Contest 2ª Gara di Scrittura

Ostrègone

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Fantacalciaro
Regolamento

- A questo gioco potranno partecipare tutti, senza obbligo d’iscrizione, cosicché possano giocare, e quindi scrivere, quando più gli aggrada in quel momento.
- Generalmente verranno scritti racconti brevi inerenti al tema scelto, ma sono accettati anche altri tipi di componimento letterario, come ad esempio quello poetico.
- Da quando il giudice decreterà l’inizio della gara i giocatori avranno 20 giorni per mandare i loro lavori in forma privata al giudice. Eventuali circostanze o richieste potranno aumentare o diminuire il numero dei giorni prestabiliti.
- I giocatori, oltre il limite di tempo, dovranno rispettare quello della lunghezza dei loro racconti, che dovrà essere generalmente massimo 3 pagine Word.
- A ogni lavoro si deve allegare sempre un titolo
- Il vincitore della gara per quel determinato tema verrà scelto tramite un Poll nella sezione “l’Accademia”, nel quale si potrà votare i lavori presentati in forma anonima. La vera identità verrà svelata alla fine delle votazioni e il vincitore sceglierà il tema della prossima Gara di scrittura.

Svolgimento

- Viene scelto il tema per la Gara di scrittura del mese.
- I giocatori avranno un tempo prestabilito per scrivere i loro lavori che dovranno concernere il determinato tema.
- In forma privata i lavori, con il titolo, dovranno essere consegnati al giudice che si occuperà poi di raccoglierli e postarli mano a mano in forma ANONIMA nel topic stabilito della sezione “l’Accademia".
- Alla fine del periodo prestabilito il giudice aprirà un poll della durata di circa 10 giorni dove gli utenti potranno votare il componimento da loro preferito.
- Finita la votazione, verranno svelate le identità e si nominerà il vincitore che avrà l’onore di scegliere il prossimo tema.



TEMA: "ORRORE E TERRORE"


I lavori potranno essere consegnati fino al 5 novembre (la data potrebbe essere modificata per eventuali motivi).

Inviare i propri lavori via MP a me o inviate una mail all'indirizzo che c'è nel mio profilo.

PS: in questo topic posterò solo io e dopo questo post saranno i vari racconti. Ricordatevi il titolo nel lavoro!
 

Ostrègone

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Fantacalciaro
Dato che il testo presenta varie e ricorrenti parole in sardo, qui di seguito una legenda delle traduzioni:

PREBEI = PECORA
CODDATA = SCOPATA
CAGHINO = FROCIO
CORDULA = PIATTO SARDO FATTO CON ORGANI INTERNI DI ANIMALE MESSI IN UNO SPIEDO E RICOPERTI CON LE INTERIORA DELLA BESTIA, POI FATTE CUOCERE ALLA BRACE
BAGASSA = PUTTANA
BAGNA = SUGO DI POMODORO


DENTI BIANCHI

Tzia Cesara, tossendo, sputò nel piattino che le era stato messo sotto il mento dalla cognata due piccoli denti candidi, non i primi e nemmeno gli ultimi, macchiati unicamente da un filo di saliva striata di sangue, molto probabilmente incosciente di quello che aveva fatto, come di tutto quello che le succedeva intorno negli ultimi tempi.
Stremata si muoveva sul piccolo letto, anche se i movimenti potevano ricordare a chi li osservava dall'alto più come i lenti e sentiti spasmi del lombrico quando viene punto a terra con un bastoncino e non può ritirarsi dalla calda luce del sole. Con l'aiuto dei quattro uomini la donna che teneva il piattino avrebbe dovuto, a breve, spostare Tzia Cesara per cambiarle le lenzuola bagnate di sudore e piscio. In quelle condizioni la vescica era poco più grossa del pugno di un bambino, e persino gli ultimi controlli sugli istinti erano svaniti,cosicché bisognava stare attenti che non si scaricasse del tutto dentro le lenzuola.
Erano passati quattro mesi da quello che doveva essere il momento.

