[Recensione letteraria] Next, di Alessandro Baricco

Oghard "El Burro" Fireburp

Admin
Fantacalciaro
next_baricco.jpg


Titolo libro: Next
Autore: Alessandro Baricco
Genere: Saggio
Anno di pubblicazione: 2001

In un mondo di falsi intellettualoidi ed intortati televisivi, chi non si è mai trovato alle prese con l'argomento globalizzazione?
Io non faccio eccezione, e tra un "finiremo tutti col parlare inglese" e un "a morte i mcDonald's!", mi è capitato tra le mani questo libriccino del Dio della Holden torinese, Alessandro Baricco.
Si sa, Baricco lo si ama o lo si odia. Per quell'aria di superiorità che ogni singolo carattere dei suoi tomi trasuda, per il volume, ridotto, dei suoi libri, che ha la stessa consistenza del vapore acqueo...tanto fumo, tanta leziosità che alla fine ci lascia con un beneamato sorriso sornione, come quando senti un santone alla tivù regionale e pensi "eh beh, eh beh...". Baricco è uno scrittore del transito, i suoi libri non sono quelli che lasci nel cassetto ad accumulare polvere per periodi lunghi, sono pagine che si leggono sul treno, in pullman, tra una pausa e l'altra della frenetica vita occidentale. Lo scrittore è terribilmente, inesorabilmente specializzato in questa letteratura da passeggio. Ha scelto questa nicchia, ed è indubbiamente bravo in quello che fa. E, tra il biasimo dei suoi detrattori e gli apprezzamenti dei suoi fans, tra dibattiti televisivi su Carlo Giuliano ed indagini sui talebani, Baricco porta alle stampe Next, senza smentirsi.

Innanzitutto partiamo dal formato: il libro è piccolo, non raggiunge le cento pagine, ed è anche comprensibile, dato che si tratta di una raccolta di quattro articoli pubblicati su "Repubblica" al tempo del G8 di Genova, successivamente riveduti e corretti alla luce dell'attentato alle Twin Towers, pochi mesi dopo. Circa un terzo di queste pagine è inoltre costituito da cospicue note, definite "bonus tracks", in cui lo scrittore si lascia andare a chiarimenti, digressioni e riflessioni su alcuni argomenti citati nel corpus del libro, ma separati dal contesto per favorirne la fluidità.

Baricco, come più volte afferma nella breve introduzione, non si atteggia a conoscitore dell'economia globale, né sostiene di aver trovato la soluzione che le teste d'uovo della Scienza Triste per antonomasia cercano da quando è crollato quel benedetto muro a Berlino. La sua indagine parte, si muove e si conclude nello stagno dell'uomo qualunque, si potrebbe anche dire che sguazza nel qualunquismo, ma non vogliamo far arrabbiare nessuno, giusto? E allora non lo diciamo.
Come abbiamo detto poc'anzi, lo scrittore si pone la domanda fondamentale, "Cos'è la globalizzazione?", e ci pone davanti sei risposte, risposte ingenue ma condivise dalla maggioranza della popolazione. Non le riporterò completamente, per instillare in voi il dubbio e la curiosità, ma possiamo dire che spaziano dalla possibilità di acquistare prodotti della stessa marca in tutto il mondo all'usufrutto della Rete delle reti. Baricco sfalda la gran parte di questi totem socioculturali ed arriva ad una conclusione abbastanza ovvia, ovvero che la componente fondamentale della globalizzazione è la colonizzazione culturale statunitense: un esempio su tutti, i maledettissimi remake di tutti i film che vengono prodotti in Europa o all'estero...nulla arriva agli occhi degli americani che non sia attentamente filtrato dalla loro cultura.
Successivamente Baricco discosta il velo di Maya che cela il marionettista dietro il movimento globalizzante: il denaro. Non ci avreste mai creduto, vero?
Inoltre, l'autore parla di un cambiamento delle regole del gioco, con riferimento alla new economy, che non necessita più della guerra per favorire il movimento dei capitali, ma anzi, ha bisogno della stabilità politica, economica e mentale dei vari paesi che le multinazionali vanno a colonizzare; pensiamo al McDonald's, ai centri Nike, che non possono certo aprire in Uganda o in Cambogia...lì fanno altre cose.

