Il napoletano è una lingua che prospera nei liquami, nelle nefandezze e nelle secrezioni corporali. Esistono lemmi differenti per identificare il muco che si forma negli occhi al mattino, e quello del naso, vocaboli più o meno onomatopeici per indicare le differenti modulazioni di frequenza delle diverse flatulenze, e più termini per differenziare gli sputi, a seconda della loro consistenza. Altresì esistono centinaia di parole atte ad offendere il prossimo, specie se femmina, e la lista di sinonimi degli organi genitali maschili e femminili si perde lungo la linea dell'orizzonte.
È altresì vero che la lingua campana è melodica, e ben si presta al cantato ed al recitato. Trova quindi il suo terreno più fertile, anzi una vera e propria evoluzione naturale, nella poesia.
La tradizione della poesia erotica, o comunque popolare napoletana, è stata florida, e da sempre osteggiata dai potenti. Il fatto curioso è che molti tra gli autori più antichi fanno proprio parte di quell'aristocrazia che si impegnava nella censura. Fortunatamente, questi versi hanno strisciato e sgattaiolato, di bocca in bocca, di libello in libello, fino ai giorni nostri, dove han trovato quella dignità letteraria che han sempre meritato.
Se gradite soffermarvi su questo intervento, vorrei farvi leggere qualche opera, o meglio, vorrei farvela ascoltare.
Come dicevo prima, la lingua napoletana è fatta per l'orecchio più che per l'occhio, anche perché, come tanti altri idiomi dello stivale, soffre di una carenza grafemistica per identificare al colpo d'occhio i numerosi fonemi assenti nell'italiano odierno. Questo rende la lettura macchinosa e lenta persino agli occhi di un madrelingua.
Fortuntamente ci viene incontro youtube: esiste una vetusta quanto provvidenziale raccolta di poesie sconce napoletane, curata dal giornalista Angelo Manna e recitata dal grande Aldo Giuffré, intitolata "L'Inferno della poesia erotica napoletana", celeberrima da queste parti, e presente in tutte le case, più o meno come la Bibbia, in formati ahimé ormai inaccessibili, come le musicassette. Esistono anche delle letture interpretate da Gassman, ma, non me ne voglia il Mattatore, cercherò, quanto possibile, di restare fedele a Giuffré.
Assieme alle poesie recitate, inserirò il testo ed una traduzione semplice fatta da me. Laddove sia abbastanza informato, aggiungerò una piccola introduzione che può rendervi più chiare le cose. Dato che l'etimologia è una delle mie passioni, affiancherò alla traduzione un piccolo apparato con qualche cenno sulle origini dei vocaboli più interessanti, aiutandomi con dei sovrascritti. Purtroppo non esiste un Thesaurus Linguae Neapolitanae, ergo dovrete accontentarvi delle mie conoscenze di base, o di qualcosa che riesco a trovare in giro.
Cominciamo proprio con Angelo Manna, il curatore della suddetta raccolta.
ANGELO MANNA
A Giacomo Leopardi
"Vedi Napoli e poi muori", recita il detto. Per Leopardi fu così: venuto nella città di Partenope in cerca di un clima più adatto ai suoi numerosi acciacchi, vi trovò invece il Mietitore. I reperti ufficiali parlano di "idropisia", c'è più di una voce, però, che sostiene che galeotta fu una granita al limone di troppo, da parte del ghiotto marchigiano. Come biasimarlo, del resto? All'epoca, Napoli era vittima di un'epidemia di colera, malattia che più di un secolo dopo ha dato tanto ai detrattori di questa città. Gli amici di Giacomino riuscirono a salvare le sue spoglie dal rogo, e a fargli intestare una colonna commemorativa nei pressi del Parco di Virgilio, a Piedigrotta, nei pressi del collega mantovano. Manna si trova proprio davanti alla tomba del poeta di Recanati quando non può fare a meno di esprimere il suo dissenso per il tema centrale della poetica leopardiana, il pessimismo cosmico.
Na tanfa 'e 'nchiuso, n'aria 'e campusanto
spannette tuorno tuorno, addo' 'a jettaste,
sta rimma toja, muféteca e ammurbanta
chiena 'e patenze, tutta mierche e gnaste[sup]1[/sup].