Tzia Cesara era malata.
La parola “Tzia”, ossia “zia” era solitamente usata per rispetto nei confronti delle donne anziane che, nella società di allora, erano zie di un po' tutti i bambini del quartiere. In questo caso invece, dato che era il piccolo Efisieddu a parlare, cioè il figlio di Antioca e Antonio s'Impiegau – l'Impiegato, perché lavorava in Comune e sapeva scrivere – Piras, fratello di Cesara Piras, era solamente a titolo di parentela.
La piccola chiesetta di San Pietro appena fuori dal paese nascondeva i discorsi di Efisieddu. Circondata da nient'altro che la campagna, la struttura accoglieva con la stessa indifferenza i bisognosi di un aiuto divino e le donne intente a lavare i panni nei bassi lavatoi di pietra.
Figlio di impiegato, non si era trasformato come i suoi coetanei nella pessima imitazione di adulto. Stava seduto su una delle panchine di pietra, fregando i talloni sulla roccia verde di muschio che gli lasciava altrettanto verdi sfumature sulla pelle giovane e irritata. Il silenzio, lo sporco non lo avevano ancora preso, mentre i suoi coetanei abbandonavano ogni presente e futuro insieme alla saliva sul dorso di una pecora.
Ad un cenno proveniente dall'interno della chiesa, il piccolo saltò in piedi dalla panchina ed entrò nella casa del Signore, ricevendo una scompigliata di capelli da un uomo che si muoveva nella direzione inversa, uscendo dalle porte in legno massiccio. Gesti come questi erano rari quando fatti da uomini con le mani secche e dure come intagliate nel granito sardo, ed Efisieddu, nonostante si mostrasse infastidito, era contento di quella breve tenerezza.
Seduto al banco della chiesa, di fianco ad una figura inginocchiata, parlava veloce. Non sembrava un prete l'altro. Anche perché quella parrocchia un prete lo aveva già, il vecchio don Giulio. Efisieddu non ci parlava con don Giulio se non la domenica mattina dopo la messa obbligato dalla madre, perché Tziu Mauriziu, che lavorava in continente a Milano ed era comunista, aveva portato un po' di quella roba in paese con lui quando era venuto per passare le ferie a casa. Ma la madre non voleva saperne di queste cose perché erano una famiglia per bene, e si faceva il segno della croce anche quando il marito diceva che forse con quel Marchis che voleva tutti uguali si stava bene. Poi però taceva quando la moglie gli rispondeva chinni prasciri prebeisi doppu, tui? - Chi pascola le pecore dopo, tu?

Tzia Cesara aveva i grossi seni penzolanti e morbidi come sacche cariche di panna, ed Efisieddu li vedeva ondeggiare ad ogni colpo dell'uomo. La porta della piccola casa non era al livello della strada, come molte in quel periodo, e permetteva al bambino di vedere attraverso un'apertura nella parte alta della porta, chiusa solamente da due grosse sbarre di metallo incrociate. Sugli scalini che permettevano a chi usciva dalla casa di arrivare sulla strada, il piccolo quindi arrivava a vedere senza neppure doversi alzare sulle punte dei piedi, dove un adulto invece si sarebbe dovuto inchinare e incassare nello spazio del muro.
La stanza era poco illuminata, e altro non vedeva che ogni tanto le mammelle della Tzia ed il culo dell'uomo che in quel momento se la montava non come facevano gli altri, che si buttavano tra is coscias aperte della Tzia immobile, ma come le pecore o i cani, attaccandosi alle grosse tette e sbavando, mordendo e ringhiando assieme alla donna.
L'uomo non era un militare americano, ne era sicuro. Non c'era nessuna divisa a terra, e nonostante gli abiti a terra fossero quelli del pastore (a differenza dell'odore, che non era di prebei e merda) era uno di fuori.
La Tzia non si muoveva. Da quando l'uomo si era scaricato, e pure molto a sentirne i versi, non si era mossa, e stava riversa sul letto, poggiata sulle mammelle, i capelli sul volto con una ciocca che spariva tra i denti bianchi.

