Contest 1ª Gara di Scrittura

Ostrègone

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Fantacalciaro
Regolamento

- A questo gioco potranno partecipare tutti, senza obbligo d’iscrizione, cosicché possano giocare, e quindi scrivere, quando più gli aggrada in quel momento.
- Generalmente verranno scritti racconti brevi inerenti al tema scelto, ma sono accettati anche altri tipi di componimento letterario, come ad esempio quello poetico.
- Da quando il giudice decreterà l’inizio della gara i giocatori avranno 20 giorni per mandare i loro lavori in forma privata al giudice. Eventuali circostanze o richieste potranno aumentare o diminuire il numero dei giorni prestabiliti.
- I giocatori, oltre il limite di tempo, dovranno rispettare quello della lunghezza dei loro racconti, che dovrà essere generalmente massimo 3 pagine Word.
- A ogni lavoro si deve allegare sempre un titolo
- Il vincitore della gara per quel determinato tema verrà scelto tramite un Poll nella sezione “l’Accademia”, nel quale si potrà votare i lavori presentati in forma anonima. La vera identità verrà svelata alla fine delle votazioni e il vincitore sceglierà il tema della prossima Gara di scrittura.

Svolgimento

- Viene scelto il tema per la Gara di scrittura del mese.
- I giocatori avranno un tempo prestabilito per scrivere i loro lavori che dovranno concernere il determinato tema.
- In forma privata i lavori, con il titolo, dovranno essere consegnati al giudice che si occuperà poi di raccoglierli e postarli mano a mano in forma ANONIMA nel topic stabilito della sezione “l’Accademia".
- Alla fine del periodo prestabilito il giudice aprirà un poll della durata di circa 10 giorni dove gli utenti potranno votare il componimento da loro preferito.
- Finita la votazione, verranno svelate le identità e si nominerà il vincitore che avrà l’onore di scegliere il prossimo tema.


TEMA: "LA REAZIONE UMANA DI FRONTE ALLA MORTE"

I lavori potranno essere consegnati fino al 20 Settembre (la data potrebbe essere modificata per eventuali motivi).

Inviare i propri lavori via MP a me o inviate una mail all'indirizzo che c'è nel mio profilo.

PS: in questo topic posterò solo io e dopo questo post saranno i vari racconti. Ricordatevi il titolo nel lavoro! :D
 

Ostrègone

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Fantacalciaro
La pistola

Lei si sveglia sempre
Ogni notte
A quell’ora
Per vedere come sta
La sua medicina
Poi si affaccia alla finestra
Guarda le macchine
I viali
E le viene da pensare
Alla mia pistola
Pavimenti di lusso
Dai riflessi cromati
Colloqui allucinanti
E poesie domenicali
E ogni volta che sorride
È un pensiero
Che si innesca
Come fare a fare finta
Che l’amore
Sia un pretesto per restare

Il giorno che sono nato
Ricordi com’ero spaventato
Tremavo nudo contro la luce

Era gennaio
E c’era la neve

Allora mi sono svegliato

In un'altra stanza.
 

Ostrègone

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Fantacalciaro
Io sono morto

Io sono morto
mi hanno ucciso lentamente le lunghe estati
le esperienze perdute
il mare gli amici le amiche
il rifiuto dell'amore, unico modo per sopravvivere ad un'esistenza che normale non è
credere, convincersi, illudersi di essere superiore, indifferente a quelle piccole gioie che rendono la vita degna di essere vissuta
giorno su giorno, pietra su pietra, muro su muro
l'ipocrisia verso se stessi, la simulazione e la dissimulazione inconscia
capace di creare problemi fittizi elevati,
con l'unico scopo di nascondere a se stesso il vero problema, semplice basso umiliante

ora sono morto dentro
e aspetto la realtà della tomba
 

Ostrègone

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Fantacalciaro
Rompere il sigillo


Era il 29 agosto del 2009, Mark Renton respirava affannosamente e sudava freddo mentre maneggiava la lettera che gli era stata consegnata a mano da un certo Fallen.
Le regole del gioco erano spiegate chiaramente ma Mark aveva comunque bisogno di un’ altra dose per accettarle, ma dove se la sarebbe procurata? Era povero da far schifo, ma dalla sua aveva “la mente soddisfatta” come cantava Johnny Cash e a suo parere niente poteva renderlo cosi’ soddisfatto come l’ eroina, il fine giustifica i mezzi ripeteva Mark prima di ogni dose e il suo fine era il benessere, a costo di rubare o abbassarsi a ogni infima azione per renderlo possibile.
E solo 24 ore lo distaccavano dalla possibilità di guadagnare cosi’ tanti soldi da non doversi più preoccupare dell’ astinenza, <<solo 24 ore pensava>> nella sua mente, <<il fine giustifica i mezzi, 24 ore e sarò apposto in entrambi i casi>>. Un sorriso soddisfatto e nervoso si allargava sulla sua faccia sfrontata, solo 24 ore…