Avisse scritto maje: « stono in salute,
oggi mi sento il cuorio in allecrìa... »
Niente: na mutria[sup]2[/sup] eterna, nu tavùto[sup]3[/sup],
na morta 'ncuollo a ogne passo 'e via.
L'ommo fuj' fatto ca nu surzo doce
sott' 'o cantaro[sup]4[/sup] 'e fele pure 'o trova:
à vita nun è maj' tutta na croce:
e pure tu n'avist 'a 'vé na prova.
E invece no! Chissà che te custava
d'ausà pure 'a panella assiem' 'a mazza![sup]5[/sup]
E mo vulisse ca scrivesse « Bravo! »?
Ma va fa nculo! Nun ce scassà 'o cazzo.
Un tanfo di chiuso, un'olezzo da cimitero
si sparse attorno a dove lasciasti
questa tua rima, ammuffita e pestilenziale,
piena di patemi, tutta ricoperta di sbucciature e lividucoli.[sup]1[/sup]
Avessi mai scritto :<<Sto bene,
oggi mi sento allegro nel cuore...>>.
Niente. Sempre un viso lungo[sup]2[/sup], una bara[sup]3[/sup],
Porti la morte in ogni strada che bazzichi.
L'uomo fu fatto per trovare un sorso dolce
persino sul fondo di un vaso[sup]4[/sup] di fiele:
la vita non è mai solo sofferenza;
e persino tu avresti dovuto averne prova.
E invece no! Ma cosa ti costava
usare la carota assieme al bastone?[sup]5[/sup]
Ora vorresti che io scriva <<Bravo!>>?
Ma vai a fanculo e non romperci il cazzo!
__________________________________
[sup]1. Mierche e gnaste:[/sup]Soffermiamoci su questi "mierche e gnaste". "Mierco" (ma anche nella versione femminile "merca") deriva dal germanico "marka", che stava ad indicare i sigilli, i bolli e le ceralacche, i segni, appunto, che identificavano qualcosa. Col tempo, è passata ad identificare un altro marchio, quello inflitto sulla persona, spesso "a sfregio", cioé intenzionalmente. Inoltre, identifica tuttora le sbucciature, tipiche dei bambini che giocano in strada, sulle ginocchia e sui gomiti. Tagli leggeri, ma che lasciano il segno, un marchio di infamia per il pargolo che torna a casa e subisce l'ira della madre. "Gnasta" (che può anche essere "nchiasta", per vari fenomeni metatetici che fanno spesso passare il suono ng- a gn- e viceversa) deriva probabilmente dal latino "Emplastrum", da cui ha origine l'italiano "impiastro". In napoletano spesso identifica delle seccature minori, o, declinato al vezzeggiativo/riduttivo "nchiastillo" o "nchiastella", dei personaggi piccoli e vanesi. Divertente ricordare che erano così detti anche i nei posticci che andavano tantissimo di moda nei secoli scorsi. Nel caso della poesia, invece, si riferisce a piccoli ematomi dalla scarsa entità, dei lividi minuscoli. È chiaro l'intento di Manna di paragonare le sofferenze del Leopardi a graffi e bubboni insignificanti, a qualcosa di vano; affiancato a "patenze", è facile pensare ad un personaggio che si lamenta in maniera teatrale di danni totalmente superficiali.
[sup]2. Mutria:[/sup]"Mutria" sta a indicare il broncio, il labbro sporgente tipico di chi è triste, e, per sinestesia, il tipico "muso lungo", la faccia dei depressi. È un termine molto antico, che deriva dal latino "mutulus", vocabolo che sta ad identificare il nicchio di mare, una conchiglia tonda e sporgente che ricorda proprio il nostro labbro esposto nei momenti di insoddisfazione. Troviamo dei corrispettivi in due delle lingue che più hanno influito sul napoletano moderno, il francese e lo spagnolo, "mourre" e "morra", dall'analogo significato.
