Storia 1993 - la guerra in Europa, la morte dell'interesse nazionale

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IL PARTITO TI OSSERVA
Vi copio-incollo l'editoriale del primo numero di Limes.

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La nostra rivista compare mentre la Prima Repubblica tocca il punto più basso
della sua parabola. Da mesi se ne annuncia la morte, in un clima da finis Italiae. Mentre il prestigio e la legittimazione delle istituzioni, dei partiti, della politica (della democrazia?) precipita verso lo zero assoluto, e all’estero riecheggiano i luoghi comuni sull’Italietta, è facile cedere all’autodenigrazione o allo sconforto.


Facile ma pericoloso. In questi frangenti si impone invece una fredda analisi delle ragioni di un declino e delle prospettive che, malgrado o in conseguenza del trauma attuale, si aprono per il nostro futuro di italiani e di europei. Perché noi crediamo che, nonostante le apparenze, l’Italia abbia ancora un ruolo importante e specifico da svolgere. Ad esso ci richiamano, fra l’altro, i nostri partner comunitari.


È con questo spirito che Limes intende sollecitare la riflessione sull’interesse nazionale italiano. Nei fortunati decenni del «semiprotettorato» americano l’Italia ha goduto di una condizione di privilegio geopolitico. Essa ha favorito lo sviluppo e la modernizzazione del paese, un’impresa la cui memoria nessuna crisi attuale o futura potrà cancellare.


Ma la nostra rendita di posizione, garantita dal bipolarismo, ci ha anche emancipato dal dovere di pensare il nostro posto in Europa e nel mondo. Protetto dall’ombrello atlantico, membro fondatore della Cee, il nostro paese ha utilizzato il campo occidentale come schermo dietro cui celarsi per evitare di assumere un profilo autonomo.


Nella glaciazione ideologico-strategica della guerra fredda le nostre élite potevano certo coltivare spazi e rapporti politico-commerciali privilegiati, specialmente con il mondo arabo e con alcuni dell’Est. Ma in una simile costellazione il discorso pubblico sull’interesse nazionale non aveva alcuna possibilità di avviarsi.


A impedirlo cospiravano fattori culturali e geopolitici. Vediamoli partitamente.



1) La cultura politica della Prima Repubblica ha rimosso la nazione. Che fosse il cattolicesimo sociale o il marxismo di derivazione neoidealista, o una fusione dei due, la koiné delle nostre élite politiche e intellettuali ha espunto l’idea della nazione.


Le distorsioni della nostra democrazia hanno in questo deficit di cultura nazionale la loro causa prima. Senza cultura della nazione non era possibile incardinare il valore della cittadinanza, tantomeno il senso dello Stato, in un paese che non poteva comunque attingere a una tradizione democratica profonda e condivisa.


Il ricorso al moralismo o a un «patriottismo della costituzione» di sapore pedagogico non può oggi nulla contro il ridestarsi delle mitografie etniche, localistiche, o financo dei nazionalismi ipertrofici e bellicosi.



2) La peculiarissima democrazia italiana nasce dal trauma geopolitico della sconfitta nella seconda guerra mondiale e del conseguente brusco declassamento a potenza di terza categoria. Marca occidentale del mondo democratico-capitalistico, durante la guerra fredda l’Italia ha tuttavia evitato di ridursi a «Bulgaria della Nato».


Ciò anche grazie a due eccezionali fattori di innalzamento nella gerarchia internazionale: il suo grande e relativamente originale partito comunista, che dal punto di vista geopolitico restava pur sempre il referente italiano della superpotenza nemica, verso cui fungeva contemporaneamente da tramite di istanze occidentali (un solo esempio: che cosa sarebbe stato dell’Ostpolitik di Brandt senza il supporto e la mediazione del Pci di Berlinguer?); e soprattutto la Chiesa di Roma, il cui magistero si diffonde attraverso e oltre le nazioni, su scala planetaria.


Garantita e incentivata dagli Stati Uniti nella sua trasformazione da paese prevalentemente rurale a potenza economico-commerciale, l’Italia ha cercato di surrogare con l’atlantismo e l’europeismo la sua carente coscienza nazionale. Ma, per contrappasso, atlantismo e europeismo hanno agito come anestetici del pensiero geopolitico italiano.