Anche Jin ricevette la lettera di Fallen, e anche lui sudò freddo, il dubbio lo invase, non aveva mai sognato una cifra cosi’ alta, non sarebbe riuscito a spenderli nemmeno in tutta la sua vita.
Ma a quale rischio? Il gioco valeva la candela? Il pensiero gli svani’ subito dalla mente, non aveva nulla da perdere, la moglie lo aveva lasciato, era stato sfrattato, licenziato, era pieno di debiti e tutto ciò che gli era rimasto era un completo elegante che continuava a indossare sebbene ormai era quasi un’ anno che viveva di elemosina.
L’ alcol era il suo unico conforto, tanto che tra i senzatetto il suo nome era già stato dimenticato, per tutti ormai era Jin anche se a lui non piaceva essere chiamato cosi’, ma aveva imparato a sopportarlo. Ancora si torturava sul da farsi, ma la fredda realtà era che aveva già deciso.
<<Solo 24 ore>> pensava Jin <<e potrò liberarmi di tutti i miei problemi, e di questo nome cosi’ irritante>> in entrambi i casi…

Fallen aveva pensato bene di consegnare a Chestnut Barrow ed Elizabeth Parker un'unica lettera, i due ragazzi si erano guardati negli occhi spaventati e si erano preparati a discutere, sebbene entrambi sapessero che infondo la scelta era stata già fatta. Ne avevano viste di cose strane i due amanti in fuga, ma ancora si chiedevano come avesse fatto il mittente a trovarli e si ripetevano che se un semplice postino li aveva scovati anche gli sbirri potevano farlo.
Chestnut diceva a Elizabeth che sarebbero stati insieme anche oltre la morte, il volto di Elizabeth rigato dalle lacrime si avvicinò a quello di Chestnut baciandolo e ripetendo che almeno uno dei due avrebbe avuto abbastanza soldi da sparire e ricrearsi una vita dopo che le acque si fossero calmate. Chestnut sperava che Elizabeth avrebbe vinto, allo stesso modo Elizabeth sperava segretamente di vincere e vergognandosi, visto che questo avrebbe segnato la sua separazione dalla persona amata. <<Solo 24 ore>> pensava e la sua vita sarebbe cambiata completamente…

Il giro di consegna delle lettere di Fallen si concluse con Rick Segal, che appena letto il contenuto aveva deciso di accettare senza nemmeno pensarci su. Le regole erano chiarissime, una revolver da 5 colpi caricata con 4, solo un vuoto nel tamburo, cinque partecipanti, una specie di roulette russa dove solo uno sarebbe sopravvissuto e una volta restato l’ unico in vita avrebbe incassato un premio in denaro cosi’ grande da non dover più muovere un dito per tutta la vita. In realtà i soldi non interessavano Rick, aveva solo un mese da vivere, cancro, era un malato terminale. Ma ironia della sorte ciò che più interessava Rick era vivere, non sopravvivere come aveva fatto fino ad allora.
Rick aveva terminato le medie, il liceo e l’ università sempre con il massimo dei voti, aveva conosciuto una ragazza e dopo un lungo fidanzamento l’ aveva sposata, vivevano insieme da anni e lui non l’ aveva mai amata, in tutta la sua vita non aveva mai amato niente e nessuno, non aveva mai provato nessuna sensazione che lo avesse reso vivo, nessun rischio, unica eccezione era stata quando aveva ricevuto la notizia di essere malato terminale e di avere solo un mese di vita, misera consolazione per un intera vita vuota.
Era per questo che Rick accettava di partecipare al sadico gioco descritto nella lettera, voleva di nuovo provare la sensazione di vita che solo la minaccia di un una pistola alla testa poteva provocare, e sapeva che quella sensazione lo rendeva vivo, perché secondo lui un cancro era come una pistola alla testa, pronta a sparare. <<Solo 24 ore>> pensava Rick e avrebbe impugnato quella revolver fregando il cancro e la morte, la partita a scacchi con l’ oscura signora per lui era appena iniziata, questa si che era vita.

Le ore passarono lente per tutti i partecipanti, tutti escluso Mark che già assaporava la dolce estasi che l’ eroina gli avrebbe procurato.

