Ad Bestias
C’era così tanta luna che non sembrava neanche notte. Si potevano distinguere facilmente gli ontani, i pini, le querce, e la piantagione di cachi dei Faggiani sulla destra. Le ombre dei pipistrelli si stagliavano per chilometri sulla superficie del sentiero, quasi fossero delle enormi, aberranti creature che si spostano ad intermittenza sul lato luminoso del satellite…forse era proprio così. Forse erano le ombre dei demoni che venivano a prenderlo.
Fatto sta che Tibiuccio, paradossalmente, non ne poteva più di viaggiare sotto quella luce, sotto quel faro discontinuo che lo seguiva, lo scrutava, lo rendeva facilmente visibile a chiunque, vulnerabile. Non lontano da lì c’era il discreto capannone di legno dei Ponteca…non ci andava mai nessuno di giorno, figurati di notte. Sarebbe ripartito alle luci dell’alba, quando un viandante per le vie di campagna non avrebbe incuriosito nemmeno le cornacchie.
La porta era addirittura aperta. Mica c’era qualcuno? Macché…la miseria stessa di quel luogo lo proteggeva dalle cattive intenzioni di improbabili lestofanti. Non c’era nulla che valesse la pena rubare: falci spuntate, badili senza pala, vecchie tenaglie divorate dalla ruggine, scatole di chiodi buoni solo per prendersi il tetano. E un…un grosso ammasso di carne su un tavolo, nell’angolo. Era gennaio, e numerosi suini abbandonavano la vita terrena per ritrovare una nuova esistenza appesi ai soffitti delle cascine, o nelle pentole di acciaio vecchio in compagnia di vegetali bolliti, o nelle celle frigorifere di qualche macellaio. Quel porco era stato lasciato lì sul tavolo, lavorato solo a metà, squarciato da capo a pié e privato delle interiora, ma in una posizione anomala; era lì, a pancia in giù, con le zampe che scendevano parallele alle gambe del tavolo ed il grugno rivolto verso l’esterno. Un raggio lunare, proveniente da una imposta martoriata dalle tarme, ne illuminava i connotati contorti dal dolore e dalla sofferenza a causa di una morte un po’ tardiva. Tibiuccio, una volta abituatosi all’oscurità, poteva distinguere nettamente i rigagnoli di sangue che colavano lungo le gambe del tavolo; dalle unghie e dal naso della bestia gocce cremisi precipitavano sul pavimento di terra battuta: un rumore sordo, plic, ploc, plic, ploc. Doveva essere un lavoro recente. Doveva essere un lavoro notturno abbandonato a metà per qualche motivo; probabilmente il porco si era rivelato insano, il veterinario aveva commesso un errore durante la castrazione, o chissà quale altra leggenda contadina aveva avuto la meglio sulla scienza e sul bisogno di far fruttare quel grasso investimento.
Plic, ploc, plic, ploc. La testa del porco cominciò ad ondeggiare al ritmo delle gocce. Il movimento, accentuandosi, divenne spastico; ben presto un profondo ghigno divise in due il capo del verro. Incisivi, canini, molari, facevano mostra di sé in un pallido quanto inquietante sorriso a trentadue denti. Ben presto i solidi canini caddero, lasciando il posto a sinuose forme ad anelli, dalla punta scura…sembravano bigattini, larve di mosca che si scavavano la propria strada verso la salvezza. Fu allora che Tibiuccio si rese conto di trovarsi seduto a terra, di fianco ad un pentolaccio che probabilmente aveva rovesciato lui stesso; la chiassosa stagnola, sebbene non fosse stata minimamente avvertita dal ragazzo, doveva aver allarmato qualche botolo, i cui latrati finalmente giungevano alle sue orecchie.