[sup]3. Tavuto:[/sup] vocabolo che identifica la bara o, per sinestesia, il morto. Si usa spesso dire "Ten 'o taut in casa" per indicare l'incombenza di un lutto grave che ha sconvolto una famiglia, ma anche in senso figurato, come una sorta di spettro che ruba l'allegria in un ambiente. L'origine è controversa, sono attestati gli arabi "tabu't" e spagnoli "ataut", che indicano uno scrigno o un contenitore. C'è anche un certo onomatopeismo, basti pensare al suono che fa una bara vuota quando sbatte o viene percossa. Si parla anche di un'origine greca, più probabile, dal verbo "thapto", dato che vuol dire "seppellire".
[sup]4. Cantaro:[/sup] è un termine che sta ad indicare una vasta gamma di recipienti di solito larghi e panciuti, deriva dal latino "cantharus", che, come ci ricorda la H interna al nome, ha origine greca. Il "kantharos" è infatti una grossa coppa da cui si beve il vino, spesso associata col culto di Dioniso. Val la pena ricordare che il "cantaro" era anche una vecchia unità di misura usata ai tempi del Regno, che corrispondeva grosso modo ad un quintale, derivante dall'arabo "qintar", da cui deriva il nostro "quintale". Entrambi i termini hanno indubbie discendenze dal latino "centenarus": ricordate che la "c" di "ciondolo" in latino non esisteva, quindi va letto "kentenarus"... e sì, anche "Kaesar". Giulio Kesare.
[sup]5. Mazza e panella:[/sup] come suggerisce la traduzione, è la versione partenopea della "carota e bastone". Solo che, a differenza del detto italiano, il destinatario del modo di dire non è un ciuco o un cavallo, ma delle persone, di solito i figli: "mazza e panella fann e figlji bell" è un proverbio che indica il corretto modo di crescere la prole, secondo la saggezza popolare. La "panella" non è altro che una pagnotta, anche qui la discendenza dal latino "panis", addolcito dal riduttivo, è netta. Spesso il napoletano è ben più conservativo dell'italiano toscano nei confronti del latino, soprattutto per la sua discendenza osca, una lingua molto conservativa. Gli Osci hanno mantenuto per più tempo una propria identità culturale anche sotto l'impero (si pensi che sono attestate esibizioni di “atellana”, una tipica piéce tetrale osca abbastanza simile al Bagaglino, con improvvisazioni e canti, ancora all'epoca di Augusto, e son presenti parecchi graffiti in osco sulle mura di Pompei).
È altresì vero che la lingua campana è melodica, e ben si presta al cantato ed al recitato. Trova quindi il suo terreno più fertile, anzi una vera e propria evoluzione naturale, nella poesia.
La tradizione della poesia erotica, o comunque popolare napoletana, è stata florida, e da sempre osteggiata dai potenti. Il fatto curioso è che molti tra gli autori più antichi fanno proprio parte di quell'aristocrazia che si impegnava nella censura. Fortunatamente, questi versi hanno strisciato e sgattaiolato, di bocca in bocca, di libello in libello, fino ai giorni nostri, dove han trovato quella dignità letteraria che han sempre meritato.
Se gradite soffermarvi su questo intervento, vorrei farvi leggere qualche opera, o meglio, vorrei farvela ascoltare.
Come dicevo prima, la lingua napoletana è fatta per l'orecchio più che per l'occhio, anche perché, come tanti altri idiomi dello stivale, soffre di una carenza grafemistica per identificare al colpo d'occhio i numerosi fonemi assenti nell'italiano odierno. Questo rende la lettura macchinosa e lenta persino agli occhi di un madrelingua.
Fortuntamente ci viene incontro youtube: esiste una vetusta quanto provvidenziale raccolta di poesie sconce napoletane, curata dal giornalista Angelo Manna e recitata dal grande Aldo Giuffré, intitolata "L'Inferno della poesia erotica napoletana", celeberrima da queste parti, e presente in tutte le case, più o meno come la Bibbia, in formati ahimé ormai inaccessibili, come le musicassette. Esistono anche delle letture interpretate da Gassman, ma, non me ne voglia il Mattatore, cercherò, quanto possibile, di restare fedele a Giuffré.