Il primo risolvendosi in utile necessità, comunque non implicante l’adesione toto corde ai valori liberaldemocratici, ciò che ci ha impedito di pensare il secondo al di fuori e al di sopra del funzionalismo o del pedagogismo astratto. E se la ritrovata vocazione mercantile ha fatto dell’Italia la seconda potenza commerciale europea, la natura compromissoria e frammentata delle istituzioni, prive del cemento di una cultura nazionale, ha bloccato le sinergie utili a strutturare quel sistema-paese di cui necessitiamo per affrontare la concorrenza internazionale.


Il crollo del comunismo ha oggi distrutto la nicchia protettiva che mascherava i nostri limiti politico-culturali e ingessava i frammenti di una nazione largamente incompiuta. Il tracollo del comunismo all’Est rischia di trascinare con sé anche l’insieme geopolitico transatlantico che gli europei, in special modo i britannici, quasi imposero agli Stati Uniti di costruire sulle ceneri del nazifascismo.


Per mezzo secolo l’Europa si è lasciata americanizzare, mentre l’America ha accettato di lasciarsi (sia pure molto parzialmente) contaminare dal Vecchio Continente. Ma quella privilegiata combinazione - Europa americana più America europea - non può sopravvivere alla scomparsa dell’arcinemico senza ripensarsi su fondamenta più consapevoli.


Se l’atlantismo ha un futuro anche nel clima di latente disimpegno americano dall’Europa, esso si radicherà solo nel processo di apprendimento che tutte le democrazie continentali sono chiamate ad avviare per essere all’altezza delle loro nuove responsabilità.


Un impegno specialmente doloroso per l’Italia, che in questa competizione sopporta il peso del suo ritardo di cultura nazionale e di pensiero geopolitico. Ma chissà che proprio questa arretratezza non si risolva in vantaggio rispetto a paesi che proprio per aver già affrontato e apparentemente risolto la questione nazionale sono oggi meno disponibili a riorientarsi nel mondo sconvolto dal secondo Ottantanove.


Senso e valore del ragionamento geopolitico


Non è un caso che il termine «geopolitica», colpito da ostracismo in quanto strumento dell’imperialismo nazista e fascista, sia tornato agli onori della cronaca nel 1978-79, durante la guerra che oppose il Vietnam alla Cambogia e poi alla Cina.


Un avvenimento di speciale rilievo, che ci ricordava come al di là dell’ideologia e del sistema economico-sociale comune sussistessero tuttavia i conflitti territoriali: due paesi socialisti - fenomeno difficile da ammettere per la sinistra - potevano nondimeno combattersi.


Certo, le due superpotenze della guerra fredda, gli Usa e l’Urss, non avevano il minimo interesse a che fra i loro clienti o satelliti si sviluppasse un ragionamento sullo spazio, il territorio e le frontiere. Ciascuno, a suo modo e nel suo campo, fece di tutto per impedirlo. Ma con la glasnost gorbacioviana e in particolare con la spinta indipendentista nei paesi baltici, nulla restava come prima.


Oggi i conflitti si moltiplicano e il concetto di nazione è controverso. Dobbiamo dunque ricominciare a pensare in termini di poste in gioco territoriali. Eliminiamo subito un primo equivoco: più che una scienza, la geopolitica è un sapere nel senso di Foucault, o meglio un ragionamento.


È per noi escluso il ritorno alla concezione in voga nelle accademie, soprattutto tedesche, di fine Ottocento, per cui la Storia universale si spiegava sulla base di Leggi generali. Questa scuola, che aveva in Friedrich Ratzel il suo massimo esponente, produceva miti geopolitici estremamente pericolosi.


Ma gli imperi continentali non sono destinati a combattere contro le grandi isole, come voleva quel determinismo geografico. Al contrario, il ragionamento geopolitico tratta sempre casi specifici e riproduce i rapporti di forza anzitutto sulle carte.