Tibiuccio tornò velocemente ad assistere allo spettacolo macabro di quella carcassa: nel frattempo i bigattini avevano sostituito tutti i denti, donando al porco un sorriso serpeggiante. I più vecchi, quelli spuntati dai canini, continuavano a scavare, a sbucare fuori dalla carne, dal grugno, e sembravano non avere fine né coda, come dei grassi pitoni anelliformi; man mano i loro movimenti rallentavano, i loro segmenti compattavano, si allargavano, sino a divenire dei grossi monoliti color bianco sporco, quasi giallo. I due che avevano sostituito i canini inferiori ormai sbucavano, lenti ma inesorabili, dal palato del porco, e si arcuavano, quasi stessero soffrendo: ora il maiale sembrava un grosso babirussa, con le zanne che spuntano davanti agli occhi. La stessa sorte toccava agli altri vermi la cui crescita era inarrestabile, al pari della loro paralisi. La carne cadeva a pezzi ai piedi del tavolo, scoprendo ampie superfici di madreperla, le quali subivano gli incessanti attacchi dei vermi-zanna che, quasi contro la loro volontà, continuavano a crescere ed indurirsi. Quando questo processo terminò, la testa del porco si tramutò nel teschio di un alligatore con seri problemi ossei: alcuni, molti dei vermi avevano arrestato presto la loro crescita, assumendo le fattezze di semplici denti appuntiti, mentre la maggior parte dei bigattini frontali aveva aumentato le sue dimensioni a dismisura, sino a conferire al porco una bizzarra corona di corna, là dove una volta si trovavano i simpatici due buchi del naso. Corna sinuose, spesso a forma di arco, altre dritte, ma tutte inesorabilmente spiraliformi, imperfette, forse infette. Tibiuccio si rese conto di aver gridato, perché il latrato dei cani…di un cane? Non si era mai arrestato, anzi, aveva aumentato l’intensità. Un tanfo di acido gli bruciava i peli del naso: non sapeva dire se si trattasse dei resti del capo del porco in putrefazione sul pavimento, o quella schifezza giallastra che galleggiava nel pentolaccio al suo fianco, e che con tutta probabilità lui aveva vomitato poco prima.
Fu la prima volta che il ragazzo ebbe il coraggio di voltare le spalle al suo putrido compagno di stanza; stava per aprire la porta quando un sonoro picchiettio attrasse la sua attenzione. Voleva solamente aprire quella cazzo di porta e fuggire il più lontano possibile da lì, a costo di lasciare le sue terga in balia dei cani randagi, ma non lo fece; preferì girarsi per scoprire che il ticchettio era dovuto alle mascelle del porco che ripetutamente si aprivano e si richiudevano, come fanno i coccodrilli per scacciare i propri rivali. I nuovi denti, che evidentemente erano divenuti solidi come il diamante, si scontravano incessantemente senza scalfirsi, eppure Tibiuccio poteva giurare che se avesse messo un braccio tra quelle fauci, in pochi secondi si sarebbe trovato un moncherino al posto della mano. Neanche se ne accorse che stava per toccare quel teschio, per accarezzare quella superficie, per assaggiare il materiale di cui era fatto con i suoi polpastrelli. Fu solo a pochi centimetri dal contatto, che il movimento terminò.
“Ora cosa fai, vuoi accarezzarmi? Lo sapevo che eri un ricchione”.
Tibiuccio ritrasse la mano, finalmente padrone delle sue facoltà.
“Tibiù…ma che cazzo hai combinato?”.
“Albé…sei tu?”. Il Tibia neanche ci credeva di aver risposto. Stava parlando a quel teschio così come si risponde al telefono…Così come si risponde quando ti chiama un amico. Alberto.
“Sì, sono io…e tu lo sai chi sei?”.
“Chi sono?”. La domanda era così retorica da divenire pleonastica.
“Oltre ad essere un ricchione, sei anche uno stronzo…E sei anche un uomo morto”.
