re Stannis e delle sue manie di grandezza.» arricciò il naso, disgustata. «Guerra commerciale... la più grande buffonata della storia del continente. Ed Elenwen più scema ad accettare.»
«Andiamo, andiamo... è stata comunque la nostra regina, un poco di rispetto è dovuto.» Cantastelle intervenne, sperando di quietare gli animi.
«Abbiamo onorato un'alleanza, rifiutarci sarebbe stato disonorevole.» commentò Domabelve, poco incisiva.
«Ah, perfetto, abbiamo onorato un'alleanza ed adesso abbiamo migliaia di morti da seppellire, uno stato in frantumi e dei confini ridicolmente deboli. Non voglio gettare discredito sulla defunta regina, che Gallean l'abbia in gloria, dico solo che probabilmente il Tempesta ci ha usati.»
«Era abbastanza ovvio che l'avrebbe fatto. Tra l'altro ci hanno lasciato praticamente da soli a reggere un confine immenso. Le Arpie non mi vanno a genio, anzi spero che muoiano di dissenteria tutte quante, ma almeno si sono comportate quasi civilmente.» si strinse nelle spalle, chiudendo gli occhi e lasciandosi andare ad un lungo sospiro. «Almeno lo han fatto fino a che, prese da qualche delirio mentale, non hanno demolito Ostgil. E poi c'è stata l'annosa questione dell'assassino...»
«Con permesso, si trattava di un'azione di guerra. Non è che quella fosse una santarellina, né una bella persona, si trattava comunque di una sgualdrina. Tu ammazzi una di loro e loro, dall'alto della grande idea del vederci tutti come prede, ammazzano migliaia di innocenti.» strinse i pugni, trattenendosi a fatica dallo spuntare veleno ben peggiore. «A prescindere da tutto spero che un giorno Silene finisca con un palo conficcato nel buco del culo.»
Le altre scossero la testa, abbastanza infastidite da quell'eccesso di volgarità. Ovviamente si trattava semplicemente di sfoghi, di rabbia inespressa che trovava sollievo nel convogliarsi contro qualcuno o contro qualcosa. Per alcuni la colpa era di Re Stannis, per altri di Silene, per altri di Elenwen... ogni eldar aveva il suo responsabile per quanto accaduto e, ovviamente, lo avrebbe ingiuriato per tutto il tempo necessario a esaurire il proprio dolore. Non c'era raziocinio in quelle frasi, non c'era una ricerca analitica delle colpe. Si trattava di semplici esplosioni incontrollate dettate da giornate intere di frustrante silenzio, di choc.
E mentre i discorsi andavano peggiorando, con i toni sempre più caldi che si accavallavano cercando di imporre la propria idea su quella degli altri, una figura ammantata di scarlatto entrò nel rifugio. Proveniva dal palazzo cittadino ed aveva percorso le strade sfidando la pioggia a passo deciso e fermo, solitaria. Sulle prime nessuno la notò, quasi come fosse una semplice ombra lungo le pareti, ma quando iniziò a parlare tutte tacquero d'improvviso, riconoscendone la voce.
«Dovreste calmarvi. Dovreste calmarvi tutte quante.» Carnil si abbassò il cappuccio, rivelandosi al gruppo. Aveva l'aria stanca e provata; visibili sul suo volto erano i segni della fatica e dello scarso riposo che quella situazione lo costringeva a sopportare. Anche quei litigi sterili, quegli sbotti di acredine, erano per lui un piccolo fallimento come re, la prova tangibile di come la gente non si fidasse più di niente scivolando lentamente in una miserabile malinconia.
«Perdonateci, principe, non vi attendevamo sino all'indomani.» si scusò, con una riverenza, Calarel. Le altre, facendole eco, s'inchinarono in segno di rispetto. Anche il principe, a quel punto, fece un elegante gesto col capo invitandole a restare comode senza imbrigliarsi nelle formalità.
«Non è necessario. Solo vi prego di non arrovellarvi tra di voi... abbiamo già abbastanza nemici. So che è dura, ma dobbiamo cercare di restare saldi. Sarà una banalità, ma è sempre più buio prima dell'alba.» sorrise, cercando di portare un minimo di conforto al suo popolo. Ci teneva davvero a risollevare il morale di tutti, ci teneva anche sapendo che molti avrebbero fatto di tutto per restare furibondi, per dare libero sfogo alla propria ira. A differenza di tanti aveva sperimentato sulla propria pelle quale fine prematura e indegna avrebbero fatto gli eldar qualora, scioccamente, si fossero intestarditi nelle loro idee. Se avesse avuto il potere di far sorridere la sua gente, anche per un minuto, avrebbe sacrificato qualsiasi cosa per riuscirci, ma quel genere di possibilità gli era preclusa e altro non poteva fare se non parlare. Esserci.