Assieme alle poesie recitate, inserirò il testo ed una traduzione semplice fatta da me. Laddove sia abbastanza informato, aggiungerò una piccola introduzione che può rendervi più chiare le cose. Dato che l'etimologia è una delle mie passioni, affiancherò alla traduzione un piccolo apparato con qualche cenno sulle origini dei vocaboli più interessanti, aiutandomi con dei sovrascritti. Purtroppo non esiste un Thesaurus Linguae Neapolitanae, ergo dovrete accontentarvi delle mie conoscenze di base, o di qualcosa che riesco a trovare in giro.
Cominciamo proprio con Angelo Manna, il curatore della suddetta raccolta.
ANGELO MANNA
A Giacomo Leopardi
"Vedi Napoli e poi muori", recita il detto. Per Leopardi fu così: venuto nella città di Partenope in cerca di un clima più adatto ai suoi numerosi acciacchi, vi trovò invece il Mietitore. I reperti ufficiali parlano di "idropisia", c'è più di una voce, però, che sostiene che galeotta fu una granita al limone di troppo, da parte del ghiotto marchigiano. Come biasimarlo, del resto? All'epoca, Napoli era vittima di un'epidemia di colera, malattia che più di un secolo dopo ha dato tanto ai detrattori di questa città. Gli amici di Giacomino riuscirono a salvare le sue spoglie dal rogo, e a fargli intestare una colonna commemorativa nei pressi del Parco di Virgilio, a Piedigrotta, nei pressi del collega mantovano. Manna si trova proprio davanti alla tomba del poeta di Recanati quando non può fare a meno di esprimere il suo dissenso per il tema centrale della poetica leopardiana, il pessimismo cosmico.
http://www.youtube.com/watch?v=UHF_AVnuFeY
spannette tuorno tuorno, addo' 'a jettaste,
sta rimma toja, muféteca e ammurbanta
chiena 'e patenze, tutta mierche e gnaste[sup]1[/sup].
Avisse scritto maje: « stono in salute,
oggi mi sento il cuorio in allecrìa... »
Niente: na mutria[sup]2[/sup] eterna, nu tavùto[sup]3[/sup],
na morta 'ncuollo a ogne passo 'e via.
L'ommo fuj' fatto ca nu surzo doce
sott' 'o cantaro[sup]4[/sup] 'e fele pure 'o trova:
à vita nun è maj' tutta na croce:
e pure tu n'avist 'a 'vé na prova.
E invece no! Chissà che te custava
d'ausà pure 'a panella assiem' 'a mazza![sup]5[/sup]
E mo vulisse ca scrivesse « Bravo! »?
Ma va fa nculo! Nun ce scassà 'o cazzo.
Un tanfo di chiuso, un'olezzo da cimitero
si sparse attorno a dove lasciasti
questa tua rima, ammuffita e pestilenziale,
piena di patemi, tutta ricoperta di sbucciature e lividucoli.[sup]1[/sup]
Avessi mai scritto :<<Sto bene,
oggi mi sento allegro nel cuore...>>.
Niente. Sempre un viso lungo[sup]2[/sup], una bara[sup]3[/sup],
Porti la morte in ogni strada che bazzichi.
L'uomo fu fatto per trovare un sorso dolce
persino sul fondo di un vaso[sup]4[/sup] di fiele:
la vita non è mai solo sofferenza;
e persino tu avresti dovuto averne prova.
E invece no! Ma cosa ti costava
usare la carota assieme al bastone?[sup]5[/sup]
Ora vorresti che io scriva <<Bravo!>>?
Ma vai a fanculo e non romperci il cazzo!