Tibiuccio cominciava a sentire il peso di quella conversazione che non aveva alcun motivo di essere, sentiva la puzza che proveniva da quelle fauci ogni qual volta si aprivano…Alberto gli stava parlando da così poco tempo, ma lui già avvertiva un disagio innaturale che gli gravava sul groppone, quasi come se sorreggesse le fondamenta di quel capannone. Eppure…eppure continuò, come se fosse la più normale delle discussioni. Come se Alberto fosse realmente lì. Come se non fosse successo mai nulla.
“Albé ma che cazzo vuoi da me? Ma che ti salta in testa? Ma chi ti ha fatto niente?”.
Gli sembrò quasi che il porco sospirasse.
“Tibia, non sono venuto qui per minacciarti o cosa…stai calmo”. Tibiuccio aveva afferrato una zappa malandata, e la brandiva maldestro e tremolante, puntandola contro la carcassa.
“Come se potessi farti qualcosa, in questo stato…sta’ tranquillo, non posso neanche muovermi da questa merda di tavolo sudicio!”.
Col cazzo che Tibiuccio si calmava. Stava parlando con un maiale-drago-coccodrillo-non morto, e Dio solo sapeva il perché.
“E allora, che ci fai qua? Perché sei così? Cosa vuoi da me? Cosa CAZZO vuoi da me?!”.
“Heh. Tibia, ti ricordi quella volta che eravamo nel frutteto dei Savoldi, e c’era Bob, quel cane grosso e rosso che ci inseguiva?”.
“Mi desti una mano a scavalcare, ed io ti lasciai lì. Avevo…avevo paura che ci avrebbero beccati. Tutti e due. Beh…sei venuto qui per chiedermi di scusarmi per una faccenda di quindici anni fa? Non ti fecero niente, né Bob né Savoldi…”.
“Fino a quel momento, Tibia, fino al momento in cui tu mi voltasti le spalle, io credevo che fossimo amici. Anzi, di più…che fossimo complici. Sai come si dice, mal comune mezzo gaudio…eravamo lì per rubare cachi, per rompere i coglioni al Savoldi…neanche ci piacevano i cachi. Lo facevamo per cattiveria. E il fatto di condividere questo male…ci univa. Mal comune, doppio gaudio. Io credevo in questo. Eravamo legati, Tibia, legati da questo doppio cappio rosso che Satana ci aveva porto. E mai avrei creduto che mi avresti lasciato là…che avresti lasciato là metà del tuo destino”.
“Non ti capisco, Alberto…dove vuoi arrivare? Era solo una bravata…avevo paura”.
“È quel che pensai anche io, Tibia, dopo essermela cavata con un paio di fustigate sulle mani. Era solo una bravata…ed eravamo piccoli, incapaci di giudicare. Per questo io e te siamo rimasti amici. Per tutti questi anni. Ma quel cappio che portavamo al collo e che ci teneva legati era sempre lì…ed io l’ho rivisto quando sei venuto a casa mia e mi hai chiesto di aiutarti nella rapina”.
Tibiuccio cominciava a sudare, le gocce passavano da labbro a labbro mentre serrava nervosamente la presa sulla zappa.
“Non…non è stata colpa mia! Io non ti ho fatto niente…io non ho fatto niente! Non ti ho sparato, io…non sono stato io! Non ho fatto niente!”. Le urla aizzarono ancor più nervosamente i cani, che tiravano le catene a cui erano legati. Si sentiva distintamente, il rumore delle catene.
“Esatto, Tibiuccio. Tu non hai fatto niente. Sai cosa mi hanno detto…dopo? Che se ti fossi fermato, se mi avessi portato in ospedale, sarei sopravvissuto. E invece…e invece niente. Non l’hai fatto. Potresti almeno chiedermi scusa…Non fare il ricchione”. Se quel teschio cornuto e deforme avesse potuto cimentarsi in un broncio, l’avrebbe fatto. E invece era sempre lì, sghignazzante. Quel ghigno mandava Tibiuccio ai pazzi.