«Siete l'ultimo gruppo di rifugiati, gli altri sono stati già tutti assegnati, smistati o congedati onorevolmente per i servigi resi al regno. Voi non vi siete presentate all'ufficio censorio... quindi sono venuto io da voi. Fuggendo dalla mia guardia del corpo che, probabilmente, mi ucciderà quando scoprirà che mi sono allontanato senza avvertirla.» la battuta suscitò un piccolo singulto di ilarità, soffocato nel mentre che il principe recuperava uno sgabello per sedersi. «Come saprete io sono rimasto lontano dal conflitto e non l'ho vissuto sulla mia pelle. Vorrei chiedervi, prima che cali notte, di raccontarmi la vostra esperienza... so che siete quasi tutte veterane.»
«Signore, perché volete sapere di queste storie? Sono quasi tutte tragiche, non c'è niente di bello in quello che abbiamo vissuto.» Vestele, timidamente, cercò di scoraggiare il sovrano.
«No, no ragazza mia, è proprio il motivo per cui voglio che mi raccontiate le vostre vicissitudini. Ho letto i rapporti dei messaggeri, i resoconti, ma è tutto edulcorato, risibile. Se devo guidare questo paese voglio farlo condividendo sia la gloria che il fardello del mio popolo. Vi prego, raccontatemi.» le esortò, ancora una volta.
Nessuna di loro aveva voglia di condividere la propria storia in quel modo plateale, invero, dava a tutte l'idea di essere tornate ai tempi della scuola, dove era pratica comune riunirsi per discutere della propria giornata. Lo vedevano, un poco a ragione ed un poco in torto, come una specie di fallimentare - e anche puerile - tentativo di creare forzosamente dei rapporti sociali. Il problema era che, volenti o nolenti, tutte loro avevano dei segreti che necessitavano di venire a galla, problemi e turbe da affrontare assieme a chi c'era passato, per quei drammi. Il fatto che fossero eldar dal temperamento altezzoso e impassibile risultava oramai un lontano ricordo, un piccolo frammento traslucido gettato nelle profondità del mare. Non lo avrebbero ritrovato mai e, anche se qualche folle avesse osato rialzare la testa con la medesima arroganza, avrebbe finito per farsela tagliare. I tempi cambiavano, le persone cambiavano.
Mossa dal bisogno di condividere la propria sventura fu Domabelve a iniziare, schiarendosi la voce con un teatrale quanto eccessivo colpo di tosse.
«Credo di poter iniziare io.» si passò una mano sulla divisa logora, nervosa. «Il mio nome è Aneirin Domabelve...»
Aneirin Domabelve - La Sopravvissuta.
Aneirin era sempre stata svelta con l'arco e silenziosa con i piedi. In tenera età era stata arruolata nell'esercito per svolgere funzione primaria di avanscoperta e sentinella, ma nel corso del tempo si era messa a fare carriera ricavandosi un posto di rilievo all'interno dell’Arma. Non era mai stata una codarda, tutt'altro, ma aveva abbastanza sale in zucca per sapere quando evitare di buttarsi a testa bassa nella mischia. L'ultima grande guerra, nemmeno dieci anni prima, l'aveva passata come sentinella di confine, assistendo con sconforto alla perdita delle regioni interne del regno, ma restando lontana dal campo di battaglia. Durante i nefasti eventi del Grande Conflitto, però, Elenwen aveva disposto che ogni effettivo prestasse servizio pieno quindi, suo malgrado, Domabelve si era ritrovata affiliata al distaccamento di Bel Riose. Durante i violenti assalti si trovava nelle retrovie, lontano dallo scontro diretto, ma la vista dell'Arconita e dei propri comandanti morti la segnò profondamente. Come molti altri si ritrovò senza una guida, ingolfata tra le intemperie e chiusa alle spalle dal fiume, ma nonostante tutto riuscì a tuffarsi in acqua e raggiungere la salvezza dopo una estenuante lotta contro la corrente. L'unico motivo per cui era sopravvissuta, ripeteva, era l'armatura leggera e l'atletica sviluppata durante gli addestramenti. Tra le altre cose, quasi la disfatta non fosse sufficiente a segnare l'esistenza di una persona, dovette assistere anche alla tragedia umana dei compagni che, disperati, finirono per essere spazzati via o, peggio ancora, annegati nelle acque infide.