I partecipanti erano tutti puntuali, seduti al tavolo rotondo del desolato locale indicato sulla lettera, nessuno aveva intenzione di presentarsi agli altri, che senso avrebbe avuto infondo conoscere delle persone già morte?
La pistola era sul tavolo, senza sicura e pronta a far fuoco, sebbene nessuno osasse raccoglierla per iniziare il giro.
Dopo interminabili attimi di silenzio Mark prese l’ iniziativa e raccolse la pistola dicendo:
<<Branco di codardi, sarò io il primo a far fuoco cosi’ mi salverò e poi dovrò solo stare ad aspettare che voi bastardi vi spariate per andare incontro alla vostra sicura morte>>.
Gli sguardi attoniti dei presenti si fissarono su Mark che impugnava la pistola.
<<Cazzo questo è meglio dell’ eroina>> pronunciò Mark puntandosi la pistola alla testa <<dovrò farmene di schizzi per provare di nuovo qualcosa di simile>>.
Il suono dell’ esplosione riecheggiava nella stanza, il sangue sgorgava dalla tempia distrutta di Mark, urla di terrore provenivano da Elizabeth, che sebbene era ricercata per omicidio non aveva mai immaginato quanto fosse impressionante guardare qualcuno che si toglieva la vita di sua spontanea volontà.
<<La sua ultima dose>> pensò Jin sfilando con orrore la pistola dalle mani del morto e puntandosela alla tempia. Quasi per rispettare il solenne silenzio che si era creato dopo la morte del primo partecipante Jin non pronunciò una parola e sparò, anche in questo caso esplosione e sangue furono la risposta del dito premuto sul grilletto.
Lacrime e terrore sulla faccia di Elizabeth, sudore freddo sulla fronte di Chestnut e Rick.
Chestnut impugno la pistola dicendo <<E’ il mio turno ora>> e rivolgendosi a Elizabeth disse << non sopporterei mai di poter restare l ‘ ultimo con te, meglio farlo ora>> Elizabeth baciò singhiozzante le labbra del suo amante dicendo <<Ti amo>> e aspettò i lunghissimi attimi prima dell’ esplosione. Con tutta se stessa sperava di uscire viva da quella situazione, a costo di dover sfilare la pistola dalle mani morte dell’ unica persona che avesse mai amato in tutta la sua vita.
Cosi’ fù, tra lacrime, grida disperate e orrore Elizabeth prese la pistola e se la puntò alla tempia, pronta a sparare ma non abbastanza pronta a raggiungere il suo Chestnut.
Il pensiero che la paura della morte fosse più forte dell’ amore che provava per il suo ragazzo la disgustava, ma ora non era momento di pensare, ora doveva solo sparare, una frazione di secondo e la sua vita sarebbe cambiata.
Il click sordo del grilletto scattato a vuoto inondo di lacrime le guancie già bagnate di Elizabeth, che ora piangeva di gioia, era sopravvissuta! aveva vinto! e ora doveva solo rifarsi una vita, avrebbe sentito la mancanza di Chestnut ma prima o poi le sarebbe passata, tutti quei soldi ora erano suoi.

Con fare spavaldo Elizabeth passò la pistola a Rick che ormai era congelato dal terrore, la morte aveva vinto di nuovo, come per il cancro adesso l’ oscura signora gli aveva di nuovo puntato una pistola alla testa ma non gli aveva lasciato la sensazione sublime del dubbio, ancora una volta l’ occasione di vivere gli era stata negata, ironia della sorte ora doveva concludere la partita a scacchi facendo cadere il re, era stato sconfitto su tutti i fronti, più nessuna possibilità, solo la resa, doveva impugnare la pistola e sparare l’ ultimo colpo rimasto, sebbene già sapesse di non aver alcuna speranza di sparare a vuoto.
Rick ripensò a “Il settimo sigillo”, era il suo film preferito, ma il silenzio dei suoi pensieri venne interrotto dalla voce squillante di Elizabeth che con fare irritante disse <<Penso che adesso tu debba fare qualcosa con quella pistola>>.
Nello stesso istante in cui quelle parole giunsero al suo orecchio Rick capi’ che questa volta la situazione si era ribaltata. Nel settimo sigillo l’ uomo faceva cadere alcuni pezzi sulla scacchiera, secondo le regole degli scacchi l’ avversario ha il diritto a riposizionarli sulla scacchiera a proprio piacere, proprio per questo nel film la morte li riposizionava in modo da vincere la partita, perché allora lui avrebbe dovuto fare diversamente?
In una frazione di secondo la pistola puntata alla sua tempia cambiò posizione, ora puntava alla testa di Elizabeth, Rick pronunciava parole che terrorizzarono la ragazza <<Anche se mi resta solo un mese di vita non farò cadere il re, continuerò la partita fino allo scacco matto, ora raggiungerai la persona che dici di amare!>> L’ esplosione e il sangue non turbavano per nulla l’ espressione esaltata di Rick che pensava a come utilizzare tutti quei soldi nel poco tempo che gli rimaneva, <<finanziare la ricerca per il cancro???>> pensò allargando ancora di più il suo vitale sorriso, susurrando <<Scacco matto!>>
 

Ostrègone

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Fantacalciaro
Andando al tuo funerale

Dedicato a Mark Oliver Everett


Novara sembra bella oggi. Attraverso le campagne antropizzate dalle risicolture mentre la mia vecchia Innocenti borbotta, la sto facendo correre lungo la statale che mi condurrà verso il cimitero e il suo motore al limite pare volermi dare un avvertimento. Le istantanee di lei sul pavimento del bagno non mi fanno più paura, semplicemente le ho sepolte nella memoria. Alla radio danno dei vecchi pezzi di Billie Holiday, le sue canzoni jazz mi rilassano e rallento l'andatura della macchina. Ormai sono arrivato. Il mio abito nero è impeccabile, nemmeno una piega deturpa il suo rigore, e gli occhiali da sole coprono ogni traccia di insonnia.