“Ma che cazzo vuoi…io non ho fatto niente…Non sei morto per colpa mia…Io non ti ho costretto…io ti ho chiesto…tu mi hai aiutato…Non ho responsabilità! Non è colpa mia!”. Per sfogare il nervosismo, il ragazzo sforzò due fendenti con l’arnese che stringeva in pugno.
“Ok, ok…senti, facciamo così. Ti dico tutta la verità. Purtroppo queste cose le ho imparate solo…dopo. Quel cappio…quel cappio esiste davvero. Io e te siamo legati, e non possiamo essere divisi…Verranno…verranno a prendere anche te. Però, se mi chiedi scusa, e giuri solennemente di pentirti…qui, davanti a me…ti salverai. Non ti costa nulla…fallo e la chiudiamo qui”.
Tibiuccio era giunto all’esasperazione. Devastato da improbabili sensi di colpa, nausea, paura, cominciò a dar di matto. Con la zappa devastò tutto, scaffali, mobilia, altri utensili appesi alle pareti, rovesciò tavoli e tavolini, finché non rimase in piedi il solo bancone con il porco.
“Stronzate…sono tutte stronzate! Questa è solo un’allucinazione…tu non esisti! Tu sei morto! Vaffanculo! Sai che ti dico, Alberto? Vaffanculo! Sei sempre stato un debole, e sei morto per questo! Non mi prenderanno, la polizia, il diavolo, Gesù Cristo o chi cazzo vuoi tu! Basta con queste stronzate! VAFFANCULOOO!!!!!!”.
Con l’ultimo affondo della zappa, ormai ridotta ad un colabrodo, Tibiuccio si abbatté sul cranio del porco, distruggendolo. I pezzi d’osso, cadendo, diventavano di vetro, e fecero un gran baccano nello sbriciolarsi sul pavimento. La stessa zappa perse la lama nell’ultimo attacco, la quale ruzzolò a lungo sul selciato, producendo numerosi quanto rumorosi tonfi. Ad accompagnare il delirio, un concerto di latrati e catene; dei cani randagi dovevano aver individuato il luogo dell’allucinazione, perché sentiva distintamente le loro voci, di poco lontane dal capanno…dovevano essere almeno tre, e puntavano verso la porta.
“Fottiti, fottiti, fottiti, FOTTITI! Fottetevi tutti! Non mi avrete mai…me ne vado!”.
Una voce proveniva ancora dal porco, ormai decapitato. Era flebile.
“Tibiuccio…ti ho mentito. Le tue scuse non ti avrebbero salvato comunque, in ogni caso. Ma ci tenevo ad averle, nella speranza…nella speranza di recuperare qualcosa. Quell’amicizia che evidentemente, non è mai esistita. Hai ragione, sono un debole. Ma questa…”.
Tibiuccio era intento nell’aprire la porta, ma gli tremavano le mani, ed un tavolino che aveva rovesciato glielo impediva. Non se ne era accorto.
“…questa è l’ultima volta che mi volti le spalle!”
Il corpo del porco, pur senza capo, prese vita e si avventò, bipede e furente, sul povero Tibiuccio, che si trovò improvvisamente schiacciato tra la porta e la possente carcassa animata. La forza dell’impatto fu troppo per i vecchi cardini della porta, e in un lampo i due si trovarono avvinghiati a terra, davanti all’uscio. Tibia riuscì a divincolarsi e scappare, ma nel guardarsi dietro non si accorse del cane enorme che con un morso secco alla caviglia lo fece ruzzolare di nuovo nell’erba alta. Ben presto si trovò a lottare contro l’enorme cane, che tentava di fare a brandelli la sua giugulare con le sue tre teste bavose. Prima di perdere i sensi notò una figura alta e scura, umana, avvicinarsi al mostro che lo cingeva per attaccare una catena al collare riposto sulla gola centrale. L’ultimo suo ricordo furono dei piedi caprini…l’uomo rideva e mangiava qualcosa. Forse era un cachi.