[Repubblica della Serenissima] La riforma edile del Maggior Consiglio

Toga!

Chosen one
"Ghe se ne vedono de cose, mio caro doxe, che noialtri de sicuro potremo anche star di più allo mondo. N'avemo suonate di ogni parte alla Zena pidocchia, che se lo si sente nè, lo si sente il bruciare de le ciape ne lo 'nferno di quei bastardi taccagni!"
[tt]dai diari di Enrico Dandolo: "Discorso di Michele Badoer l'indomani della Vittoria di Logudoro"[/tt]



Pietro Dandolo, vestito d'ermellino e di un tonacale rosso, sorrideva. La giornata a Venezia era piena di sole, non una nuvola in cielo, l'andirivieni della zecca voluta dal suo illustre avo, Enrico Dandolo, il Patriarca, era frenetico.
Ne era passata d'acqua sotto i calli, da quando Pietro Polano se ne era tornato a metà della Seconda Crociata con l'intera flotta pisana derubata a quei grulli toscani. Roba più da rapina che da Duca d'Aquileia, ma li incominciò il dominio inconstrastato della Serenissima. Un dominio durato 45 anni, passati a commerciare e a dar lezione ai mori, fino all' annichilimento della flotta ziride, che di ziride aveva ben poco, finanziata e resa enorme da quelli stessi denari che Venezia aveva contribuito a far accumulare ai mercanti moreschi d'ogni latitudine.

"Ghe sono uomini che tiran sempre lo zecchin dallo mismo lato. E creon, così' facendo, ch' esto caschi sempre dalla parte del cul! Ma le fortune son divine, e e non si mirano mai con l'ocio d'un omo parocco, sempre e sol con l'attributa della divinitade: l'intellighenzia, la dignitas e lo 'ngegno!"
Dettò al segretario.

Gli piaceva dettare. Lo aveva sempre fatto. Dettava ordini commerciali, dettava memoriali, dettava disegni di legge, dettava i propri discorsi. Quello che avrebbe fatto dettare oggi segnava il ritorno dei Dandolo ad una politica attiva, all'interno della Serenissima. L'onta toccata ad Enrico era figlia della troppa potenza del Patriarca. Lo colse la disgrazia quando ancora era in età per reggere la Repubblica fino ai giorni che ora spettavano al nipote. Una distrazione, un viaggio troppo lungo fino alla lontana Santatoga, i navigli bloccati da quel Michiel e da quel Badoer che tanto ricevettero in onori e denari, e che tramarono. GLi fu mantenuto il titolo di Patriarca, ed Enrico che era conosciuto da tutti per la freddezza, non se ne ebbe a male. Chiuse i suoi giorni cadendo da cavallo, ben conscio che le sue energie non andavano sprecate, mentre forgiava il suo nipote diletto, alle arti della politica, della polemica e dei denari.

Ad ogni modo era acqua passata. Pietro sapeva cosa serviva a Venezia. Serviva accortezza, gestione oculata, gelido controllo. Mezzo mondo considerava i lagunari degli spericolati e dei triplgiochisti. Nulla di più sbagliato. Pietro Dandolo sapeva che la cosa che aveva fatto di Venezia la ricca nazione che era, semplicemente risiedeva nel mantenimento dei patti. I Veneziani avevano l'abitudine di promettere poco. E quel che promettevano facevano. Quello che non promettevano era concesso farlo senza nessuna pietà, con calcolo freddo e logico. Oggi avrebbe ribadito al Maggior Consiglio, che il vento, dall' est della Persia, dalla Siria, da San Rebbo di Tiro ottenuta senza versare una goccia di sangue, soffiava ancora. E gonfiava le vele della vecchia galea innanzi al Canal Grande, esattamente come il fiocco dell'unica vera e sola dinastia politica che, questa Serenissima Repubblica, l'aveva creata dal nulla.

"Hodie Enrico soride e non china il capo..." Il segretario lo guardò come se dovesse aggiungere nuovamente al discorso la frase scappata alle labbra al proprio sire. "Non scrivat!" ribattè subito il maggiorente dei Romèni, "miserere al buon nome del mio Pater. Che n'è vero che l'abbia mai chinata!" disse pentitosi di aver solo pensato quella sentenza.

Così facendo si avviò verso la porta e s'incamminò in direzione di Palazzo Vecchio.
 
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