Tzia Cesara era una puttana, ma questo l'interlocutore lo sapeva già. Lo stupiva il fatto che lo sapesse anche un bambino di quell'età, e domandò chi glielo aveva detto. Nessuno, ovviamente. Funta coddenti commenti is canisi quando li aveva visti. Scopando come i cani. Efisieddu non si vergognava della Tzia come la mamma ed il babbo, che non la invitavano la domenica al pranzo e diventavano rossi quando il prete venuto a mangiare tirava fuori l'argomento e non gli dicevano neppure della coscia di maialetto appena svezzato, o mezzo polletto, qualche uovo, che le mandavano a casa ogni settimana, per aiutarla perché a fare la bagassa non è che ci si guadagni poi molto, soprattutto in paese, dove a pagare in soldi non sono in tanti, e a volte per una coddata ci guadagnava solo un po' di pomodori.
Gli portava il cibo Efisieddu, correndo dalla zona alta vicino alle rovine della chiesetta di San Sebastiano per la strada sterrata che porta a Santa Barbara, tra le querce e i cinghiali, fino al limite dove c'erano le ultime case. Bussava urlando alla Tzia e lei, dopo aver aperto la porta, amorevolmente gli mostrava le grosse mammelle pendenti e scure con i capezzoli, mai ciucciati da un bambino ma solo da adulti, ancora più scuri. E lui, che non si era mai coddato una pecora ma non era mica caghino si sentiva eccitato, e prima di tornare a casa si infilava dentro al bosco con i pantaloncini corti calati fino alle caviglie ed il culo all'aria poggiato al tronco del quercio, e si metteva le mani là sotto, che mentre Don Giulio diceva che era peccato, Tziu Mauriziu lo faceva anche dieci volte al giorno perché a Milano le ragazze c'avevano la gonna che arriva fino all'albicocca e non c'erano prebeisi - non c'erano pecore.

Tzia Cesara non era l'unica puttana del paese. Ma tutti, tranne quelli a cui piacevano le pecore, le vecchie o le grasse come SciùSciù, andavano da lei.
Perché aveva i denti. Tutti. E non aveva nessuna malattia strana, non le mancava nessun braccio, nessuna gamba. Ma i denti erano più importanti, perché erano bianchi, forti, quando molti non solo non li possedevano chiari e sani, ma neppure li avevano.
Spesso i militari della base la pagavano in spazzolini e dentifrici, ma fin da bambina la Tzia si sfregava i denti, piccoli ed eburnei chicchi di melograno, con la parte opaca e morbida delle foglie di salvia, per rinfrescarsi poi con mentuccia da masticare.
Ora, stesa sul letto con una ciocca persa tra le labbra schiuse, Efisieddu pensava che la Tzia fosse morta. Non vedeva che qualcosa nasceva tra le sue palpebre chiuse, come non si vede la goccia di pioggia scivolare tra gli spacchi della corteccia ruvida del sughero.
Era invece distratto dal forestiero, perché aveva una mincia come quella del muenti – come quella dell'asino. Spiando la Tzia aveva visto tante mince, e spesso quando guardava dalle sbarre incrociate con gli amici facevano poi che se le misuravano uno di fronte all'altro per vedere chi lo aveva lungo come quello dei clienti, e facevano poi la lista.
Tori, il figlio del calzolaio ad esempio ce l'aveva come un mezzo cavallino; Sattori, quello che risparmiava tutto il mese le monete per una coddata con la Tzia, invece quando era duro ce lo aveva come loro.
Ma a quello gli penzolava giù come una salsiccia.