Raggiunse Ostgil allo stremo delle forze, assieme ad un piccolo drappello di sbandati che - perdendosi - avevano finito per virare verso sud anziché rifugiarsi nella capitale. Qui, dopo alcuni giorni di riposo, venne immediatamente posta in servizio attivo sotto Ghewen Xiloscènt, un tenente in seconda di guarnigione sulle mura cittadine. Quasi il destino l'avesse segnata, poche settimane dopo le truppe imperiali marciarono sulla città sbaragliandone i difensori. Lei, sulle mura, riuscì ad abbattere un paio di nemici prima di essere ferita e ridotta in fin di vita. Fortunatamente per lei, Falka permise alla popolazione cittadina di abbandonare le case prima di radere al suolo l'abitato e, furbescamente, Aneirin si fece passare per una civile nascondendosi in un carro che trasportava feriti. A quel punto era certa, così come lo era gran parte dell'esercito, che la guerra fosse finita e che Almarillan avrebbe finito per capitolare indecorosamente: per evitare di ritrovarsi di nuovo tra incudine e martello, oramai stanca di combattere, si fece portare verso l'interno del paese con l'intento di raggiungere Ainatur. E Gallen, o chi per lui, decise che mentre attraversava Sendylimion una sfortunata, quanto ignominiosa, serie di eventi portasse le arpie a compiere una strage nella regione.
In quei giorni era vicino al confine dell'Artalasse e, sgusciando nelle foreste e tenendosi alla larga dalle bande armate dell'impero, si nascose nel fitto della vegetazione sopravvivendo di espedienti. Qualsiasi persona sana di mente sarebbe corsa in città, ma lei temeva che la furia di Silene si sarebbe spinta sino ad Ainatur, costringendola a subire per la quarta volta consecutiva un attacco inarrestabile. Decise di restare nascosta nei boschi, cacciando e rubando per sopravvivere per quasi un anno intero, uscendone solamente al vociferare di un trattato di pace. Lo aveva sentito, a detta sua, da alcuni soldati di passaggio e, notando come la situazione si fosse calmata, si era decisa a raggiungere l'ultimo bastione dei lealisti per tornare in servizio.
Era una sopravvissuta, una sopravvissuta che aveva visto più morti di tanti altri ed aveva trovato il coraggio - o forse l'astuzia - di restare sana e salva. Le sarebbe convenuto di gran lunga cercare rifugio tra i separatisti o, meglio ancora, saltare il confine per andare nel Carandor, ma non aveva una stima troppo alta degli alleati. Non lo disse con chiarezza, ma traspariva bene dal racconto quanta poca fiducia riponesse nell'Unione. Quando ebbe finito di parlare si fermò un istante, lasciando modo e tempo agli astanti di farsi un'idea propria su quanto le era successo.
«E questo è quanto.» confessò. «Niente atti di eroismo strani, niente cose strane. Sono solo una ricognitrice che si è trovata al posto sbagliato al momento sbagliato... per tre volte di fila.» cercò di buttarla sul ridere, ma dai suoi occhi traspariva una certa malinconia.
«Non dovresti sminuire quello che hai fatto, Domabelve.» la redarguì il principe. «In giorni come questi ogni vita è importante, ogni anima è importante. Il fatto che tu sia sopravvissuta fa di te un'elfa forte. In guerra, così come in politica, non vince semplicemente chi uccide tutti mulinando la spada all'impazzata o gridando ingiurie al nemico. Vince anche chi usa la testa, chi sa mettersi al posto giusto al momento giusto.» Carnil la indicò con l'indice della mancina. «Tu hai visto la morte in faccia per tre volte ma sei tornata. Potevi fuggire, potevi sparire o diventare una brigante, ma hai scelto di tornare e continuare a combattere.»
«Mio signore io non so se sono adatta.» farfugliò, poco convinta.
«Sei adatta tanto quanto lo è chiunque abbia vissuto così tanto e sia ancora in vita per raccontarlo. Per quel poco che può valere, Aneirin, sono felice che tu sia qui.» le sorrise.
Lei, sentendosi inaspettatamente bene dopo aver raccontato la sua breve ma tormentata storia, sorrise di rimando. «Grazie, signore. È bello sentirsi di nuovo a casa, nonostante tutto.»
Anche le altre, a quelle parole, annuirono con cenni di assenso, anche se Scudo di Foglia parve non apprezzare particolarmente il periodo da latitante nella foresta. Non disse nulla ma, chiaramente, quello alle sue orecchie suonava terribilmente simile alla diserzione. Senza comando, con un esercito sbandato e fazioni ribelli intente a proliferare, tuttavia, era conscia di non poter accusare nessuno di aver disatteso gli ordini.
Fu proprio Calarel a prendere parola, quindi, convinta dell'importanza di raccontare al futuro re ciò che aveva fatto durante la guerra. Non aveva in mente di ottenere chissà quale prestigio, tutt'altro, voleva solo dimostrare al sovrano di essere degna di fiducia in un momento dove la lealtà, nel regno, latitava.
«Signore io sono Calarel Scudo di Foglia. Ero ufficiale di secondo grado della guarnigione di Ostgil durante la guerra...»