Arrivo al cimitero e l'ultimo saluto sta già per iniziare, mia madre mi getta un'occhiata di ghiaccio mentre prendo posto davanti dove, come fossero tanti opliti a piè fermo, i parenti più stretti se ne stanno perfettamente in fila ad ascoltare le parole di un sacerdote stanco e fin troppo ingrassato. La funzione è noiosa, questo funerale celebrato direttamente sulla tomba lo avevo quasi accettato ma, quando il prete nomina per la terza volta il regno dei cieli e prorompe in una filippica sulle virtù morali di mia sorella, mi viene quasi da ridere. Mio padre se ne accorge e mi da un colpo di gomito, cancello il mezzo sorriso dal mio volto e riprendo ad ascoltare le parole di Don Egidio. D'altronde non si può scontentare la nonna, no?

La funzione termina e in breve mi ritrovo attorniato da parenti più o meno lontani, amici, ex fidanzati o semplici conoscenti. Tutti con i fiori in mano e un cordoglio usa e getta. Scanso quella folla lasciando che siano i miei genitori a fare le pubbliche relazioni, io voglio rimanere con mia sorella, solo io e lei. Mi avvicino alla lapide, i becchini hanno appena finito di ricoprire la fossa e su quel freddo pezzo di pietra campeggia la scritta “Elisabetta Brustia 1982 – 2009”. La foto l'ha scelta mia madre, fortunatamente ha optato per un qualcosa di sobrio. Ho sempre odiato le foto allegre sulle lapidi o, peggio, quelle del morto da bambino; come se ci si volesse aggrappare ad un'eterna fanciullezza che, una volta passata, è perduta per sempre. Mentre sono preda di questi pensieri, e i miei genitori continuano nel loro scambio di condoglianze, alzo lo sguardo e noto che poco distante da me c'è un uomo. Mi giro per osservarlo meglio e mi rendo conto che, in realtà, si tratta di un nano. Indossa un abito nero del tutto simile al mio, il naso aquilino caratterizza il suo sguardo mentre una curata barba incornicia finemente il viso. In un primo momento rimango basito, non mi risultava che mia sorella conoscesse dei nani, forse era semplicemente uno dei becchini rimasto più a lungo nel cimitero; tuttavia lo osservo incuriosito, d'altronde un becchino nano non è una cosa usuale e mi sento in qualche modo autorizzato al mio stupore.

“Strana la morte, eh? Ieri sei qui e oggi a danzare con gli scheletri,” il nano si avvicina, tocca un lembo della mia giacca e poi riprende a parlare “ottimo tessuto, poi dovrai dire alla mia sarta dove ti rifornisci. Dove sto io gli abiti tendono a sgualcirsi piuttosto in fretta”. Non riesco a rispondergli, la sua compostezza e il suo umorismo inglese mi stupiscono ancora di più del fatto che sia un nano. “Beh? Sei pronto?” mi chiede quindi mentre si accende una sigaretta. “Pronto? Esattamente a cosa?” gli rispondo tentando di mantenere una certa imperturbabilità. “Oh dei!” sbotta il nano quasi divertito, “fate sempre tutti così, vero? Ad una partita a scacchi, che diamine.” Non faccio neanche in tempo a protestare che il nano si volta un attimo, armeggia con qualcosa di invisibile ai miei occhi e si rigira mostrandomi una scacchiera. E' un oggetto tutto sommato nei canoni, di buona fattura ma non risalta neanche per una particolare estetica, probabilmente, penso, ne puoi trovare una così ad un qualche tipo di torneo professionistico. Dal canto mio, invece, degli scocchi conosco a malapena i pezzi e l'idea di affrontare un tale impegno intellettuale il giorno del funerale di mia sorella mi inquieta decisamente. Rifletto, quindi, su quanto sia buffa la vita quando il nano ha già messo i pezzi al loro posto invitandomi a cominciare; ci sediamo per terra a gambe incrociate, poi comincio a muovere timidamente un pedone in avanti e lui mi sorride. “Allora, te lo aspettavi o no? Magari avevi in mente una bellissima donna, no? Come nel cinema!” conclude visibilmente divertito. Non so cosa rispondere e semplicemente me ne sto zitto. “Non sei un tipo molto loquace, vero?” mi incalza il nano mentre fa la sua mossa. “Loquace come qualsiasi fratello al funerale della propria sorella” rispondo io mentre tento di far tornare alla mente qualche reminiscenza scacchistica. Il nano ride di gusto, sembra aver trovato divertente la mia battuta. Continuiamo a giocare in silenzio per circa mezz'ora, per la mia scarsa conoscenza del gioco non mi sto comportando male. Tuttavia più vado avanti e più mi rendo conto che la concentrazione sta calando e che, continuando allo stesso modo, sto andando incontro ad una sconfitta.. Ad un tratto nell'aria risuona l'inconfondibile melodia di “Sympathy for the devil” dei Rolling Stones. “Oh, perdonami” dice il nano “questioni lavorative.” Sorrido leggermente a mo' di scusa mentre il nano prende dalla tasca un cellulare di ultima generazione, si allontana e incomincia a parlare animatamente con il suo misterioso interlocutore. Tutto intorno al nostro piccolo angolo scacchistico il tempo pare essersi fermato, la cosa mi rende decisamente impaziente di finire la partita. Dove sono tutti? Penso mentre osservo la scacchiera alla ricerca della mossa giusta.