Tzia Cesara, coperta solo da stracci, era circondata da sei persone. La parte del gruppo più vicina al letto era composta dal fratello Antonio, sua moglie e dal prete don Giulio che tentava di calmare un fremente Efisieddu, mentre poco più indietro, poggiati al piccolo tavolo in castagno, osservavano il medico militare della base – l'Ufficiale Biaso Cioffi, un napoletano ormai da quasi quindici anni in paese – e un giovane. Tutti guardavano la donna come si può guardare una vacca gravida, come messi davanti ad un dolore animale, non umano, e quindi impossibile da comprendere.
Il giovane aveva appena finito di interrogare uno ad uno i parenti della donna nel privato silenzio dell'aura della chiesa di San Pietro, seduti sui lavatoi all'ombra degli alti eucalipti, e ormai tornato nel calore della casa si poté togliere la lunga sciarpa di lana, lasciando scoperto il candido collare romano.
Il ragazzo era stato inviato da Cagliari direttamente dal Vescovo per controllare. Don Francesco aveva taciuto a tante domande dell'anziano prete, consegnandogli unicamente una lettera dove il Vescovo in persona gli raccomandava il ragazzo. Così giovane, il prete di Cagliari gli incuteva timore, e don Giulio era risaputo fosse velenoso quasi più del serpente che la Madonna schiacciava col piede nella statua dentro la chiesa.
Mentre quindi l'anziano parroco e Antioca pregavano, il giovane inviato discuteva in italiano con l'ufficiale che gli mostrava un barattolo pieno di un liquido trasparente in cui galleggiava qualcosa.
Poi, facendosi strada tra i due che pregavano, il medico alzò il vestito della Tzia addormentata fino a scoprirle il ventre oltre la topa riccia e gonfia, e mostrò all'inviato la cicatrice che attraversava il ventre della donna da parte a parte.
Non le ha toccato altro diceva il medico, che altrimenti si poteva usare giusto per farci la cordula.

Tzia Cesara aveva il ventre gonfio. Insomma, era gravida come una pecora.
Efisieddu sapeva chi aveva ingravidato la Tzia, perché negli ultimi mesi aveva avuto sempre lo stesso cliente, quello con la mincia a salsiccia. Quello che invece il piccolo non sapeva era che la Tzia non poteva avere figli.
Quando ancora era una ragazza, Cesara aveva preso a lavorare a casa di una delle famiglie più ricche del paese, tali Corrolu, con un figlio di nome Gavino che era risaputo volesse coddarsi Cesara.
Quello che la ragazza non poteva immaginare è che tentasse di farlo senza il matrimonio, e soprattutto senza il suo consenso, un giorno che lei stava facendo i panni nel lavatoio della casa. Il giovane si era avvicinato, e aveva iniziato a strisciarsi la mincia sul didietro di Cesara, che era piegata sul lavabo mentre risciacquava i vestiti appena insaponati. La ragazza più di ajò ajò non diceva, che tanto Gavino di solito si finiva tutto nei calzoni da solo senza neppure toccarsi, ma quella volta, chinatosi pesantemente sopra la sua schiena, prese a strizzarle le mammelle, tanto che lei non riuscì a trattenere una smorfia di dolore e rovesciò tutto il catino col sapone e i vestiti puliti per terra.
Come si era inginocchiata singhiozzante per il dolore e il lavoro sprecato, Gavino l'aveva buttata a terra, e tirando fuori dai calzoni la tozza mincia dura, cercava di farsi strada tra gli strati di vestiti per coddarsela. Mica voleva accoltellarla, è che Cesara con quelle mammelle cascanti lo faceva sempre scaricare dentro i calzoni e quella volta invece voleva farlo dentro la sua topa, una sola volta. Aveva però cambiato idea quando un dolore aveva preso tutta la mincia, e abbassato lo sguardo al posto del membro c'erano solo le unghie sporche e scheggiate di Cesara che stringevano con forza un pezzo di carne insanguinato, e così la accoltellò, da parte a parte, solo per farle mollare la mincia.
Disse poi in giro che quella bagassa se l'era coddata e voleva sempre mincia, ma il giorno l'aveva minacciato di ucciderlo se non l'avesse sposata e lui si era solo difeso.
Quando due mesi dopo Cesara tornò in piedi, decise di fare l'unica cosa che una bella donna non in grado di figliare potesse fare.