Oltre a questo, Baricco ci accompagna nella sua riflessione sui No Global, definendoli "la nostra assicurazione contro tutti i fascismi", e prendendo le distanze sia da loro che dagli otto governi mondiali più potenti al mondo, ritenendo entrambi primedonne alla ricerca dei media, di uno spot (inteso come spazio, posto al sole) pubblicitario; il G8, che cerca di vendere la globalizzazione come un sogno di pace e prosperità per tutti, e le manifestazioni contro di esso che si tengono durante il summit, e mai davanti ad una fabbrica indonesiana, ad esempio, ne sono la prova. Tautologicamente, Baricco ci assicura che i noglobal, quelli veri, sono fondamentali ad impedire che le multinazionali possano crogiolarsi in un mercato senza regole, fatto di trust, cartelli e darwiniana competizione. E a nessuno piace sentirsi dire che viviamo sotto una sola legge, quella del più forte. Il torinese inoltre, spende due parole sul concetto di "brand", ovvero la marca, o meglio, il marchio. Tutti noi siamo pieni di marchi, tendiamo a metterli in mostra, a dimostrare cosa ci piace e cosa no...e il discorso vale per qualsiasi cosa, per qualsiasi mondo in cui decidiamo di entrare, sia esso il Nike Store o il San Carlo di Napoli mentre danno la Carmen di Bizet; e tutto ciò è ancora, inesorabilmente, mosso dal denaro. Paghi per andare al Gods of Metal, paghi per le tue scarpe Nike, paghi per la mostra impressionista, paghi per andare a mangiare al Burger King, paghi per andare a vedere "La Leggenda del pianista sull'oceano" così come per vedere l'Edipo Re di Sofocle, paghi per leggere Kafka così come per leggere Topolino. Spesso Kafka costa anche meno dei Classici Disney. E su questo non ha tutti i torti. Qualsiasi scelta noi facciamo, a livello musicale, cinematografico, estetico in generale, ci permette di renderci riconoscibile all'altro, al nostro collega, indipendentemente dalla "qualità", riconosciuta o meno, della nostra scelta. È un po' come scendere per strada con la maglietta degli Slayer, o con una felpa recante lo slogan "I did it for the lulz", e guardare il nerd davanti a noi che sorride. Può sembrare semplicistico, ma tutto ciò non è assolutamente il male! Fa parte della nostra visione del mondo da millenni; tutta la storia culturale dell'Occidente è una storia di semplificazioni, di generalizzazioni, di compressioni della libertà collettiva: quanti Greci, pacifisti ed iconoclasti, sono stati tagliati fuori da Iliade ed Odissea? Quanta arte, quanta filosofia è stata sommersa dalla Scolastica e dalle rappresentazioni sacre medievali? E il melodramma, oggi seguito da un pubblico che potremmo definire di élite, quanto è diverso da una buona produzione hollywoodiana?
Baricco chiude il libro con un piccolo aneddoto, che esprime sinteticamente il suo pensiero sulla pericolosità della globalizzazione, sulla possibilità che un giorno la nostra cultura, le nostre peculiarità, vengano spazzate via da un deserto uniforme. Questo aneddoto è così esplicativo che mi par giusto riportarlo qui per intero:

alessandro_baricco_pres.jpg
"Quel che penso di queste faccende è riassumibile in una cosa che mi è accaduto di vedere, mesi fa, a Reggio Calabria. Lì c'è un lungomare nuovo di pacca, nel senso che dopo anni in cui passava la ferrovia, in riva al mare, separando città e acqua, finalmente si sono convinti a interrare la ferrovia e a restituire il mare alla città. Per cui adesso se la godono come due fidanzati che lui è tornato da militare. Tutti lì a passeggiare, a qualsiasi ora è festa. Va be'.
Passavo da lì e a un certo punto vedo, sulla spiaggia, due sposi con il solito codazzo di fotografi e parenti. Tacchi a spillo sulla sabbia, la nonna che si arena come una balena suicida, bambini grassi che tirano riso nel mare. Mi son fermato a guardare. C'erano anche delle barchette, tirate su sulla sabbia, barche da pescatori, belle colorate, di legno. E i due sposi sono saliti su quella più bella, era tutta blu e verde, un piccolo peschereccio. Quello che faceva il film (adesso le foto non usano più tanto: agli sposi si fa il film) aveva avuto un'idea. I due sposini sono andati a prua e si sono messi proprio nella stessa posizione di Di Caprio e la Winslet nel
Titanic: in piedi, le braccia spalancate, lei davanti lui dietro, a prendere l'aria di prua. Be', si sono messi d'impegno e nonostante la barchetta, le tonnellate di vestito bianco e l'inesorabile mancanza di vento, si sono girati la loro bella scena, loro due che guardavano l'infinito davanti a sé (che poi era lo Stretto, e appena dietro, la Sicilia) e il fotografo che li riprendeva con la sua videocamera. Puoi giurare che, in montaggio, ci schiaffava su la canzone di Céline Dion. Tutt'intorno parenti e curiosi si sbellicavano dalle risa. È partito anche un applauso. Poi sono scesi e se ne sono andati a mangiare da qualche parte. Si gridavano dietro cose in dialetto stretto, incomprensibili.
Ecco riassunto in una domanda tutto quello che non capisco della globalizzazione culturale: ma lì, a Reggio Calabria, in quel momento,
chi stava fregando chi? Hollywood stava rubando l'anima di tutti, o Reggio Calabria esorcizzava definitivamente Hollywood, prendendola per i fondelli? Chi esce sconfitto da quell'immagine: Titanic, i due sposini, nessuno, tutti quanti?"

Il libro termina così, con una domanda, anzi, con molte domande. Sebbene nella prima parte del libro si lasci un po' andare alla figura del maestrino dei poveri, spiegando con esempi banali la situazione economica globale alle casalinghe di Voghera, successivamente corregge il tiro con lucide digressioni sulle origini della cultura occidentale. Sollevandosi al di sopra delle parti, il torinese non approfondisce, vede l'insieme, arrivando a conclusioni tautologiche, con la tipica falsa ingenuità del falso modesto. Tuttavia, questo distacco quasi arrogante, questa sua volontà di non essere preso sul serio, ai limiti del parodistico, lo rendono pregevole alla lettura.
Son chiacchiere da bar, ma sono piacevoli da ascoltare.
 
Alto