La partita mi sta scivolando dalle mani, devo trovare il punto di svolta. All'improvviso ho un illuminazione, non ho idea da dove venga, ma riesco a vedere nitidamente le mosse che devo fare, davanti ai miei occhi è come se gli scacchi si muovessero in rapida successione. Prevedo le mosse del mio avversario, lo inganno e intanto tesso la mia strategia. Con una rapidità di mano fuori dai canoni delle mie abilità fisiche sposto qualche pezzo, non devo farmi scoprire subito così non disegno sulla scacchiera una situazione a me favorevole nell'immediato. Poco dopo il nano torna. “Scusami ancora, direi che possiamo riprendere” mi dice sorridendomi mentre si risiede a terra. Posso sentire i battiti del mio cuore in gola, raramente ho avuto così tanta paura nella mia vita e l'adrenalina scorre a fiumi nella mie vene. Tuttavia il mio avversario non pare essersi accorto di nulla, continuiamo a giocare per altri cinque minuti fino a quando il nano incappa nella trappola che gli ho teso. Il nano muove la regina nel posto sbagliato, ho la partita in mano. Traggo un profondo respiro, poi faccio la mia giocata. “Scacco matto” dico serio. Il nano, che fino a quel momento era stato molto sicuro di sé e aveva mantenuto una sorta di perenne sorriso a mo' di presa in giro, cambia completamente espressione. Il terribile spettro della sconfitta si dipinge sul suo volto, deglutisce rumorosamente mentre continua a guardare la scacchiera incredulo. “Abbiamo finito ora?”, il nano annuisce ancora sconvolto. “Ci rivedremo, considera questa partita una piccola anticipazione” conclude, quindi schiocca le dita e la scacchiera scompare alla vista. Sbatto le palpebre incredulo e anche il mio avversario scompare. Non faccio in tempo neanche a chiedermi cosa sia successo che mi sento toccare la spalla. “Andiamo? La funzione ormai è finita da tempo”, mi volto e vedo il viso di mio padre. Le rughe che contornano il suo volto gli donano una malinconia quasi commuovente, annuisco e metto un braccio intorno al suo collo come per fargli forza. “Sì, andiamo papà.”
 