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[sup]1. Mierche e gnaste:[/sup]Soffermiamoci su questi "mierche e gnaste". "Mierco" (ma anche nella versione femminile "merca") deriva dal germanico "marka", che stava ad indicare i sigilli, i bolli e le ceralacche, i segni, appunto, che identificavano qualcosa. Col tempo, è passata ad identificare un altro marchio, quello inflitto sulla persona, spesso "a sfregio", cioé intenzionalmente. Inoltre, identifica tuttora le sbucciature, tipiche dei bambini che giocano in strada, sulle ginocchia e sui gomiti. Tagli leggeri, ma che lasciano il segno, un marchio di infamia per il pargolo che torna a casa e subisce l'ira della madre. "Gnasta" (che può anche essere "nchiasta", per vari fenomeni metatetici che fanno spesso passare il suono ng- a gn- e viceversa) deriva probabilmente dal latino "Emplastrum", da cui ha origine l'italiano "impiastro". In napoletano spesso identifica delle seccature minori, o, declinato al vezzeggiativo/riduttivo "nchiastillo" o "nchiastella", dei personaggi piccoli e vanesi. Divertente ricordare che erano così detti anche i nei posticci che andavano tantissimo di moda nei secoli scorsi. Nel caso della poesia, invece, si riferisce a piccoli ematomi dalla scarsa entità, dei lividi minuscoli. È chiaro l'intento di Manna di paragonare le sofferenze del Leopardi a graffi e bubboni insignificanti, a qualcosa di vano; affiancato a "patenze", è facile pensare ad un personaggio che si lamenta in maniera teatrale di danni totalmente superficiali.
[sup]2. Mutria:[/sup]"Mutria" sta a indicare il broncio, il labbro sporgente tipico di chi è triste, e, per sinestesia, il tipico "muso lungo", la faccia dei depressi. È un termine molto antico, che deriva dal latino "mutulus", vocabolo che sta ad identificare il nicchio di mare, una conchiglia tonda e sporgente che ricorda proprio il nostro labbro esposto nei momenti di insoddisfazione. Troviamo dei corrispettivi in due delle lingue che più hanno influito sul napoletano moderno, il francese e lo spagnolo, "mourre" e "morra", dall'analogo significato.
[sup]3. Tavuto:[/sup] vocabolo che identifica la bara o, per sinestesia, il morto. Si usa spesso dire "Ten 'o taut in casa" per indicare l'incombenza di un lutto grave che ha sconvolto una famiglia, ma anche in senso figurato, come una sorta di spettro che ruba l'allegria in un ambiente. L'origine è controversa, sono attestati gli arabi "tabu't" e spagnoli "ataut", che indicano uno scrigno o un contenitore. C'è anche un certo onomatopeismo, basti pensare al suono che fa una bara vuota quando sbatte o viene percossa. Si parla anche di un'origine greca, più probabile, dal verbo "thapto", dato che vuol dire "seppellire".
[sup]4. Cantaro:[/sup] è un termine che sta ad indicare una vasta gamma di recipienti di solito larghi e panciuti, deriva dal latino "cantharus", che, come ci ricorda la H interna al nome, ha origine greca. Il "kantharos" è infatti una grossa coppa da cui si beve il vino, spesso associata col culto di Dioniso. Val la pena ricordare che il "cantaro" era anche una vecchia unità di misura usata ai tempi del Regno, che corrispondeva grosso modo ad un quintale, derivante dall'arabo "qintar", da cui deriva il nostro "quintale". Entrambi i termini hanno indubbie discendenze dal latino "centenarus": ricordate che la "c" di "ciondolo" in latino non esisteva, quindi va letto "kentenarus"... e sì, anche "Kaesar". Giulio Kesare.
[sup]5. Mazza e panella:[/sup] come suggerisce la traduzione, è la versione partenopea della "carota e bastone". Solo che, a differenza del detto italiano, il destinatario del modo di dire non è un ciuco o un cavallo, ma delle persone, di solito i figli: "mazza e panella fann e figlji bell" è un proverbio che indica il corretto modo di crescere la prole, secondo la saggezza popolare. La "panella" non è altro che una pagnotta, anche qui la discendenza dal latino "panis", addolcito dal riduttivo, è netta. Spesso il napoletano è ben più conservativo dell'italiano toscano nei confronti del latino, soprattutto per la sua discendenza osca, una lingua molto conservativa. Gli Osci hanno mantenuto per più tempo una propria identità culturale anche sotto l'impero (si pensi che sono attestate esibizioni di “atellana”, una tipica piéce tetrale osca abbastanza simile al Bagaglino, con improvvisazioni e canti, ancora all'epoca di Augusto, e son presenti parecchi graffiti in osco sulle mura di Pompei).