Esso non elude alcuna argomentazione, fosse pure estrema o estremista, e giustappone in una visione contrastiva i progetti più contraddittori: le rappresentazioni francese o tedesca dell’Alsazia-Lorena (giacobinismo versus etnie), italiana o austriaca dell’Alto Adige-Sud Tirolo, costituiscono un buon esempio di coppie geopolitiche oppositive.


Inoltre, questo ragionamento può svilupparsi su scale assai differenti: la penetrazione del fondamentalismo islamico in Africa e in Europa è di rilievo planetario, mentre le lotte per il potere regionale (ad esempio, Reggio Calabria versus Catanzaro) investono aree limitate quando non una manciata di chilometri quadrati.


La complessità dei fenomeni è tanto più ardua da sceverare in quanto in molti casi le scale si combinano e interferiscono fra loro: Gerusalemme è a un tempo la capitale dello Stato di Israele, la Città Santa di più religioni, un Limes che divide arabi ed ebrei, un agglomerato urbano avvolgente (le nuove costruzioni che accerchiano la città).


Ancora, distingueremo tra geopolitica esterna - conflitti armati o non fra Stati - interna e persino locale - contrasti interregionali sui confini amministrativi, ma anche pianificazione e sistemazione del territorio.


Un concetto fondamentale, in geopolitica, è quello di rappresentazione. Esso ci consente di capire come gli Stati, o i movimenti regionalisti, autonomisti o secessionisti, o i paesi decolonizzati d’anteguerra si rappresentano il territorio che assegnano a loro stessi per ragioni storicamente sempre determinate e, ai loro occhi, legittime: per esempio, la Prussia orientale nel 1945 era di fatto tedesca; i romeni fanno facilmente valere che in Moldavia si parla oggi essenzialmente la loro lingua, e l’elenco potrebbe continuare quasi all’infinito.


Riemergono così le identità nazionali, le nazioni. E non solo in Europa dell’Est. Occorre dunque interrogarsi sul grado di adesione dei cittadini alla nazione cui appartengono, sulla natura di questa adesione, analizzarne la solidità.


La forza del sentimento nazionale, positiva quando rinsalda la stabilità di uno Stato e gli permette di integrare gli stranieri che lo desiderino, non può fondarsi che sulla discussione collettiva. Sotto questo profilo, geopolitica e democrazia sono intimamente connesse.


Giacché, se gli interessi nazionali sono determinati da un grande dibattito pubblico, come fu il caso in Francia per l’Algeria o negli Stati Uniti per il Vietnam, i cittadini definiscono tramite i loro rappresentanti gli orientamenti dello Stato e le nazioni si nutrono di un processo sempre rinnovato di democratizzazione. Consideriamo poi che l’ascesa di uno Stato esige storicamente, a fortiori, questo dibattito geopolitico.


La geopolitica è dunque informazione, ma anche formazione collettiva dei cittadini.


Cominciare dai Balcani


Perché abbiamo scelto di esordire con la crisi adriatico-balcanica e con la guerra jugoslava? Su questa tragedia si esercitano in Italia e in tutto il mondo civile filosofi, letterati, uomini di Chiesa, alcuni dei quali hanno talvolta un peso nelle decisioni dei leader politici, come si è visto, ad esempio, nel caso del riconoscimento della Bosnia-Erzegovina.


Tale sensibilità ha un fondamento essenzialmente morale, e onora chi la esprime. Ma un simile approccio ignora spesso realtà e rappresentazioni, rischiando quindi di falsare la percezione dei decisori e di provocare effetti opposti a quelli desiderati. Ecco perché il ragionamento geopolitico diventa, nel caso jugoslavo, una necessità ineludibile.


Quella jugoslava è la prima guerra europea dopo il 1945. Meglio, viviamo un dramma territoriale inedito, che ha attraversato diverse fasi: 1) La drôle de guerre in Slovenia, che ha sanzionato la disgregazione della Federazione titina; 2) la guerra fra Serbia e Croazia, che ha opposto due nazionalismi in conflitto per il controllo del territorio; 3) il conflitto in Bosnia-Erzegovina, molto simile a una guerra africana, nella quale i gruppi etnici (o sedicenti tali) si affrontano in una lotta di tutti contro tutti, senza esclusione di colpi.