Ostrègone

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Fantacalciaro
Ad Bestias

C’era così tanta luna che non sembrava neanche notte. Si potevano distinguere facilmente gli ontani, i pini, le querce, e la piantagione di cachi dei Faggiani sulla destra. Le ombre dei pipistrelli si stagliavano per chilometri sulla superficie del sentiero, quasi fossero delle enormi, aberranti creature che si spostano ad intermittenza sul lato luminoso del satellite…forse era proprio così. Forse erano le ombre dei demoni che venivano a prenderlo.
Fatto sta che Tibiuccio, paradossalmente, non ne poteva più di viaggiare sotto quella luce, sotto quel faro discontinuo che lo seguiva, lo scrutava, lo rendeva facilmente visibile a chiunque, vulnerabile. Non lontano da lì c’era il discreto capannone di legno dei Ponteca…non ci andava mai nessuno di giorno, figurati di notte. Sarebbe ripartito alle luci dell’alba, quando un viandante per le vie di campagna non avrebbe incuriosito nemmeno le cornacchie.
La porta era addirittura aperta. Mica c’era qualcuno? Macché…la miseria stessa di quel luogo lo proteggeva dalle cattive intenzioni di improbabili lestofanti. Non c’era nulla che valesse la pena rubare: falci spuntate, badili senza pala, vecchie tenaglie divorate dalla ruggine, scatole di chiodi buoni solo per prendersi il tetano. E un…un grosso ammasso di carne su un tavolo, nell’angolo. Era gennaio, e numerosi suini abbandonavano la vita terrena per ritrovare una nuova esistenza appesi ai soffitti delle cascine, o nelle pentole di acciaio vecchio in compagnia di vegetali bolliti, o nelle celle frigorifere di qualche macellaio. Quel porco era stato lasciato lì sul tavolo, lavorato solo a metà, squarciato da capo a pié e privato delle interiora, ma in una posizione anomala; era lì, a pancia in giù, con le zampe che scendevano parallele alle gambe del tavolo ed il grugno rivolto verso l’esterno. Un raggio lunare, proveniente da una imposta martoriata dalle tarme, ne illuminava i connotati contorti dal dolore e dalla sofferenza a causa di una morte un po’ tardiva. Tibiuccio, una volta abituatosi all’oscurità, poteva distinguere nettamente i rigagnoli di sangue che colavano lungo le gambe del tavolo; dalle unghie e dal naso della bestia gocce cremisi precipitavano sul pavimento di terra battuta: un rumore sordo, plic, ploc, plic, ploc. Doveva essere un lavoro recente. Doveva essere un lavoro notturno abbandonato a metà per qualche motivo; probabilmente il porco si era rivelato insano, il veterinario aveva commesso un errore durante la castrazione, o chissà quale altra leggenda contadina aveva avuto la meglio sulla scienza e sul bisogno di far fruttare quel grasso investimento.
Plic, ploc, plic, ploc. La testa del porco cominciò ad ondeggiare al ritmo delle gocce. Il movimento, accentuandosi, divenne spastico; ben presto un profondo ghigno divise in due il capo del verro. Incisivi, canini, molari, facevano mostra di sé in un pallido quanto inquietante sorriso a trentadue denti. Ben presto i solidi canini caddero, lasciando il posto a sinuose forme ad anelli, dalla punta scura…sembravano bigattini, larve di mosca che si scavavano la propria strada verso la salvezza. Fu allora che Tibiuccio si rese conto di trovarsi seduto a terra, di fianco ad un pentolaccio che probabilmente aveva rovesciato lui stesso; la chiassosa stagnola, sebbene non fosse stata minimamente avvertita dal ragazzo, doveva aver allarmato qualche botolo, i cui latrati finalmente giungevano alle sue orecchie.
Tibiuccio tornò velocemente ad assistere allo spettacolo macabro di quella carcassa: nel frattempo i bigattini avevano sostituito tutti i denti, donando al porco un sorriso serpeggiante. I più vecchi, quelli spuntati dai canini, continuavano a scavare, a sbucare fuori dalla carne, dal grugno, e sembravano non avere fine né coda, come dei grassi pitoni anelliformi; man mano i loro movimenti rallentavano, i loro segmenti compattavano, si allargavano, sino a divenire dei grossi monoliti color bianco sporco, quasi giallo. I due che avevano sostituito i canini inferiori ormai sbucavano, lenti ma inesorabili, dal palato del porco, e si arcuavano, quasi stessero soffrendo: ora il maiale sembrava un grosso babirussa, con le zanne che spuntano davanti agli occhi. La stessa sorte toccava agli altri vermi la cui crescita era inarrestabile, al pari della loro paralisi. La carne cadeva a pezzi ai piedi del tavolo, scoprendo ampie superfici di madreperla, le quali subivano gli incessanti attacchi dei vermi-zanna che, quasi contro la loro volontà, continuavano a crescere ed indurirsi. Quando questo processo terminò, la testa del porco si tramutò nel teschio di un alligatore con seri problemi ossei: alcuni, molti dei vermi avevano arrestato presto la loro crescita, assumendo le fattezze di semplici denti appuntiti, mentre la maggior parte dei bigattini frontali aveva aumentato le sue dimensioni a dismisura, sino a conferire al porco una bizzarra corona di corna, là dove una volta si trovavano i simpatici due buchi del naso. Corna sinuose, spesso a forma di arco, altre dritte, ma tutte inesorabilmente spiraliformi, imperfette, forse infette. Tibiuccio si rese conto di aver gridato, perché il latrato dei cani…di un cane? Non si era mai arrestato, anzi, aveva aumentato l’intensità. Un tanfo di acido gli bruciava i peli del naso: non sapeva dire se si trattasse dei resti del capo del porco in putrefazione sul pavimento, o quella schifezza giallastra che galleggiava nel pentolaccio al suo fianco, e che con tutta probabilità lui aveva vomitato poco prima.
Fu la prima volta che il ragazzo ebbe il coraggio di voltare le spalle al suo putrido compagno di stanza; stava per aprire la porta quando un sonoro picchiettio attrasse la sua attenzione. Voleva solamente aprire quella cazzo di porta e fuggire il più lontano possibile da lì, a costo di lasciare le sue terga in balia dei cani randagi, ma non lo fece; preferì girarsi per scoprire che il ticchettio era dovuto alle mascelle del porco che ripetutamente si aprivano e si richiudevano, come fanno i coccodrilli per scacciare i propri rivali. I nuovi denti, che evidentemente erano divenuti solidi come il diamante, si scontravano incessantemente senza scalfirsi, eppure Tibiuccio poteva giurare che se avesse messo un braccio tra quelle fauci, in pochi secondi si sarebbe trovato un moncherino al posto della mano. Neanche se ne accorse che stava per toccare quel teschio, per accarezzare quella superficie, per assaggiare il materiale di cui era fatto con i suoi polpastrelli. Fu solo a pochi centimetri dal contatto, che il movimento terminò.
“Ora cosa fai, vuoi accarezzarmi? Lo sapevo che eri un ricchione”.
Tibiuccio ritrasse la mano, finalmente padrone delle sue facoltà.
“Tibiù…ma che cazzo hai combinato?”.
“Albé…sei tu?”. Il Tibia neanche ci credeva di aver risposto. Stava parlando a quel teschio così come si risponde al telefono…Così come si risponde quando ti chiama un amico. Alberto.