Tzia Cesara non perdeva più sangue da quella umida ferita da anni ormai. Sbiadite, opache, dentro il barattolo di vetro trasparente identificabile da un'etichetta un po' rovinata dagli anni, c'erano le ovaie della Tzia.
Eppure ora era gravida come una cagna, col ventre teso e rosso di capillari sottili come fili da cucito e la pelle lucida come potesse lacerarsi nel rumore di uno strappo a breve.
Il giovane don Francesco era arrivato addirittura da Cagliari, solo per la Tzia. L'aveva infatti mandato a chiamare don Giulio appena saputo della miracolosa gravidanza. Ma siccome una puttana non può essere benedetta da un miracolo, anche se il nostro Signore Gesù Cristo ne ha perdonata una, è comunque bene sentire il Vescovo di Cagliari prima di fare santa una bagassa, che poi magari si crede Santa Maria Goretti...
Efisieddu non aveva mai visto quell'uomo.
L'atto, quando il piccolo guardava, si svolgeva al buio della piccola casa. Perché in quel tempo, quando una casa era piccola, lo era davvero. Quattro mura di pietra senza finestra, anche perché poi solo un lato avrebbe potuto ospitarla, ossia quello che dava sulla campagna. Mentre uno guardava la strada attraverso le sbarre incrociate, uno poggiava sul muro della casa degli Angioj, e l'altro si affacciava sulla proprietà dei Mameli, col terreno pieno di ghiande da almeno tre maiali. Dentro, l'abitazione era ancora più misera che a vederla dall'esterno, sebbene non fosse per niente sporca o malandata.
Un piccolo tavolo massello occupava quella che probabilmente era la zona giorno, con una cucina a gas sicuramente regalo del fratello e ancora fortemente sconosciuta al resto del paese, e due sedie coperte di stracci, vestiti e stoffa che testimoniavano come la maggior parte delle attività sociali di Tzia Cesara non si svolgesse intorno al tavolo. Da dietro la cucina a gas partiva un altro tubo, che terminava in un grosso fornello, utilizzato per fare la bagna, o a preparare l'acqua calda per far lavare i clienti nella vasca che stava attaccata alla parete. Per pulci e pidocchi aveva risolto con una polvere regalatale dai militari americani della base, che la usavano per eliminare la malaria in Sardegna.
Più semplice era invece la zona notte, o lavoro, che vedeva presente unicamente un letto sfatto, con doppie lenzuola: anche queste regalo del fratello scelte però dalla moglie, servivano un paio per dormire lei, ed un paio per i clienti, anche se negli ultimi mesi Efisieddu vedeva come la Tzia si dimenticasse sempre più di quel rito, che tanto il letto accoglieva ormai sempre la stessa persona.
Durante le notti, col silenzio interrotto a tratti dai gemiti morsi, nati nello stomaco e poi spinti su, con forza ma lentamente, come il percorso inverso di un boccone troppo grosso per essere ingoiato, la Tzia stringeva con intensità a se l'uomo, tanto che per qualche secondo dopo averlo mollato gli si potevano vedere gli aloni bianchi delle dita, e la stessa scena si ripeteva identica ogni volta. La Tzia, che sembrava diventare più bella dopo ogni incontro, giaceva come morta, le gambe morbide appena aperte nel rinfrescarsi la ferita, le valve carnose che lasciavano colare gli ultimi minuti, e la grossa mincia di quell'uomo che Efisieddu non riusciva a non guardare fino a quando non spariva dentro i pantaloni marroni di velluto, mentre il viso non rimaneva che un'ipotesi tra le ombre.