Possiamo noi, italiani ed europei, sentirci estranei a questa tragedia? La tentazione è stata e resta forte di trasferire interamente sulle spalle degli americani il compito di risolvere la crisi nei Balcani, secondo una consolidata mentalità.


Ma Bush ha subito chiarito alle cancellerie europee di considerare la questione jugoslava un affare nel quale gli americani non si sarebbero esposti in prima linea. Solo con l’avvento di Clinton la politica statunitense si è fatta più attiva, con esiti peraltro incerti.


In ogni caso, non possiamo dimenticare che i popoli jugoslavi sono nostri vicini, i quali si massacrano a un centinaio di chilometri dalle nostre frontiere.


La responsabilità italiana appare ora in tutta evidenza. È necessario pensare i Balcani in termini geopolitici, dunque stabilire il nostro interesse nazionale nella regione, per concertarsi con gli alleati.


Se abbiamo finora dato l’impressione di non averlo fatto in misura adeguata alla gravità del pericolo - e questo vale più o meno per tutto l’Occidente - ciò è dipeso anche da una singolare coincidenza geopolitica.


Mentre precipitava la crisi jugoslava, l’Italia si è trovata ad affrontare l’emergenza albanese e il conseguente flusso di immigrati. Ciò che ci poneva un dilemma: accettare che gli albanesi affluissero in massa in Italia, o andare noi in Albania, ad aiutare un paese verso il quale abbiamo contratto una responsabilità storica.


Questo contribuisce a spiegare la prudenza della diplomazia italiana nella crisi balcanica.


Ma ora l’attendismo europeo nei Balcani rischiamo di pagarlo con la balcanizzazione dell’Europa. Non siamo al sicuro. La tragedia jugoslava può riprodursi domani, in forme evidentemente meno violente, in paesi civilissimi, come il Belgio. Ma c’è di più.


Questa guerra divampa mentre le rappresentazioni dell’Europa si frammentano e tendono a confliggere. La vecchia retorica europeista, sfociata nell’illusione di unirci per giustapposizione economica e monetaria, è sepolta per sempre.


Maastricht ha dimostrato la difficoltà di fissare a priori una strategia comune in quanto europea. La nuova visione dell’Europa può scaturire solo dalla combinazione di progetti nazionali autonomi e convergenti.


Tali progetti non possono basarsi che su un ragionamento geopolitico.


È così che la geopolitica può servire la causa della pace e della democrazia in Europa.
 

Solctis

Chosen one
Spazi vitali.
Torneremo.

Interessante comunque...pregevole il discorso sulle costruzioni ideologiche della Prima Repubblica e le conseguenze della Glasnost.
 

ElChupaCapra

Useless Member
Passavo qui per caso, ho letto questa vecchissima discussione. Io ho scoperto Limes da qualche mese, cercando chissà dove informazioni di carattere geopolitico, per poi trovare persone come Dario Fabbri e l'ancor più cinico direttore di Limes Lucio Caracciolo, a soddisfare i miei interessi sull'argomento. E certamente una lettura non per tutti, pochi assai sono le persone che conosco a cui stuzzica l'argomento. Ne vale certamente la pena, per creare un panorama molto più completo delle semplicistiche teorie da bar
 

Rebaf

Get a life
Fantacalciaro
Decisamente, sono stato abbonato per anni a Limes, è un unicum nel panorama editoriale italiano.
 

ElChupaCapra

Useless Member
Ora sto leggendo: "Una strategia per l'Italia" (ovviamente), ed "Il turco alla porta", poi immagino acquisterò "Il vincolo interno" e l'ultimo numero "E' la storia, bellezza", quest'ultimo ha il focus su quello che è certamente il carattere numero uno della geopolitica, prima che qualsiasi piano possa venire attuato: convincere le masse che è lecito, e spetta di diritto (storico).

Purtroppo io leggo sempre tutto questo a malincuore, ci sono opportunità attorno a noi, e leggendo ciò, vivo nella speranza che qualcosa di interessante possa prendere piede, e che le cose migliorino. Ma statisticamente, so già che per l'Italia, l'immobilismo è una politica fin troppo radicata ormai, ovviamente si spera per il meglio
 
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