“Sì, sono io…e tu lo sai chi sei?”.
“Chi sono?”. La domanda era così retorica da divenire pleonastica.
“Oltre ad essere un ricchione, sei anche uno stronzo…E sei anche un uomo morto”.
Tibiuccio cominciava a sentire il peso di quella conversazione che non aveva alcun motivo di essere, sentiva la puzza che proveniva da quelle fauci ogni qual volta si aprivano…Alberto gli stava parlando da così poco tempo, ma lui già avvertiva un disagio innaturale che gli gravava sul groppone, quasi come se sorreggesse le fondamenta di quel capannone. Eppure…eppure continuò, come se fosse la più normale delle discussioni. Come se Alberto fosse realmente lì. Come se non fosse successo mai nulla.
“Albé ma che cazzo vuoi da me? Ma che ti salta in testa? Ma chi ti ha fatto niente?”.
Gli sembrò quasi che il porco sospirasse.
“Tibia, non sono venuto qui per minacciarti o cosa…stai calmo”. Tibiuccio aveva afferrato una zappa malandata, e la brandiva maldestro e tremolante, puntandola contro la carcassa.
“Come se potessi farti qualcosa, in questo stato…sta’ tranquillo, non posso neanche muovermi da questa merda di tavolo sudicio!”.
Col cazzo che Tibiuccio si calmava. Stava parlando con un maiale-drago-coccodrillo-non morto, e Dio solo sapeva il perché.
“E allora, che ci fai qua? Perché sei così? Cosa vuoi da me? Cosa CAZZO vuoi da me?!”.
“Heh. Tibia, ti ricordi quella volta che eravamo nel frutteto dei Savoldi, e c’era Bob, quel cane grosso e rosso che ci inseguiva?”.
“Mi desti una mano a scavalcare, ed io ti lasciai lì. Avevo…avevo paura che ci avrebbero beccati. Tutti e due. Beh…sei venuto qui per chiedermi di scusarmi per una faccenda di quindici anni fa? Non ti fecero niente, né Bob né Savoldi…”.
“Fino a quel momento, Tibia, fino al momento in cui tu mi voltasti le spalle, io credevo che fossimo amici. Anzi, di più…che fossimo complici. Sai come si dice, mal comune mezzo gaudio…eravamo lì per rubare cachi, per rompere i coglioni al Savoldi…neanche ci piacevano i cachi. Lo facevamo per cattiveria. E il fatto di condividere questo male…ci univa. Mal comune, doppio gaudio. Io credevo in questo. Eravamo legati, Tibia, legati da questo doppio cappio rosso che Satana ci aveva porto. E mai avrei creduto che mi avresti lasciato là…che avresti lasciato là metà del tuo destino”.
“Non ti capisco, Alberto…dove vuoi arrivare? Era solo una bravata…avevo paura”.
“È quel che pensai anche io, Tibia, dopo essermela cavata con un paio di fustigate sulle mani. Era solo una bravata…ed eravamo piccoli, incapaci di giudicare. Per questo io e te siamo rimasti amici. Per tutti questi anni. Ma quel cappio che portavamo al collo e che ci teneva legati era sempre lì…ed io l’ho rivisto quando sei venuto a casa mia e mi hai chiesto di aiutarti nella rapina”.
Tibiuccio cominciava a sudare, le gocce passavano da labbro a labbro mentre serrava nervosamente la presa sulla zappa.
“Non…non è stata colpa mia! Io non ti ho fatto niente…io non ho fatto niente! Non ti ho sparato, io…non sono stato io! Non ho fatto niente!”. Le urla aizzarono ancor più nervosamente i cani, che tiravano le catene a cui erano legati. Si sentiva distintamente, il rumore delle catene.
“Esatto, Tibiuccio. Tu non hai fatto niente. Sai cosa mi hanno detto…dopo? Che se ti fossi fermato, se mi avessi portato in ospedale, sarei sopravvissuto. E invece…e invece niente. Non l’hai fatto. Potresti almeno chiedermi scusa…Non fare il ricchione”. Se quel teschio cornuto e deforme avesse potuto cimentarsi in un broncio, l’avrebbe fatto. E invece era sempre lì, sghignazzante. Quel ghigno mandava Tibiuccio ai pazzi.
“Ma che cazzo vuoi…io non ho fatto niente…Non sei morto per colpa mia…Io non ti ho costretto…io ti ho chiesto…tu mi hai aiutato…Non ho responsabilità! Non è colpa mia!”. Per sfogare il nervosismo, il ragazzo sforzò due fendenti con l’arnese che stringeva in pugno.
“Ok, ok…senti, facciamo così. Ti dico tutta la verità. Purtroppo queste cose le ho imparate solo…dopo. Quel cappio…quel cappio esiste davvero. Io e te siamo legati, e non possiamo essere divisi…Verranno…verranno a prendere anche te. Però, se mi chiedi scusa, e giuri solennemente di pentirti…qui, davanti a me…ti salverai. Non ti costa nulla…fallo e la chiudiamo qui”.
Tibiuccio era giunto all’esasperazione. Devastato da improbabili sensi di colpa, nausea, paura, cominciò a dar di matto. Con la zappa devastò tutto, scaffali, mobilia, altri utensili appesi alle pareti, rovesciò tavoli e tavolini, finché non rimase in piedi il solo bancone con il porco.
“Stronzate…sono tutte stronzate! Questa è solo un’allucinazione…tu non esisti! Tu sei morto! Vaffanculo! Sai che ti dico, Alberto? Vaffanculo! Sei sempre stato un debole, e sei morto per questo! Non mi prenderanno, la polizia, il diavolo, Gesù Cristo o chi cazzo vuoi tu! Basta con queste stronzate! VAFFANCULOOO!!!!!!”.
Con l’ultimo affondo della zappa, ormai ridotta ad un colabrodo, Tibiuccio si abbatté sul cranio del porco, distruggendolo. I pezzi d’osso, cadendo, diventavano di vetro, e fecero un gran baccano nello sbriciolarsi sul pavimento. La stessa zappa perse la lama nell’ultimo attacco, la quale ruzzolò a lungo sul selciato, producendo numerosi quanto rumorosi tonfi. Ad accompagnare il delirio, un concerto di latrati e catene; dei cani randagi dovevano aver individuato il luogo dell’allucinazione, perché sentiva distintamente le loro voci, di poco lontane dal capanno…dovevano essere almeno tre, e puntavano verso la porta.
“Fottiti, fottiti, fottiti, FOTTITI! Fottetevi tutti! Non mi avrete mai…me ne vado!”.
Una voce proveniva ancora dal porco, ormai decapitato. Era flebile.
“Tibiuccio…ti ho mentito. Le tue scuse non ti avrebbero salvato comunque, in ogni caso. Ma ci tenevo ad averle, nella speranza…nella speranza di recuperare qualcosa. Quell’amicizia che evidentemente, non è mai esistita. Hai ragione, sono un debole. Ma questa…”.
Tibiuccio era intento nell’aprire la porta, ma gli tremavano le mani, ed un tavolino che aveva rovesciato glielo impediva. Non se ne era accorto.
“…questa è l’ultima volta che mi volti le spalle!”
Il corpo del porco, pur senza capo, prese vita e si avventò, bipede e furente, sul povero Tibiuccio, che si trovò improvvisamente schiacciato tra la porta e la possente carcassa animata. La forza dell’impatto fu troppo per i vecchi cardini della porta, e in un lampo i due si trovarono avvinghiati a terra, davanti all’uscio. Tibia riuscì a divincolarsi e scappare, ma nel guardarsi dietro non si accorse del cane enorme che con un morso secco alla caviglia lo fece ruzzolare di nuovo nell’erba alta. Ben presto si trovò a lottare contro l’enorme cane, che tentava di fare a brandelli la sua giugulare con le sue tre teste bavose. Prima di perdere i sensi notò una figura alta e scura, umana, avvicinarsi al mostro che lo cingeva per attaccare una catena al collare riposto sulla gola centrale. L’ultimo suo ricordo furono dei piedi caprini…l’uomo rideva e mangiava qualcosa. Forse era un cachi.
 