Mentre i primi denti sembravano cadere, pur senza motivo, in modo simmetrico, a coppie, ora era unicamente una questione di casualità determinare quali Tzia Cesara avrebbe sputato. La bocca della Tzia settimana dopo settimana stava diventando sempre più simile ad una rosea caverna liscia, priva di ogni asperità o forma che non fosse quella delle gengive.
Il problema non era solo quello. Se anche una bagassa sterile poteva essere ingravidata, non si sapeva quando avrebbe partorito quel piccolo bastardo perché nessuno sapeva quando erano state le ultime mestruazioni, senza contare che quell'enorme pancia non smetteva di ingrossarsi e che la Tzia era ormai incosciente praticamente la maggior parte del tempo.

Tzia Cesara era stata spostata da casa sua a quella del fratello, che stava nella parte alta del paese. Senza sensi e in quella condizione non poteva essere lasciata sola, e la casa di Antonio Piras era sicuramente più adatta ad accogliere la sorella gravida.
Magari, diceva Antioca, proprio un Gesù Cristo non ci nasce, che quella bagassa di tua sorella vergine non lo è mai stata, ma un Samuele sì, che sterile tanto lo è.
Come fervente cattolica, Antioca sperava che il miracolo avvenisse nella sua casa, e aveva trasformato la piccola cucina in una camera da letto per la cognata, essendo l'unica provvista di camino e quindi la più calda della dimora. Non passava ora senza che si avvicinasse piano alla donna addormentata per controllare che tutto andasse per il meglio, facendosi il segno della croce e sfiorando piano il ventre ingrossato attraverso la vestaglia appiccicata, e per evitare che la moglie stesse tutto il giorno china sulla sorella, Antonio aveva deciso che avrebbero controllato a turno le condizioni della Tzia.
Le faceva la guardia in quel momento, nel caso riprendesse conoscenza per pochi attimi come suo solito, Efisieddu seduto davanti al largo tavolo intagliato, che sbucciava con calma un clementino, avendo cura di togliere tutti i filamenti bianchi che gli rimanevano sempre in bocca ed era costretto a sputare. Con metodo, forse dettato più dalla noia di stare a controllare la Tzia invece di giocare, aveva diviso gli spicchi di mandarino puliti da quelli ancora bianchi, mentre i filamenti erano ammucchiati in una piccola discarica fuori dalla tovaglia arrotolata a metà tavolo.
Quando sentì il rumore d'acqua sul pavimento, pensò che la Tzia si fosse pisciata addosso, e gioì. Pronto a raggiungere lo spiazzo dove gli altri bambini giocavano, inspirò veloce l'aria calda e stantia della stanza per chiamare la madre appena aperta la porta, quando la Tzia cominciò ad urlare. La bocca era ormai svuotata dai denti, la pelle era sudata e stirata nell'atto così da far sembrare la Tzia un pesce fuori dall'acqua, boccheggiante alla ricerca degli ultimi istanti di vita.
Tra le gambe, non era piscio quello che usciva misto a sangue dalla topa. E subito capì.
Nella stanza affianco, quando si sentì urlare c'erano quasi tutti.
Antioca serviva delle pardule appena fatte all'Ufficiale, che ne osservava incantato l'impasto giallo ancora fumante saggiandone con un dito la morbidezza, mentre Antonio versava due tazze di vino rosato da dolce, che quasi non gli cadde quando sentì l'urlo appena attutito dalla porta semiaperta dal bambino.

