GDR Eravamo uomini, un tempo...

Silen

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Eravamo uomini, un tempo.
Sembra che siano passati secoli dall'arrivo delle cacciatrici, dal giorno in cui abbiamo perduto non soltanto la libertà, ma anche la dignità di esseri senzienti, persino quel minimo di dignità che anche il più povero dei mendicanti ha sempre posseduto. E' stato detto che le cacciatrici hanno portato la pace, la prospetità, l'euguaglianza; la pace di un deserto privo di vita, l'abbondanza di una covone di fieno, e quanto all'uguaglianza, certo, tutti i popoli sono uguali per le cacciatrici: nessuno conta niente.

Si è tanto scritto della natura indomabile dell'uomo, sulla sua naturale aspirazione alla libertà, sulla sua ribellione alla tirannide...cosa direbbero quegli antici filosofi nel guardare ciò che siamo diventati noi, oggi. E' bastato davvero poco a sottomettere l'indomabile natura umana: astutamente le cacciatrici hanno sventolato di fronte a noi il miraggio di un rifugio caldo, di una mangiatoia piena, dell'assenza di (altri) predatori, ed ecco, tanto è bastato. Come bovini gli uomini si sono adagiati nella stalla calda, si sono cibati alla mangiatoia che le cacciatrici hanno avuto cura di mantenere piena. Come api, ci siamo affollati nelle arnie che sono state costruite per noi, è stato sufficiente disporre tutto attorno qualche fiore colorato. Soddisfatti, anzi, grati del fatto che le cacciatrici, sazie di latte e miele, si degnino di astenersi dal divorare anche la nostra carne e ci consentano di vivere, ridotti a niente altro che un gregge nella loro riserva.

Come altro definire l'abiezione della nostra condizione, sottomessi come siamo ad una razza per la quale non siamo altro che bestie da carne, dalla quale ci divide un abisso che nemmeno in mille anni potremo sperare di colmare?
Grasse e soddisfatte, le bestie che un tempo erano uomini sostengono che non ci sia così tanta distanza fra noi che sia possibile convivere e non comprendono una semplice verità.

La morte colpirà la prima vacca che inciterà le altre a scrollarsi di dosso il giogo.
E la prima ape che si ribellerà perchè le rubano il miele, verrà schiacciata.

Questo libello, scritto nei primi mesi del 3939 e copiato clandestinamente in centinaia di esemplari, conosce una grande diffusione nelle terre che soggiacciono all'ombra dello stendardo con Ali e Artiglio. La feroce critica al dominio delle arpie in esso contenuta e l'ancora più feroce attacco a coloro che a questo dominio si sono adattati turba molte coscienze ma ottiene pochi risultati pratici. I contadini nelle campagne in particolare rimangono impervi a queste esortazioni, paghi della pace che le dominatrici hanno garantito, così come troppo radicati sono gli interessi dei cosiddetti domestici; soltanto un piccolo nucleo di idealisti e di sognatori cominciano a riunirsi per formare un gruppo di opposizione al dominio delle arpie.


Secondo la sua stessa profetica conclusione, l'autore del libello viene infine catturato dalla guardia cittadina di Aravesia e, accusato di turbare l'ordine pubblico, tradotto a Kyrne Lamiya dove viene decapitato pubblicamente il giorno del solstizio d'estate.
 
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