Ostrègone

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Fantacalciaro
Per sempre mai più

Una grossa e anziana columba livia – o più comunemente noto piccione – si muoveva, nervosamente e continuamente come una molla arrugginita. Il becco e i due puntini rossi in mezzo alle sporche piume grigie erano rivolti verso il basso, alla ricerca di piccoli, ma soffici, cibi pronti – o più comunemente noti molliche -. Neanche i fragorosi passi dei due ragazzi la fecero desistere dalla personale caccia perpetua. I quattro piedi, su e giù, se ne andarono, e alla fine se ne andò anche lei, probabilmente in cerca di nuovi terreni da battere.

I quattro piedi, intanto, che appartenevano ad un ragazzino e ad una ragazza, si dirigevano determinati verso il centro della città, diretti alla loro casa. I due più piccoli erano, facile ad intuirsi, della ragazza, tuttavia non era difficile intuire anche che la carne più tenera fosse quella del maschietto. Fratello e sorella, avevano appena trascorso una giornata scolastica; lei, primina al Liceo, ogni giorno passava dalle Elementari per mettersi in spalla la cartella dell'Uomoragno e per unire la propria mano con quella del fratellino.
Così lo stava accompagnando a casa anche quel pomeriggio..
Si guardarono a destra, poi a sinistra, e attraversarono la strada per l'ennesima volta. Proseguirono poi dritti, e dopo duecento metri furono costretti a fermarsi: un'edicola infatti vendeva le figurine dei Gormiti.. Quindi fuori il portamonete, e due Da Vinci furono barattati per tre bustine; insoddisfatto il bambino ne volle una quarta.
Mentre con una mano scartava la carta, con l'altra accarezzava un cane Cocker coperto dal collo alla coda per il freddo invernale. Abbandonato l'animale, raggiunsero un nuovo semaforo. E poi un altro ancora. La strada era ogni giorno la stessa, identica. Ma quel costoso, gelido e affettuoso pomeriggio fu diversa.
Fu diversa per sempre.
Il serbatoio di una moto aveva riversato il suo contenuto sopra un tombino. Il liquido scorreva, lentamente, il cuore correva, sempre più velocemente. Pezzi di plastica di vario colore, frantumi di vetro, erano disseminati lungo l'asfalto, attorno alla pozzanghera. Più sopra, poi, c'era la moto piegata su un lato, e davanti un auto in pessime condizioni. Dall'altra parte della strada passanti al telefono.

In una frazione di secondo le quattro palpebre si abbassarono e rialzarono. Lo fecero più volte, mentre lo sguardo tornò giù, alla moto, che sembrava famigliare, e all'uomo steso a terra vicino. No! Non volevano crederlo, volevano richiudere gli occhi, forse per sempre, sperare in un incubo o solo una brutta storia. Il loro corpo non era più in loro possesso, parole senza senso e a gran voce uscivano dal cuore che avevano in gola.
Neanche il corpo di loro padre sarebbe stato più loro.
Mai più.
 
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