Tzia Cesara stava partorendo. Le urla diventavano sempre più forti, più acute, mentre colavano giù dal letto gli ultimi rimasugli del liquido che era dentro di lei. Mentre Antioca entrava nella stanza seguita dall'Ufficiale, il piccolo Efisieddu aveva iniziato, senza che nessuno gli dicesse niente, a correre alla chiesa di San Pietro per avvisare i due sacerdoti. Antonio, ancora nel salotto dove erano fino a poco prima tutti quanti, svuotava delle brocche in un catino di rame da mettere a scaldare sul fornello mentre affilava sulla piccola pietra la sua rosoia da dare al medico della base per recidere il cordone ombelicale. Con un oggetto come quello non serviva il minimo sforzo, e le carni della sorella sarebbero state tagliate con precisione.
Il ventre era gonfio e pulsante, la topa era intrisa di sangue e si potevano distinguere i capillari col sangue nero, e quasi si poteva sentire la lentezza con cui il sangue ci si muoveva all'interno, arrancando in quei pochi millimetri di diametro.
Quando arrivarono i due sacerdoti, la donna stava già spingendo per buttare fuori dal suo corpo il frutto del presunto miracolo. Erano stati già decisi alcuni ruoli, e contrariamente a quello che sperava Efisieddu non era ben voluto all'interno della stanza, proprio ora che tutto si faceva interessante e non aveva alcuna intenzione di andare a giocare nella piazza davanti casa.
Antioca stava dietro la Tzia, accarezzandole il viso contorto dalle urla e dal dolore, e rinfrescandolo con acqua fredda della fontana. Al suo fianco i due sacerdoti che non volevano vedere la donna con la topa di fuori, pregavano mischiando salmi in latino con frasi in sardo e risposte in italiano, e cercavano di farle ripetere ai presenti, che mentre Antioca si sforzava per seguirli riproducendo il suono di quei termini sconosciuti, Antonio li mandava sotto voce a farsi inculare dagli asini.
Quando qualcosa iniziò a farsi strada fuori dal corpo della Tzia, solo l'Ufficiale Cioffi si rese conto che qualcosa non andava. La gravidanza era stata troppo lunga, a quanto aveva capito più di un anno, e lui credeva che la puttana sarebbe schiattata prima, o avrebbe cagato non un santo, ma un morto.
Più la topa della donna si dilatava, più urlava. Spingeva, e da un momento all'altro si poteva svuotare l'intestino per lo sforzo, rendendo tutto più difficile e poco igienico, oltre che schifoso.
Ma dopo aver visto, anche la merda gli andava bene. E la Tzia aveva smesso di urlare, occhi chiusi, bocca aperta piena di saliva.

Tra le mani, il dottore aveva un piccolo corpo vivo. Sporco di sangue e liquido, muoveva debolmente braccia e gambe non abituate all'aria, e lo guardava sorridente. Gli occhi, bianchi e vitrei erano aperti, ed il pelo era appiccicato al muso.
Sopra il corpo di un bambino, una testa caprina lo guardava e sorrideva. Con denti umani.
 

Rebaf

Get a life
Fantacalciaro
Asd.. ma è tuo il racconto, pepito?

Se sì complimenti, un Verga post-moderno quasi :tru:
 

Rebaf

Get a life
Fantacalciaro
Sì ma tanto quelli si correggono subito se uno deve farlo girare sul serio, pero' davvero mi è piaciuto.
 

davr

Chosen one
no, dai, son circa 6 pagine, ma era anche l'unico in gara, quindi tanto valeva mettercelo per non buttare il lavoro fatto..
 

The Shiran Reborn

Chosen one
:)

Non l`ho chiesto per far polemica. L`ho chiesto giusto per farmi un`idea altrimenti scriverei 80 pagine.

Comunque hai vinto. Decidi il prossimo tema che voglio partecipare questa volta. :V
 

The Shiran Reborn

Chosen one
La facciamo scadere a Marzo? :V
Cosí diamo tempo a chi ancora non l`ha notato di partecipare.
Bisognerebbe aggiornare questo thread (o farne un`altro) e chiedere la realizzazione di una News.
 

davr

Chosen one
sì, anche perché non ho ancora iniziato :V
se Ostre passa di qui magari legge, altrimenti rompo il cazzo a qualcun altro
 

Ostrègone

GIF MASTER
Fantacalciaro
Avevo il pc rotto da una ventina di giorni, datemi un po' di tempo per riaggiornarmi bene. :V
 
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